In occasione dell’uscita presso l’editore francese Va Press, della…
Guido Seddone, Maria Lai e Wittgenstein: linguaggio, arte, appartenenza e legami sociali
L’arte ci prende per mano
M. Lai
Quando l’artista Maria Lai nasce ad Ulassai, un piccolo paese montano della Sardegna centro-orientale, nel 1919 il viennese Ludwig Wittgenstein terminava la sua esperienza in trincea durante la prima guerra mondiale e, si narra che, nel suo zaino avesse con sé il manoscritto del suo Tractatus logico-philosophicus che sarebbe stato stampato nel 1921. Tuttavia non è il tempo storico che unisce queste due grandi personalità del ‘900, bensì un legame molto sottile ed articolato fatto di comuni riflessioni estetiche, etiche, sul linguaggio, sulla comunità, sul destino e la vera natura dell’uomo. Entrambi possono certo venire classificati come appartenenti alla grande famiglia del post-modernismo europeo, ma ciò che li lega è, a mio avviso, soprattutto una notevole affinità nell’intendere il ruolo rispettivamente dell’arte e della filosofia nel contesto della storia dell’uomo e dei linguaggi.
Inizierei proprio con un concetto molto caro all’arte di Maria Lai, quello di linea da cui poi lei svilupperà le sue famose opere coi fili e, più ampiamente, con la nozione sociale e filosofica di legame. Certamente l’artista ogliastrina era stata influenzata, come spesso capita agli artisti sardi, dal lavoro degli artigiani locali, ed in particolare dalla tessitura a telaio e dalle suggestioni create da questa opera ancestrale ricca di riferimenti metaforici. Tuttavia, lei si era anche ampiamente interrogata sul concetto di linea che, giustamente lei osserva, non è un concetto che possiamo ricavare dall’esperienza in quanto le linee, lei sostiene, non esistono, siamo noi che le tracciamo. Questa riflessione manifesta già di per sé un profondo interesse filosofico dell’artista che individua nel semplice gesto di tracciare linee la sostanziale differenza tra natura e arte, realtà e gesto, corpo e linguaggio. Attraverso la linea l’indistinzione dell’elemento percettivo si trasforma in qualcosa di significativo, qualcosa cioè che assume un ruolo totalmente diverso attraverso l’esperienza estetica e, in un secondo momento filosofica, del reale. Maria Lai aveva così individuato l’elemento segnico differenziante, per usare la terminologia di Derrida (1971), ossia ciò che produce la differenza originaria rispetto al fatto naturale dando vita alla storia dell’uomo, la società, il linguaggio, l’esperienza comune attraverso l’arte. Visto con gli occhi del filosofo non è affatto un caso che l’esasperazione di questa artista nei confronti delle nozioni di linea e di filo l’abbia, alla fine del suo percorso artistico, portata a stilare delle pagine di libri intessendo la carta con ago e filo e trascrivendo le parole coi fili invece che con l’inchiostro. Infatti la scrittura, come sempre Derrida ci fa notare, è il momento estremo della differenza prodotta dall’uomo che sceglie di tracciare il significato del mondo esperito ed esperibile attraverso i segni delle parole e dei simboli (si pensi alla ideografia), segni che si imprimono tracciando la differenza rispetto alla carta bianca, segni che stabiliscono una relazione riflessiva con il mondo. Tuttavia, se vogliamo, Maria Lai è andata oltre Derrida, perché ha scelto di trascrivere i libri intessendoli con dei fili, ossia con qualcosa che, come riferisce lei, “unisce senza modificare ciò che unisce”.[1] In altre parole l’artista sarda era andata oltre l’universo propriamente semantico del segno, cercando di comprenderne anche la sua natura profondamente sociale ed etica, interesse che aveva spesso evidenziato lo stesso Wittgenstein nella seconda fase del suo pensiero, quello nato dalla revisione del già citato Tractatus completato nei mesi in cui Maria Lai vedeva la luce.
Quindi la linea è l’elemento artistico per eccellenza che diventa fatto creativo che, nella solitudine del suo autore (autore che può essere un artista o una semplice tessitrice al telaio), crea rapporti, relazioni, legami, ponti con l’alterità, dialogo con l’altro etc. per il semplice fatto di dare vita ad una dimensione significativa. Io trovo che Maria Lai sviluppi questa tematica su cinque livelli distinti consapevole, però, che essi sono uniti dal medesimo aspetto poetico e semantico: 1) la linea come traccia dell’artista all’interno dell’opera; 2) la linea come legame che unisce le persone; 3) la linea come possibilità di creare l’universo simbolico; 4) la linea come scrittura, quindi la sua dimensione culturale per eccellenza; 5) la linea come ponte verso l’altro, l’assoluto, il divino. L’elemento unificatore di queste cinque tematiche è, a mio avviso, da rintracciare nel valore comunitario dell’elemento significativo prodotto dalla linea stessa. Infatti la possibilità stessa della linea di essere significativa è dovuta al suo non essere un fatto naturale, bensì legato alla spontaneità e creatività umane che ne fanno qualcosa di comunicativo, simbolico ed infine linguistico. La sua intrinseca natura è, quindi, quella di essere per-un-altro, ossia di venire tracciata a scopo significativo.
Questo è il primo punto fondamentale di affinità con Wittgenstein, il quale nella sua revisione della concezione rappresentazionale del linguaggio, aveva colto che ogni fatto significativo è necessariamente sociale. Niente significa solo per il suo autore, ogni traccia significativa è per-un-altro, quindi non c’è solipsismo nei giochi linguistici perché sono costituiti a partire da una dimensione condivisa. Nel paragrafo 199 delle Ricerchefilosofiche[2] Wittgenstein fa chiaramente riferimento a questo, quando afferma che comprendere una regola significa comprendere una prassi, rimandando così l’intera dimensione semantica, simbolica e pratica dell’uomo alla sua comunità. Maria Lai, parimenti sebbene dal suo punto di vista di artista, era consapevole che tracciando linee si possono stabilire legami pratico-simbolici all’interno della comunità per via della forza coesiva del simbolico. Un esempio è la sua attività all’interno del tessuto urbano del paese natale di Ulassai, costellato di creazioni artistiche destinate a cambiare definitivamente il paese. Creazioni artistiche volutamente scelte dal tessuto culturale e paesaggistico, come ad esempio la raffigurazione stilizzata della capretta, scelta come icona fiabesca del luogo, con cui l’artista ha decorato muri e strade da lei selezionate allo scopo di far emergere lo stilema senza che questo diventi oppressivo. Il risultato è che, visitando Ulassai, imbattersi in una di queste caprette desta la stessa sorpresa che si ha imbattendosi in una capretta reale, che del resto non mancano in questo villaggio di montagna. Oppure la scelta di tracciare in corsivo (la forma di scrittura lineare per eccellenza) frasi per decorare muri di contenimento in cemento allo scopo di decorare semplici opere ingegneristiche riducendone l’impatto ambientale. Questo decorare il paese innesca un fenomeno identificativo attraverso il segno attraverso cui la comunità si ritrova e si riconosce. Questo ritrovarsi, del resto, è ideale, in quanto il simbolo e l’icona mediano le emozioni individuali, creando un’esperienza percettiva condivisa, un legame, un filo appunto. Ecco quindi che ritorna la tematica del filo fisico ed immaginario attraverso cui la dimensione pratica e sociale della comunità è intessuta, e di cui l’artista si fa portatore e fautore. Questa costante ricerca del costruire la comunità da parte di Maria Lai fa riscontro alla consapevolezza di Wittgenstein del linguaggio…
“… come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade dritte e regolari, e case uniformi.”[3]
Wittgenstein sostiene infatti che il nostro universo simbolico e comunicativo è costruito attraverso i giochi linguistici, ossia delle prassi che vengono evolute dagli stessi partecipanti secondo un principio di operatività, e soprattutto secondo “una concordanza della forma di vita”.[4] In altre parole, Maria Lai e Wittgenstein condividono la consapevolezza che gli individui sono legati alla loro comunità attraverso dei legami che vengono consolidati dal linguaggio, dai giochi linguistici ed infine dalla loro forma di vita, ossia dalla loro organizzazione pratica. Sulla base di questa comune contezza, l’artista sarda ha portato avanti un progetto artistico che si sviluppa nella, per e attraverso la comunità, allo scopo di stabilire dei legami umani grazie al ruolo identificativo dell’opera d’arte. Il risultato forse più importante di questa poetica è stata la prima opera relazionale a livello internazionale intitolata Legarsi alla montagna realizzata nel paese di Ulassai l’8 settembre 1981 attraverso il contributo di tutti i cittadini del piccolo paese montano. Maria Lai dopo aver rifiutato di realizzare in paese un’opera ai caduti perché considerata opera ideologica, propose di realizzare una creazione in cui l’elemento del legame sociale e del legame della società con l’ambiente circostante potessero venire messi in risalto. L’artista con l’aiuto delle filatrici del paese creò un enorme nastro azzurro che attraversò le vie del paese andando ad unire ogni singola abitazione in modo da riflettere le tipologie di legami che vi erano tra le famiglie come parentela, amicizia, inimicizia ed indifferenza. Ciascuno di questo legame poteva essere evidenziato attraverso un differente tipologia di fiocco o nodo. L’atto finale dell’opera fu realizzato da rocciatori provenienti da Cagliari i quali portano il capo terminale del nastro in cima alla montagna più alta del paese in stile clean climbing allo scopo di sottolineare la conciliazione definitiva con l’elemento naturale della montagna che circonda il paese e la comunità.
Come ho già sottolineato, questa fu la prima opera relazionale a livello internazionale, il che di per sé ci dice tanto del valore di questa artista. Ma ciò che resta di questa opera irripetibile è l’intento di voler far vivere nella comunità il senso di appartenenza tracciando una semplice linea intesa come formidabile e potente strumento dell’immaginario. Attraverso la linea il legame sociale e con l’ambiente può venire reso esplicito perché essa è un potentissimo elemento di sintesi delle relazioni umane. Parimenti Wittgenstein aveva capito che la filosofia del linguaggio non può prescindere dall’elemento delle relazioni sociali, perché, così come una città è costituita da strade, il linguaggio si sviluppa come strumento pratico di interazione cooperativa. La sua immagine di linguaggio come elemento dinamico e dalle infinite potenzialità espressive è necessariamente sostenuta da un principio di appartenenza del parlante all’organizzazione pratica del vivente della propria comunità. Maria Lai ha altrettanto compreso questo e, come artista, nelle sue opere si è fatta carico del compito di rinsaldare e rinnovare quel vincolo che lega gli individui alla propria comunità attraverso il linguaggio, ed in particolare il linguaggio artistico. Il gesto artistico per Maria Lai diventa lo strumento per dare forma nuova alla società, per creare e rinnovare i vincoli sociali che legano le persone, questo perché per lei tali vincoli vanno fatti risalire all’archetipo artistico e linguistico della linea e del filo. Fare arte significa tracciare linee, tessere fili, ma così facendo si tessono legami, rapporti, vincoli, simboli che plasmano la società.[5]
L’artista è dunque l’individuo che spontaneamente si incarica di tessere nuovi legami, ridisegnare l’universo simbolico e archetipico della propria comunità allo scopo di dare nuova vita alle forme pratiche di vita sociale e comunicativa, creando quindi nuove forme di identificazione. Coinvolta in questo modo, la comunità stessa si fa artista o quanto meno depositaria del lascito artistico e strumento di diffusione di quel messaggio verso il mondo, creando così a sua volta altri legami, altri vincoli indirizzati verso i membri di altri gruppi sociali. Come Wittgenstein, Maria Lai è fortemente convinta del consolidamento sociale operato dal linguaggio espressivo, ed è anche consapevole che il ruolo dell’artista è quello di sfruttare questo potenziale al massimo della sua capacità. Se per il filosofo austriaco la filosofia ha il compito terapeutico di mostrare l’intima connessione tra significato e uso pratico, tra linguaggio e forma di vita, per l’artista sarda è l’arte a dover tenere viva la comunità attraverso la produzione di un universo simbolico che funga da collante per la sua dimensione pratica. L’alternativa a queste due soluzioni è la cristallizzazione delle forme pratiche del vissuto con il conseguente impoverimento dell’esperienza espressiva. Infatti, se Wittgenstein intendeva sbarazzarsi della concezione del linguaggio come rappresentazione dei fatti perché essa impoveriva le potenzialità espressive, Maria Lai sosteneva un progetto artistico di riqualificazione della comunità attraverso l’arte in quanto attività in grado di tessere i fili, ossia i legami dell’espressione collettiva e dell’universo sociale e culturale. La sua è così un’arte che si radica nel territorio e si fa portatrice di un messaggio ed esperienza estetica che da Ulassai vuole raggiungere il resto del mondo. Quindi l’artista come produttore dell’archetipo, ossia dell’esperienza originaria, che, ponendosi al centro dell’universo segnico, pone al centro anche la propria comunità, in quanto il prodotto artistico è fruito in primis da quest’ultima. Tuttavia Maria Lai non poteva non arrivare a questa riflessione senza rifarsi alla sua nozione di arte come tessitura di fili e tracciamento di linee, che, sulla base della loro natura teorica, facilmente si prestano a transitare dal concreto all’astratto, dal particolare all’universale. Infatti, con la linea si tracciano i disegni (si veda la prima fase dell’artista volta ad indagare le potenzialità espressive delle semplici linee), ma con la linea si tessono anche legami perché l’immaginesi fonde con l’immaginario, ossia con quell’universo simbolico-espressivo di cui si nutre la comunità. Per questo il messaggio artistico prodotto nella comunità si apre al mondo e questo spiega ciò che ho definito il livello cinque del lascito dell’artista sarda, ossia la linea come ponte verso l’altro, l’assoluto.
Questo mi pare di scorgere nelle famose ed originali “fiabe tessute” di Maria Lai, tra cui spicca la prima intitolata Tenendo per mano il sole[6] ed in cui l’autrice evidenzia l’intima connessione tra arte, gioco e magia che tanto sarebbe piaciuta a Wittgenstein. Infatti, l’arte non solo attinge alla sorgente del nostro universo simbolico ed archetipico, ossia il gioco, ma lo trasforma anche in nuovi stilemi e forme espressive, creando nuovi legami sociali e forme pratiche. Ecco che quindi l’arte si proietta verso l’infinito attraverso la forza immaginifica del gioco allo stesso tempo sorgente e fine dell’attività creativa. E’ ampiamente risaputo come Wittgenstein abbia scelto di dare risalto al gioco linguistico per evidenziare l’elemento creativo, spontaneo e sociale del linguaggio e delle forme di vita, nonché anche per prendere le distanze dalla concezione neo-empirista di linguaggio come sistema di rappresentazione dei fatti elementari. Il potenziale filosofico della nozione di gioco linguistico consiste nella possibilità di comprendere il linguaggio come un fatto legato alla comunità e alla spontaneità comunicativa umana che hanno come principale fonte l’elemento ludico e creativo. Inoltre la nozione di gioco consente di raffigurarci una comunità come unico arbitro e regolatore delle prassi e delle forme di vita, in quanto il gioco è per definizione svincolato da qualsiasi controllo dogmatico e unificato. Invece, solo la comunità come fruitrice-creatrice del gioco decide sulla validità del gioco e delle sue regole e questo porterà Wittgenstein e in seguito M. Anscombe a sostenere come l’elemento intenzionale sia inscindibile dal fatto dell’appartenenza ad un gruppo sociale. Maria Lai giunge ad una conclusione del tutto simile in quanto è convinta assertrice che l’opera dell’artista non debba mai scindersi dalla propria comunità di appartenenza, ma anzi ne debba trarre linfa vitale. Coerentemente, decise di tornare a vivere nella sua Ulassai, in Ogliastra, già dagli anni ’80 quando ormai era diventata famosa e le sue opere venivano esibite nei più grandi musei del mondo, contribuendo così ad una vera e propria nuova ridefinizione del paesaggio urbano e simbolico del proprio paese. Questo tornare alle proprie radici non fu ovviamente un mero fatto biografico, ma era connesso alla sua ricerca di nuovi impulsi artistici che avrebbe potuto trovare solo laddove il suo primo gioco era stato vissuto. Ecco quindi che l’appartenenza per Maria Lai come per Wittgenstein e Anscombe è l’elemento fondamentale della strutturazione del fatto intenzionale, linguistico e creativo, ciò che ci riconduce a quel legame originario di cui le parole, le linee, i fili ed infine i segni sono l’espressione più condivisibile.
Trovo che si possa riassumere l’opera ed il lascito di Maria Lai con queste parole: non si dà legame senza filo, non si dà comunità senza legame e, siccome coi fili facciamo segni e simboli, non si dà comunità senza universo simbolico ed archetipico. La sua opera è rimasta fedele a questa immagine del vissuto e si è coerentemente sviluppata seguendo questo fruttuoso canone estetico che l’ha portata così lontano riportandola costantemente al punto di partenza. In questo modo l’artista ha vissuto l’appartenenza in genere, come pure l’appartenenza biografica alla sua isola, secondo due forze distinte e convergenti: 1) quella centrifuga che rende il messaggio e l’opera universale, lascito per il mondo e l’umanità; 2) quella centripeta che attira a sé, ossia all’origine, il messaggio ed il suo autore in un costante interfacciarsi con la propria comunità. Infatti l’artista sarda aveva compreso che l’elemento archetipico strutturatosi all’interno della comunità se adeguatamente articolato può diventare un messaggio artistico universale, rivolto al mondo e a tutte le altre comunità. La sua produzione ha avuto infatti modo di diffondersi dal borgo natio al resto del mondo, rendendola una grande protagonista dell’arte contemporanea. Allo stesso tempo, l’appartenenza ha anche una forza centripeta che ci riporta alle nostre origini, ossia alla sorgente autentica di linguaggio ed espressione artistica, ed è a questo che si deve la sua scelta di tornare ad operare ad Ulassai.
Il genio analitico di Wittgenstein aveva raggiunto una visione simile nella sua riflessione attorno alla questione del seguire la regola, in cui lui dipana lucidamente un rapporto duplice con la regola, la regola come aderenza ad un principio, ma anche la regola come necessaria per infrangere la regola stessa. In questo lui aveva compreso che lo spirito linguistico e pratico della forma di vita umana ha un rapporto con la tradizione che non è assimilabile a quello meramente procedurale. La tradizione è piuttosto costitutiva del soggetto linguistico (per quanto la nozione di soggettività in Wittgenstein sia decisamente blanda), ma è anche la dimensione significativa con cui il soggetto si interfaccia in maniera creativa, originale e spontanea, assumendo regole che servono a rompere le regole.[7]Dato che la regola è un fatto arbitrario necessario per avere dei giochi linguistici, l’unico valutatore del suo uso corretto è la comunità stessa che altrettanto arbitrariamente può decidere di convalidare altre regole. Questo perché le regole per Wittgenstein sono espressione di usi e sono necessarie per istruire le persone alle prassi in uso, ma questo non implica che esse abbiano un carattere definitivo. Tutt’altro, interpretando e conoscendo il tessuto di questi usi (Gepflogenheiten, Gebräuche) ne scopriamo la loro contingenza nonché la natura storica ed evolutiva delle società umane e del senso della loro appartenenza. Per Wittgenstein l’indagine filosofica dovrebbe comprendere la trama su cui è intessuta la dimensione sociale, pratica ed intenzionale degli individui e delle loro comunità, ed ovviamente il linguaggio, con la sua molteplicità di usi ed il suo straordinario potenziale comunicativo, rappresenta lo strumento principale di questo tessuto.[8] L’elemento simbolico per entrambi è quindi necessariamente ancorato alla sfera ludico-creativa attraverso cui si stabiliscono ruoli, incarichi, azioni e forme di vita. Di conseguenza lavorare sull’espressione significa in sostanza lavorare sulla comunità e sui legami sociali che la contraddistinguono comprendendone le ragioni della loro storia ed evoluzione.
Per concludere, trovo che l’elemento straordinario dell’opera di Maria Lai sia stata la sua scelta di tornare alle sue radici, ossia alla sorgente della sua creatività e genio artistico, dimostrando il suo personale legame e debito verso il proprio paese e la propria terra. In effetti, questo ritorno coincise con un periodo molto prolifico della sua produzione, quasi a dimostrazione del nutrimento culturale da cui lei attingeva attraverso i legami con le proprie origini. Coerentemente con le sue precoci riflessioni attorno alla nozione artistica e percettiva di linea, lei ne ha compreso la relazione con la nozione di legame con la comunità e ha reinterpretato il ruolo dell’artista come artefice di linee, simboli e strumenti di coesione e riqualificazione sociali, concludendo che l’opera dell’artista è un costante interfacciarsi con la propria comunità di appartenenza. Lei ha così consapevolmente risalito il corso della propria esperienza estetica scoprendone il legame con le proprie origini ed, infine, fondendola con queste stesse origini. Questo suo ritrovare sé stessa attraverso il rapporto che l’archetipico artistico ha con i legami sociali ha reso possibile la fusione della sua produzione con la storia e le tradizioni del paese natio, dimostrando che l’elemento espressivo è inscindibilmente connesso all’uso. Questo genere di esperienza riflette la concezione wittgensteiniana del linguaggio come una trama che viene intessuta dai suoi parlanti attraverso un gioco di costante ritrovarsi come individuali sociali, indissolubilmente connessi al proprio universo interpersonale e simbolico.
Bibliografia
Anscombe (1957), Intenzione. Edusc.
Derrida (1971), La scrittura e la differenza. Torino: Einaudi.
Wittgenstein (1953), Ricerche filosofiche. Torino: Einaudi.
Links con interviste a Maria Lai:
https://www.youtube.com/watch?v=G3_wA3Wg5js
https://www.youtube.com/watch?v=-i5KAyAmeTY
https://www.youtube.com/watch?v=QrW6uUuqgQY
[1] Si veda l’intervista a Maria Lai contenuta in questo link: https://www.youtube.com/watch?v=G3_wA3Wg5js
[2] Wittgenstein, Ricerche filosofiche, § 199: “Ciò che chiamiamo “seguire una regola” è forse qualcosa che potrebbe essere fatto da un solo uomo, una sola volta nella sua vita? – E questa, naturalmente, è una annotazione sulla grammatica dell’espressione “seguire una regola”.
Non è possibile che un solo uomo abbia seguito una regola una sola volta. Non è possibile che una comunicazione sia stata fatta una sola volta, una sola volta un ordine sia stato dato e compreso, e così via. – Fare una comunicazione, dare o comprendere un ordine, e simili, non sono cose che possano essere state fatte una sola volta. – Seguire una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni).
[4] Wittgenstein, Ricerche filosofiche, § 241: ““Così, dunque, tu dici che è la concordanza fra gli uomini a decidere che cosa è vero e che cosa è falso!» – Vero e falso è ciò che gli uomini dicono; e nel linguaggio gli uomini concordano. E questa non è una concordanza delle opinioni, ma della forma di vita.”
[5] L’artista ci ha lasciato un’interessante concezione del ruolo dell’artista in una breve fiaba illustrata intitolata Curiosape, in cui si evidenzia l’importanza all’interno della comunità dell’individuo estroso, curioso e creativo che dà vita alle tradizioni, alle feste e a tutti gli eventi aggregativi attraverso cui i membri della comunità si incontrano. Maria Lai, Curiosape (2002). Si consulti anche il seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=-i5KAyAmeTY
[6] Si veda un estratto su https://www.youtube.com/watch?v=QrW6uUuqgQY
[7] Wittgenstein, Ricerche filosofiche, § 54: “Pensiamo in quali casi diciamo che un giuoco viene giocato secondo una determinata regola!
La regola può essere un ausilio nell’insegnamento del giuoco. È comunicata allo scolaro, che viene esercitato ad applicarla. – Oppure è uno strumento del giuoco stesso. – Oppure ancora: Una regola non trova impiego né nell’addestramento né “nel giuoco stesso, e non è neppure depositata in un elenco di regole. S’impara il giuoco osservando come altri giuocano. Ma noi diciamo che si giuoca seguendo questa o quest’altra regola, perché un osservatore può ricavare queste regole dalla pratica del giuoco, – come una legge naturale a cui si conformano le mosse del giuoco. ______ Ma in che modo l’osservatore distingue, in questo caso, tra un errore dei giocatori e una mossa corretta? – Per distinguere ciò ci sono, nel comportamento dei giocatori, certe caratteristiche. Pensa al comportamento caratteristico di colui che corregge un lapsus linguae. Potremmo accorgerci che qualcuno fa una cosa del genere anche se non conoscessimo la sua lingua.”