Le disavventure di Popper in Italia, di Lorenzo Infantino

Le disavventure di Popper in Italia, di Lorenzo Infantino

 

Da ottobre fino a marzo, ci siamo nutriti solo di verdura cresciuta nellʼorto […]. Il resto dellʼanno, viviamo praticamente con una dieta a base di riso e carote, per risparmiare (for economyʼs sake). Lo stipendio di Karl non è mai adeguato e ora lo è ancora meno di prima […]. In quest’ultimo periodo Karl ha potuto lavorare solo nei fine settimana, ma durante lʼestate lavorava letteralmente ventiquattrʼore su ventiquattro. Negli ultimi tre o quattro mesi era completamente esausto; faceva fatica ad andare a letto perché non riusciva a dormire. Ha finito proprio due giorni prima che il College ricominciasse.1

Così scrive Henni, Josefine Anna Henninger, moglie di Karl Popper, dalla Nuova Zelanda il 29 luglio 1943 a Ernst H. Gombrich, a cui il filosofo aveva iniziato a scrivere a proposito del suo imponente libro dallʼaprile dello stesso anno. Le difficoltà di lavoro di Popper dellʼepoca, allʼinterno dello stesso ambito universitario2, rappresentano in qualche modo lo specchio delle difficoltà che incontrò nella pubblicazione del libro, per cui molto si impegnarono lʼamico Gombrich e F.A. von Hayek, che dopo varie traversie uscì per Routledge alla fine del 1945. Ulteriori disavventure, sebbene di diversa natura, si ebbero per la pubblicazione italiana delle due parti dellʼopera, che videro la luce presso lʼeditore Armando di Roma quasi trentʼanni dopo la loro uscita in Inghilterra, ossia tra il 1973 e il 1974 grazie alla cura di Dario Antiseri. Si è deciso pertanto di riproporre qui il presente articolo di Lorenzo Infantino che, nel recensire un volume riguardante più in generale la fortuna avuta da Popper in Italia, ripercorre alcuni momenti di questa vicenda.

Al di là dellʼaccordo o meno che si può avere con unʼopera filosofica, e quindi anche con questa di Popper, è evidente che per poter con essa concordare o da essa dissentire, conditio sine qua non è che quest’opera ci sia, che possa esser letta affinché su di essa possa prendersi posizione; necessario è insomma che ci sia la possibilità di comunicare, attraverso la stampa e non solo, i propri pensieri. La recensione di Infantino accenna ad alcuni aspetti della fortuna, o iniziale sfortuna, o addirittura ostilità che il libro di Popper ha avuto in Italia, in un ambiente culturale non favorevole al liberalismo. Ma su questo punto ci sarebbe in realtà da aprire una ricerca ben più ampia. Si può concludere queste brevissime linee con alcune mirabili parole di un filosofo, tra lʼaltro, non poco amato da Popper:

Si è soliti dire che un potere superiore può privarci della libertà di parlare o di scrivere, ma non di pensare. Ma quanto, e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in comune con altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che ci comunicano i loro? Quindi si può ben dire che quel potere esterno che strappa agli uomini la libertà di comunicare pubblicamente il loro pensieri, li priva anche della libertà di pensare, cioè dellʼunico tesoro rimastoci in mezzo a tutte le imposizioni sociali, il solo che ancora può consentirci di trovare rimedio ai mali di questa condizione.3

Redazione

Lorenzo Infantino

Le disavventure di Popper in Italia

[MondOperaio, gennaio-febbraio 2002, pp. 138-140]

Il libro di Bruno Lai, Popper in Italia richiama già nel sottotitolo le “disavventure” vissute nel nostro paese dalla filosofia politica popperiana. La storia dovrebbe essere nota. Come però si sa, anche la memoria ha un suo opportunismo. E le cose scomode vengono facilmente rimosse. Vale allora la pena, seguendo la traccia del bel volume di Lai, soffermarsi su qualche significativo momento di quel rapporto, molto spesso ostile, che buona parte della cultura italiana ha intrattenuto con Popper. Com’è noto, The Open Society and its Enemies vede la luce a Londra nel 1945. E, nel 1946, Norberto Bobbio dedica a essa due recensioni, che appaiono rispettivamente su “Il Ponte” e sulla “Rivista di Filosofia”. Bobbio giudica il tono dell’opera “dichiaratamente polemico” e trova che le pagine “dedicate allo Hegel” siano “sin troppo manifestamente libellistiche”. A malgrado di ciò, Bobbio ritiene che quella di Popper sia una “lezione di sobrietà dopo tanti orpelli ideologici e tanta metafisica saccenteria, un invito alla chiarezza in mezzo a tanto medievale oscurantismo, e forse anche un atto di modestia, nonostante l’asprezza della polemica, in mezzo a tanta orgogliosa sicurezza a destra e sinistra”. Dopo le recensioni di Bobbio, seguono anni di “opprimente silenzio”, fino a quando, tra il 1952 e il 1953, il valoroso economista Ferdinando Di Fenizio pubblica su “L’Industria”, la rivista da lui diretta, The Poverty of Historicism. È poi la volta, nel 1955, di Bruno Leoni, il quale ospita su “Il Politico” la traduzione di una relazione tenuta da Popper alla riunione della Mont Pélerin Society, tenutasi a Venezia nel settembre dell’anno precedente. Vengono dopo le parziali critiche di Pietro Rossi, nel cui intervento (1957) Popper è, fra l’altro, accusato di essere incapace “di scorgere le acquisizioni positive dell’analisi metodologica storicista e le direzioni che essa aveva suggerito”. Ma qui, evidentemente, Rossi trascura che dietro Popper c’è la lezione metodologica di Menger e che quella stessa lezione si trova dietro Simmel e Weber. Parziali critiche vengono ancora rivolte a Popper da Bausola nel 1958. Critiche radicali sono invece quelle di Sergio Moravia (1970) e di Carlo Montaleone (1971).

Intanto, nel 1964, era avvenuto qualcosa che avrebbbe reso possibile una più estesa conoscenza del pensiero papperiano e la traduzione italiana della Open Society. Dario Antiseri aveva partecipato, nella primavera di quell’anno, a due seminari tenuti da Popper presso l’Università di Vienna. E nel 1967, in cerca di un editore disposto a pubblicare l’edizione italiana della maggiore opera popperiana di filosofia politica, conosce, tramite Mauro Laeng, l’editore Armando di Roma, una casa editrice di indubbio prestigio scientifico, ma di molto ridotte dimensioni e fuori dai grandi circuiti distributivi. Le risposte che Antiseri aveva ottenuto da Armando, come da ben più grossi e noti editori, non erano state positive. In particolare, Armando giudicava elevati i costi necessari per un’operazione del genere. Il che costituiva solo un aspetto della questione. Il punto prioritario era infatti un altro. Debitamente interpellato, uno dei più influenti filosofi italiani dell’epoca aveva opposto che Antiseri era un “giovane entusiasta” e che, soprattutto, Popper era un “pover’uomo”. Nonostante ciò, Armando aveva nel 1970 ceduto alle insistenze di Antiseri e avviato la traduzione della Open Society.

Ecco allora che, nel 1972, lo stesso Antiseri pubblica presso l’ormai convinto Armando la prima completa monografia dedicata a Popper. È una sorta di prologo all’imminente uscita dell’edizione italiana della Open Society, il cui primo volume vede la luce nel 1973 e il secondo nel 1974. La domanda è: perché un’opera di quel valore, originariamente apparsa nel 1945, è giunta in edizione italiana solo agli inizi degli anni settanta? Nella sua monografia del 1972, Antiseri sostiene che Popper è stato “senz’altro vittima di una (intenzionale o no, non ha importanza) congiura di politica culturale”. Ciò, ovviamente, non esclude l’esistenza di numerose altre vittime, di cui la prevalente cultura italiana dell’epoca ha ben poco di cui gloriarsi e molto di cui vergognarsi. Basti rammentare, fra l’altro, che nell’elenco delle “vittime” si trova anche Socialismo di Ludwig von Mises, il più completo e devastante attacco portato all’economia di piano: un libro che, apparso a Vienna nel 1922, ha visto la luce in italiano solo all’indomani della caduta del Muro di Berlino. In questo caso si è addirittura verificato che studiosi di scienze sociali, professori titolari di cattedre universitarie, di cui sarebbe facile fare il nome, abbiano scambiato Ludwig von Mises con il fratello Richard von Mises, matematico di orientamento neo-positivista.

Torniamo a Popper. Se una “congiura di politica culturale” ha tristemente ritardato la preparazione dell’edizione italiana della Open Society, la sua avvenuta pubblicazione ha suscitato una non meno triste campagna di sussiegosa denigrazione. Popper viene considerato, come Michele Salvati afferma in quegli anni, un filosofo “intollerabilmente reazionario”. E una delle prime bocciature che seguono all’apparizione della traduzione italiana di quell’opera viene ospitata, nel settembre del 1974, su “Rinascita”, la rivista fondata da Togliatti. L’incarico di portare l’attacco alla filosofia politica popperiana viene affidato a Luciano Gruppi, il quale mette in guardia da quello che egli giudica un pericoloso errore: non accorgersi che, per quanto discutibile, la filosofia della scienza di Popper ha una sua dignità, mentre la sua filosofia politica rappresenta il trionfo del dilettantismo. Più esattamente, proprio nel momento in cui, secondo Gruppi, la società capitalistica era in crisi, Popper faceva crollare la fede nelle possibilità umane di controllo razionale della società, alimentando in tal modo la caduta nell’irrazionalismo. “Colpito personalmente” dai grandi eventi a cui aveva assistito, come i successi del nazismo e la “crisi profonda della società statunitense e della società capitalistica in generale”, Popper era rimasto così stordito da non riuscire più a scorgere l’unità dialettica di scienza e società, unità su cui i grandi padri Marx, Engels e Lenin avevano pur scritto parole fondamentali. Poco più tardi (1977), su “Critica marxista”, Tiziano Raffaelli taccia Popper di “maccarthismo” e mette in guardia nei confronti del pericolo rappresentato dall’opera di un autore mosso dall’avversione al marxismo e la cui difesa della tolleranza e della libertà di opinione dev’essere vista con sospetto. Evidentemente, Raffaelli ignorava del tutto l’ammonimento di Tocqueville, secondo cui “chi nella libertà cerca qualcosa che non sia la stessa libertà è nato per servire”.

Gli interventi contro la filosofia popperiana si moltiplicano. Gli attacchi vengono da sinistra e da destra. Lai ne richiama i più significativi. Si sa tuttavia che le invettive contro Popper, apparse abbondantemente anche sulla stampa quotidiana, riempiono intere casse. Antiseri ha avuto la pazienza e forse pure la lungimiranza di conservarne copia in un proprio personale archivio, da cui anche certo opportunismo della memoria riceve la giusta e incancellabile sanzione. Tutto ciò accadeva in un arco di tempo in cui Bryan Magee, filosofo e deputato laburista inglese, vede nella filosofia politica popperiana l’unico punto d’appoggio sul quale possa “basarsi una politica di sinistra non totalitaria”, in cui coesistano “democrazia e umanitarismo sociale” (Lai). È lo stesso arco di tempo in cui un significativo gruppo di intellettuali tedeschi di orientamento socialdemocratico pubblica un volume di adesione alla filosofia politica di Popper. Il volume è corredato con la prefazione di Helmut Schmidt, all’epoca Cancelliere della Germania federale, che si dichiara popperiano. Meno rare, anche se ancora episodiche, divengono in Italia le adesioni alla filosofia politica di Popper. Lo si vede dapprima (1973) sulla rivista “Controcorrente”, di cui è anima Stefano Monti Bragadin. E lo si vede, dopo la metà degli anni settanta, su “Mondoperaio”. Un interessante dibattito viene ospitato nel 1978 da “L’Opinione” e nel 1980 da “Alleanza”.

Quel che accade soprattutto dopo gli avvenimenti del 1989 è storia recente. La corsa di molti a negare il proprio passato e la propria identità culturale è qualcosa di stupefacente, il cui esibizionismo è spesso la chiassosa e affrettata maschera dell’inautenticità, l’improvvido e vano coperchio di una digestione che deve forse ancora incominciare. Andrea Borghini dubita pure oggi che Popper possa essere considerato un “filosofo sociale e politico stricto sensu“. Egli non esita a sostenere che la “filosofia sociale di Popper, per la sua intrinseca vocazione criticista e per la lontananza cronologica tra noi e la temperie storica in cui fu elaborata, è priva […] di una serie di requisiti per affrontare i complessi processi della modernità”. Afferma che “la caccia ai nemici della Società Aperta […], nonostante la passione civile che la nutre, induce spesso Popper ad accantonare l’obiettività storica, a trasformare la Storia in un teatro nel quale va in scena l’eterna lotta fra il Bene e il Male, e a liquidare alcune filosofie, in particolare quella hegeliana, come fiancheggiatrici dei tentativi di riportare in auge la Società Chiusa”. E conclude che, “per una serie di ragioni […], il discorso politico di Popper rimane ai margini del suo pensiero”. Il che è la “logica e coerente conseguenza di un pensiero che nasce in campo epistemologico, che crede di poter allargare il metodo a quello sociale e politico, ma si trova davanti a difficoltà insormontabili che rivelano l’inadeguatezza del metodo stesso dovuto ai suoi gravami positivistici”. Ma qui si salta, una volta in più, ciò che è propriamente popperiano: l’a-ver perspicuamente messo in evidenza le radici gnoseologiche della libertà e del tribalismo. Come epistemologo, Popper aveva ben compreso che la crescita della razionalità si nutre di discussione critica. Tramite questa idea, egli entra nel territorio della filosofia politica. E svelle l’assolutismo gnoseologico, quella concezione che, assegnando a qualche individuo o a qualche gruppo il monopolio della conoscenza, impedisce il libero confronto, la manifestazione del dissenso, la libertà: perché, dove vige tale assolutismo, i cambiamenti “hanno il carattere di conversioni o di rivolgimenti religiosi oppure di introduzione di nuovi tabù magici. Essi non sono fondati su un tentativo razionale di miglioramento delle condizioni sociali”; sono invece il portato della permanente “alterazione” dell’individuo, che non ha più un asilo intimo, inaccessibile al potere.

Tutt’altra è la situazione che si viene a creare con il fallibilismo gnoseologico. Popper ha esattamente scritto: “Possiamo […] dire che il razionalismo è un atteggiamento di disponibilità a prestare ascolto ad argomenti critici e a imparare dall’esperienza. È, in sostanza, l’atteggiamento di chi è disposto ad ammettere che “Io posso avere torto e tu puoi avere ragione, ma per mezzo di uno sforzo comune possiamo avvicinarci alla verità”. È […] “l’atteggiamento della ragionevolezza”, […] molto simile all’atteggiamento scientifico, alla convinzione che nella ricerca della verità è necessaria la cooperazione e che, con l’aiuto del dibattito, possiamo col tempo giungere a qualcosa come l’oggettività”. E ancora: “Ciò che voglio dire, quando parlo di ragione o razionalismo, non è altro che la convinzione che noi possiamo imparare dalla critica dei nostri errori e dei nostri sbagli e, in particolare, dalla critica fattaci dagli altri e, infine, anche dall’autocritica […] un razionalista è semplicemente una persona a cui importa più di imparare che di avere ragione; che è pronto ad imparare dagli altri, non semplicemente accettando l’opinione degli altri, ma piuttosto lasciando volentieri criticare le proprie idee da altri e criticando volentieri le idee altrui”. Come dire che il “fallibilismo non è altro che il non-sapere socratico”.

Il fatto è che il fallibilismo gnoseologico è la base di una teoria egualitaria della razionalità, della discussione critica su un piede di pari dignità. Non a caso Popper afferma che “non c’è alcun uomo che sia più importante di un altro uomo”. Ed è questa la stessa base su cui poggia ogni sistema di democrazia liberale. Non c’è alcuna cesura o incomunicabilità fra l’epistemologia e la filosofia politica popperiane: perché non è possibile alcuna forma di convivenza liberale senza il riconoscimento della nostra comune fallibilità. Chi vuole la libertà deve riconoscersi fallibile. E, per la luce che Popper ha gettato su tale nesso, non possiamo non dirci popperiani.

Bibliografia: Bruno Lai, Popper in Italia. Le disavventure di una filosofia politica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001; Andrea Borghini, Karl Popper. Politica e società, Angeli, Milano 2000. [Cfr. inoltre H. Kiesewetter-D. Antiseri, ʻLa società apertaʼ di Karl Popper. Le vicende editoriali di unʼopera scritta tra difficoltà e accolta tra sospetti e ostilità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007 (N.d.r.)].

1 La lettera è riportata da E.H. Gombrich, Ricordi personali della pubblicazione de La società aperta, in K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, a c. di D. Antiseri, tr. di R. Pavetto, nuova ed. riv. e ampl., Armando, Roma 2002, pp. xi-xxiv: p. xv (il testo originale è: E.H. Gombrich, Personal recollections of the publication of The Open Society, in Popperʼs Open Society After Fifty Years. The continuing relevance of Karl Popper, ed. by I. Jarvie and S. Pralong, Routledge, London/New-York 1999, pp. 17-27: p. 20).

2«Il mio onere di insegnamento era disperatamente gravoso, e le autorità universitarie non solo non mi diedero alcun aiuto, ma facevano di tutto per crearmi delle difficoltà. Mi fu detto che dovevo star bene attento a non pubblicare alcunché finché ero in Nuova Zelanda, e che tutto il tempo dedicato alla ricerca era rubato al tempo che dovevo dedicare al lavoro come docente e per cui venivo pagato». (K.R. Popper, La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, a c. di D. Antiseri, Armando, Roma 1997, 3a ed., p. 135).

3 I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, a c. di F. Volpi, tr. di P. Dal Santo, Adelphi, Milano 1996, pp. 62-63.