Tratto dal libro La religione di Spinoza. Quattro saggi (a…
Guido Calogero e Ernst Cassirer: un incontro a distanza
di Roberto Finelli >
1. Semanticità ed asemanticità del pensare umano.
“Quando Guido Calogero, all’età di ventitre anni, si reca in Germania nel 1927, a spendere con la frequenza di due semestri presso l’Università di Heidelberg la borsa di studio per il perfezionamento all’estero vinta presso il Ministero della Pubblica Istruzione, ha già composto nella sostanza la sua prima opera significativa, la quale è un’elaborazione della sua tesi di laurea sostenuta nel 1925 e che appare ora con il titolo i Fondamenti della logica aristotelica, per i tipi fiorentini di Le Monnier. Nello stesso anno, nel 1927, ottiene la libera docenza di Storia della filosofia, per divenire di lì a poco, nel 1931, all’età di soli ventisette anni, professore di ruolo nell’Università di Firenze, per passare poi, appena trentenne a Pisa, e insegnare sia alla Sapienza pisana che alla Normale.
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E’ appena il caso qui di sottolineare la precocità, non solo accademica, quanto di produzione storiografica e teoretica del giovane Calogero e quanto tale precocità ebbe a segnare successivamente, anche drammaticamente, la sua intera vita. Anche perché di ciò ha scritto assai bene con la finezza psicologica e l’acume teoretico che lo caratterizza Gennaro Sasso[2]. Mentre ciò che più preme ricordare è che il Calogero ventitreenne che si reca ad Heidelberg, dove seguirà per l’anno 1927-1928, corsi di Hoffmann, Klibansky, Jaspers e Rickert, ha già acquisito quel filosofema fondamentale e di lì irrinunciabile della sua visione del mondo, consistente in quella distinzione tra «logo apofantico» e «logo semantico», che attraversa l’interpretazione dell’intera logica aristotelica vista come giustapposizione e intreccio tra una «logica noetica» e una «logica dianoetica».Logo apofantico (o logo asemantico) e logo semantico significano rispettivamente pensiero senza linguaggio e pensiero con linguaggio, ovvero che altro sia un pensiero che pensa secondo immagini e rappresentazioni, secondo scene e figure, che pensi cioè non in parole ma in idee, «se intendiamo questo termine – come scriverà poi Calogero nelle pagine più tarde dell’Estetica – nel suo originario significato greco, di forma visiva dell’oggetto, di raffigurazione, presente all’occhio dello spirito, dell’immediato volto del reale» e che altro sia un pensiero che si presenti come composizione di parole, in quanto quest’ultimo, connotato da una strutturale semanticità, quale rimando di un segno a un significato, in cui il destino dello strumento linguistico è quello di richiamare, oltre la sua immediata presenza, un altro contenuto mentale. Cioè che, di contro alla tesi dell’Estetica crociana dell’identità di intuizione ed espressione, una cosa sia l’«ideazione diretta», quale forma di un pensiero costituito essenzialmente di rappresentazioni visive e di contenuti asemantici, e una cosa sia l’«ideazione parlata»[4], in cui è la trama del linguaggio, con la sua valenza simbolica, a subentrare alla visiva intuizione delle cose. Che una cosa sia dunque il pensare in quanto ambito dell’intuizione e una cosa il pensare in quanto ambito della significazione-comunicazione. Ammettendo ovviamente Calogero che si dia molto pensiero in cui il contenuto semantico non sia immediatamente raffigurabile, perché costituito da concetti, come ad es. nell’espressione «Il pensiero classico concepì la divinità come adiafora ed autosufficiente»[5], dove è chiaro che i significati del logos nascono dallo stesso discorso che li genera, ma con la riaffermazione da parte del nostro che anche i concetti, ovvero i termini più astratti, più universali, che in prima istanza non sono oggetto di visione bensì sono prodotto di linguaggio, non possano che essere terminazioni, cioè rimandare alla fin fine, in ciascun parlante, proprio per la loro natura di segni che spingono oltre sé stessi, alla tesaurizzazione e alla sedimentazione, con diverso grado di stratificazione, di esperienze mentali asemantiche e concrete.
Due modalità del pensiero, quella asemantica e quella semantica, o nel linguaggio di Calogero interprete di Aristotele, quello della logica noetica e quello della logica dianoetica, che si organizzano rispetto a due diversi principi, che sono rispettivamente il principio di determinazione e il principio di contraddizione, o meglio, il principio che evita la contraddizione. Il primo che ci dice che legge inevadibile e necessaria del nostro pensare è che, quale che sia il contenuto del nostro pensiero, esso non può mai essere l’infinito o l’indeterminato, bensì sempre un determinato che è tale proprio perché lascia fuori di sé l’intero campo di ciò che esso non è, dove l’identità è sinonimo di determinatezza e il non essere sinonimo di alterità. «Lungi dal Tutto, e dal Nulla, – scriverà Calogero nelle Lezioni di filosofia – sono sempre legato al Qualcosa»[6]. Il secondo principio, principio dianoetico di contraddizione, o principio dell’onestà disserente come anche poi lo chiamerà Calogero, che esorta a chi compone e costruisce giudizi a non mutare durante l’esposizione l’«apofasi» in «catafasi» o viceversa, ovvero a vietare di porre ciò che si è costituito come affermazione o negazione rispettivamente, e al contrario, come negazione o come affermazione.
Tutto ciò per dire, di nuovo a proposito della precocità intellettiva e interpretativa di Calogero, che egli certamente non giunse sprovveduto sul piano sia teoretico che storico-filosofico, malgrado la giovane età, all’incontro diretto con la cultura tedesca, quale sperimentò nei due semestri trascorsi ad Heidelberg, in modo specifico con gli studi di filosofia antica di Ernst Hofmann e con l’orizzonte culturale del neokantismo mediatogli da Rickert, Raimond Klibansky e, per quello che qui maggiormente interessa, dal pensiero di Ernst Cassirer.” […]