Le radici del totalitarismo comunista dalla dittatura giacobina allo gnosticismo marxista

Le radici del totalitarismo comunista dalla dittatura giacobina allo gnosticismo marxista

 

In occasione dell’uscita presso l’editore francese Va Press, della saggio Les racines des totalitarisme communistes de la dictatura jacobine au gnosticisme marxiste  di Giuseppe Gagliano abbiamo rivolto qualche domanda all’autore.

 

Di quali tematiche si occupa questo nuovo saggio?

 

Il saggio ha una impostazione metodologica mutuata da Jacob Talmon (scomparso nel 1980) che insegnò Storia moderna all’Università di Gerusalemme e da Luciano Pellicani docente di Sociologia politica alla Luiss.

In primo luogo si affronta la contrapposizione tra intellettuali –tecnici e filosofi.

Mentre gli intellettuali-tecnici si rivolgono a una dimensione del sapere specialistica e dai confini determinati  e limitati, al contrario l’intellettuale-filosofo ha come suo principale obiettivo quello di denunciare la illegittimità del sistema di potere dominante annunciando un nuovo messaggio di salvezza usando un pathos profetico ed insieme messianico.

Non è un caso che gli intellettuali-filosofi abbiano manifestato soprattutto nel novecento  un atteggiamento di permanente contestazione e insofferenza verso la democrazia rappresentativa e verso la società capitalistica cagionati, in un’ottica di analisi sociologica, dall’alienazione  e da un senso di impotenza a loro volta originati  dalla consapevolezza della perdita di importanza nel contesto della  società capitalistica.

D’altronde,proprio la società  capitalista  ha determinato – e determina – una costante fonte di tensione per gli intellettuali-filosofi.

Il  rifiuto di stare all’interno del sistema a democrazia rappresentativa e di quello capitalistico determina la formazione, all’interno del gruppo degli intellettuali-filosofi, degli intellettuali radicali che oltre ad assumere un atteggiamento di permanente insofferenza verso il proprio mondo manifestano la volontà – ora attraverso le parole ora attraverso la prassi – di una rivolta contro il  mondo allo scopo di redimerlo in modo radicale.

 

Naturalmente avrai una serie di riscontri storici…

 

…Sì, il primo esempio che posso farvi di intellettuale radicale è certamente Thomas Muntzer il cui obiettivo fu quello di instaurare il regno di Dio in terra a favore dei contadini e contro le classi dominanti.

Alcuni aspetti della riflessione politica di questo autore sono particolarmente significativi poiché anticipano quelli dell’intellettuale rivoluzionario di professione: in primo luogo l’odio contro la ricchezza dei valori borghesi, in secondo luogo l’appello alle classi lavoratrici – che si tradusse in una vera propria istigazione alla ribellione armata – e infine la speranza di poter attuare una rottura rivoluzionaria nei confronti del sistema  dominante.

Il secondo esempio di rilievo storico è rappresentato dai  puritani inglesi che interpreteranno  la politica come prassi religiosa volta a realizzare  il regno di Dio in terra.

Non a caso l’intellettuale puritano anticipa alcuni aspetti fondamentali dell’intellettuale rivoluzionario – cioè del giacobino e del bolscevico – e cioè a dire l’indignazione permanente che si coniuga ad un atteggiamento rancoroso verso la società, il manicheismo morale  e l’intolleranza e l’odio contro i moderati.

D’altra parte un tale estremismo non deve destare alcuna sorpresa poiché l’alternativa indicata dall’intellettuale puritano non conosce mezze misure: il suo obiettivo è infatti quello di  rifondare la società e di creare un uomo nuovo.

Al livello di prassi politica l’intellettuale puritano ritiene  necessario creare una sorta di Chiesa militarizzata in cui ad una  disciplina durissima segue una unità ideologica inflessibile. I  diretti successori  sul piano storico saranno i giacobini che si riferiranno alla ragione nello stesso modo in cui la teologia si riferiva a Dio, e  la filosofia illuministica diventerà, con una certa contraddizione, una sorta di religione. I giacobini infatti saranno i primi a fare della filosofia politica una prassi rivoluzionaria che avrà come suo fine quello di rigenerare la natura umana.

 

Dunque esiste un carattere concettuale astratto dell’intellettuale rivoluzionario.

 

Coloro che fra i giacobini incarneranno pienamente questo modello di intellettuale-rivoluzionario saranno Robespierre e Saint-Just che compiranno un passo fondamentale dal punto di vista storico  trasformando la prassi politica  in una prassi totale alla quale sarà subordinata ogni aspetto della vita.

Come i puritani inglesi, anche i giacobini avranno una visione manichea che procederà di pari passo con un atteggiamento inquisitoriale che dovrà contribuire ad eliminare il male, il vizio e l’egoismo attraverso il patibolo,  periodiche purghe e infine attraverso il terrore collettivo.

Il diretto successore del totalitarismo giacobino sarà  Filippo Buonarroti  fra i più autorevoli intellettuali-rivoluzionari; infatti la creazione del Società di Maestri Sublimi Perfetti rappresenta un esempio chiaro di organizzazione terroristica ante-litteram.

Accanto a Filippo Buonarroti anche la figura di Auguste Blanqui rappresenta un esempio evidente di intellettuale militante antagonista: l’autore fu infatti consapevole del ruolo rivoluzionario degli intellettuali che definì non a caso i paria dell’intelligenza ai quali affidò il compito di abbattere lo Stato borghese.

Sarà poi  Marx  a legittimare  l’ideologia dell’intellettuale radicale che si serve del proletariato come soggetto rivoluzionario o strumento per accedere al potere.

Sotto il profilo della prassi rivoluzionaria Marx comprese che solo attraverso la dittatura del gruppo dirigente sul proletariato sarebbe stato possibile portare a termine la rivoluzione.

Non a caso la concezione leninista del partito non solo  rappresenta la conseguenza  più evidente di quella marxiana ma la sua più compiuta elaborazione teorica ed operativa.

Infatti, nel contesto della rivoluzione bolscevica, il proletariato diventa un oggetto privo di coscienza e bisognoso di essere illuminato da soggetti esterni  e cioè  dagli intellettuali i quali sono a tutti gli effetti i veri e propri agenti consapevoli  del processo rivoluzionario.

 

Sicuramente Lenin è interessantissimo per queste considerazioni.

 

Certo. Proprio a partire da Lenin, l’intellettuale rivoluzionario comprende chiaramente  come la prassi politica  possa essere realizzata soltanto attraverso una organizzazione  di  tecnici dell’azione rivoluzionaria in grado di guidare il movimento operaio verso il cambiamento radicale.

Quest’organizzazione – cioè il partito – non poteva che essere un’organizzazione di combattimento centralizzata: il partito cioè doveva essere controllato da un’avanguardia di intellettuali con lo scopo di conseguire il potere attraverso il proletariato.

Il centralismo che di fatto Lenin realizzò fu un centralismo spietato, dominato da una disciplina rigida attraverso il Comitato Centrale vero e  proprio nucleo attivo del partito.

Non a caso l’organizzazione del partito concepita da Lenin fu un’organizzazione costruita sulla falsariga di quella gesuitica e militare: Lenin  creò cioè un partito strutturandolo con un esercito.

È evidente, che all’interno di una siffatta organizzazione di stampo militare e fortemente centralizzata, non ci fosse posto che per l’ortodossia, non potesse cioè trovare spazio altro che una visione del mondo unitaria e monista. Il dissenso nei confronti del partito era di conseguenza  letto da Lenin come una forma di deviazione opportunistica, come una vera eresia.

Inoltre, all’interno del partito,  il militante trovava il proprio senso di esistere, la propria gratificazione  e il riconoscimento sociale mentre verso l’esterno il suo atteggiamento era o di diffidenza o di ostilità  permanente contro gli altri gruppi.

 

Qui ci siamo occupati spesso di quella che chiami la dimensione messianica…

 

L’intellettuale-rivoluzionario interpreta la sua azione del mondo sottoforma di  messianesimo rivoluzionario: l’intellettuale rivoluzionario è infatti in grado di dare ai suoi adepti uno surrogato in termini laici e secolarizzati della religione promettendo la salvezza e la redenzione.

Ad esempio  la rivoluzione maoista  presenta, secondo Pellicani, alcuni tratti tipici del messianesimo rivoluzionario: una situazione di intensa disgregazione sociale in ambito sociale, la credenza nella rivoluzione come rottura radicale dell’ordine esistente, la presenza di leader  carismatici e rivoluzionari che annunciano una sorta di messaggio di liberazione, una visione polemica e manichea della realtà.

D’altronde la stessa interpretazione marxiana della storia rientra in un contesto simile: il marxismo, come il cristianesimo, attribuisce la vittoria finale agli schiavi, e soprattutto  crede in una visione prometeica in cui scienza e tecnica – insieme al partito – saranno in grado di redimere l’umanità.

Come ha osservato opportunamente Toynbee, Marx avrebbe sostituito Jahveh con la necessità storica e avrebbe visto nel proletariato il popolo eletto; quanto al regno messianico, cioè al regno dell’aldilà indicato dal messaggio ebraico, a questo Marx avrebbe sostituito la dittatura del proletariato.

 

Da qui, naturalmente, una particolare funzione  del partito, che non è quella che conosciamo oggi nelle democrazie

 

Certo poiché è soprattutto nel partito che la possibilità della salvezza si presenterà come si evince non solo dalla riflessione di Lenin ma anche da quelle di Lukàcs e Gramsci.

Per costoro  solo il partito  può indicare la via verso la libertà in quanto il partito ha diritto e il dovere di guidare le masse verso l’affrancamento finale.

E’ indubbio che il partito descritto sia da Lenin che da Lukàcs presenti tratti simili a quelli di  una setta religiosa: come per Lenin anche per Gramsci il partito è una vera e propria istituzione totale poiché deve penetrare dappertutto,  plasmare la vita del militante.

Tuttavia il progetto di radicale rinnovamento, potrà giungere a compimento  soltanto quando partito  e Stato si identificheranno pienamente.

 

Un altro punto è la natura conflittuale del marxismo-leninismo.

 

Infatti , soprattutto nel contesto della dottrina  leninista, la politica e le leggi  possono essere ricondotte  alle leggi della guerra.

Proprio perché il partito leninista condurrà una guerra spietata contro la borghesia e il capitalismo, dovrà essere costruito secondo una logica centralistica spersonalizzando i militanti e attuando specifiche tecniche di indottrinamento che rientrano nel contesto della  guerra psicologica.

Questa dovrà concretizzarsi da un lato nello stimolare l’ostilità degli adepti nei confronti del nemico – cioè della borghesia e del capitalismo – e dall’altro dovrà servire a reclutare adepti all’interno della società civile attraverso la propaganda che costituisce uno degli aspetti più importanti della guerra psicologica.

All’interno della propaganda – ribadiamo aspetto questo fondamentale della guerra psicologica – il militante  dovrà sistematicamente portare avanti una denuncia dei misfatti dell’oligarchia dominante attraverso un’opera di progressiva e graduale demistificazione relativa a tutte le decisioni prese dal potere dominante; una seconda tecnica dovrà consistere nell’ implementare l’insoddisfazione delle classi subalterne allo scopo di disgregare la società civile.

Un’ altra tecnica –sulla quale poniamo l’enfasi nel saggio-consiste nell’utilizzare  parole d’ordine semplici e altamente simboliche in grado di catalizzare le simpatie di coloro che ancora non fanno parte del partito e di rafforzare la coesione interna degli adepti.

In questo contesto il partito diventa una centrale di mobilitazione permanente.

Accanto alla propaganda naturalmente sarà indispensabile pianificare la  penetrazione dei militanti  all’interno della società civile e  dello Stato allo scopo di arrivare ad un controllo capillare e usare il terrore a scopo pedagogico per plasmare l’uomo.

Non è un caso che i grandi intellettuali rivoluzionari abbiano trasformato la società in una gigantesca scuola diretta dal partito, in una sorta di intellettuale collettivo in grado di educare le masse.

Ad ogni modo, affinché il processo di capillare penetrazione si possa compiere, sarà necessario  demonizzare  il nemico e mitizzare il partito e i suoi leader.

 

Non pensi che si debba anche un po’ storicizzare  il ruolo dei rivoluzionari di professione? Gli obiettivi di allora, nel mondo di allora, con le diseguaglianze di allora, hanno una loro ragione d’essere? Per dirla in altro modo: tu descrivi una sorta di carattere eterno, quasi astorico.

Certo la tua è una osservazione perfettamente legittima e che sottoscrivo. Tuttavia il mio obiettivo non è stato quello di svolgere uno studio storico ma quello di svolgere una riflessione sociologica- filosofica allo scopo di individuare alcuni elementi comuni al di là della contigenza storica. Sia tuttavia chiaro – e hai fatto bene a rilevarlo – che non credo alla esistenza di archetipi metastorici.

 

 

 

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