di Marilena Maddaluna > Tra i capolavori racchiusi nella sterminata…
Costituzione e identità: l’ontologia degli artefatti in Aristotele
– > di Annalisa Arci – >
Aristotele non si chiede che cos’è un artefatto e non si pone in maniera esplicita il problema di formulare un’ontologia degli artefatti. Seguiremo il suo percorso attraverso la Fisica, il lessico filosofico di Metafisica Delta e alcuni passi dell’ousiologia di Zeta, Eta e Lambda per mostrare il ruolo del paradigma artefattuale nella determinazione della naturalità e sostanzialità del vivente.
Abstract
In questo saggio affronteremo il problema dello statuto ontologico degli artefatti. Aristotele non si chiede che cos’è un artefatto e non si pone in maniera esplicita il problema di formulare un’ontologia degli artefatti. Seguiremo il suo percorso attraverso la Fisica, il lessico filosofico di Metafisica Delta e alcuni passi dell’ousiologia di Zeta, Eta e Lambda per mostrare il ruolo del paradigma artefattuale nella determinazione della naturalità e sostanzialità del vivente. Più in dettaglio, scopriremo che (§1) gli artefatti non sono sostanze poiché non posseggono un assetto mereologico qualificato, ossia strutturato attorno ad un vincolo sostanziale, ossia una parte che ne veicoli l’essenza, l’identità e, dunque, la sostanzialità (come accade per un gatto, ad esempio, e la sua parte principale, il cuore). E nel quadro teorico qui tracciato, la distinzione tra enti secondo natura ed enti secondo la tecnica non può che rivelarsi preliminare. (§2) Vedremo poi che la forma di un ente secondo la tecnica non è separata in modo qualificato, non ha in sé la causa del suo essere né esibisce l’unità propria delle sostanze naturali. Nel vivente la forma è parte della sua struttura multilivellare; negli artefatti ciò non accade. Infine, (§3) dopo aver chiarito la relazione con i Kooky objects (l’uomo-colto di Fisica I.7 e l’uomo-bianco di Metafisica Zeta 6), ripercorreremo in breve il modello mereologico semplificato su cui poggia l’unità artefattuale in un excursus tra Leibniz, David Wiggins e Lynne Rudder Baker.
- 0- Introduzione
Sembra semplice produrre una descrizione preteorica dei prodotti secondo la tecnica (tavoli, statue, case, mantelli, etc.)[1]. Ognuno di questi è un intero concreto, occupa uno spazio circoscritto e non condiviso con altri interi, ha una propria durata temporale, è scomponibile in parti tipologicamente distinte al tutto (può eventualmente perdere e/o acquisire una o più parti senza che questo ne comprometta l’identità) ed è portatore di una identità vincolata ad una appartenenza sortale[2]. Per quanto queste intuizioni basate sul senso comune possano sembrare robuste, non sono certamente sufficienti per fornire una caratterizzazione metafisica dei tavoli e delle statue. Poniamo che la nostra ontologia sia a paradigma tridimensionalista, la più affine ad Aristotele[3]: allora possiamo dire che tavoli e sedie sono un tipo ontologico (un continuant) di per sé rilevante e dotato di capacità causali sue proprie?
La risposta è negativa. Aristotele non elabora una teoria esplicita degli artefatti, per quanto sia le scienze speciali, soprattutto la fisica, sia la filosofia prima offrano suggerimenti notevoli in merito al loro statuto ontologico. Non conia un termine che sia traducibile con artefatto – parla di enti conformi ad una tecnica (kata techne) o che ne sono l’esito (to technikon) – ma utilizza esemplificazioni individuali (il letto, il tavolo, la casa) in contesti in cui si tratta di spiegare il venire ad essere dei composti ilemorfici (di cani e uomini, per intenderci). Prendere atto dell’esistenza di un tavolo ed utilizzarla quale modello di esemplificazione e comprensione delle realtà naturali non significa affatto formulare un’ontologia degli artefatti. Significa tuttavia dotare di una pregnanza teoretica non certo trascurabile l’assenza di una formulazione teorica esplicita, se è vero che il problema dei criteri in grado di individuare le differenze tra viventi e non viventi si intreccia con la questione dei criteri di sostanzialità.
Aristotele non si chiede mai cos’è un tavolo, men che meno cos’è un artefatto. Si chiede che cos’è la sostanza e cosa fa di una sostanza una sostanza. Ed è proprio all’interno di questa indagine che si registrano le maggiori oscillazioni in merito allo statuto ontologico degli artefatti. In Metafisica Delta 8,1017b10-14 e in Zeta 2,1028b8-13 Aristotele sembra astenersi dal prendere posizione in merito all’inclusione o esclusione degli artefatti dal novero delle sostanze. Diversamente, in Metafisica Lambda 3,1070a5-10 vi è un accenno[4] all’inclusione di altre realtà nella popolazione delle sostanze, mentre Metafisica Zeta 17,1041b28-29, Eta 2,1043a4-5 e 3,1043b21-22 (benché in questo passo ad apertura del ragionamento si trovi un forse) sostengono la tesi dell’esclusione esplicita di tali realtà dal dominio delle sostanze[5].
Ma se Aristotele non si chiede che cos’è un artefatto e se non si pone in maniera esplicita il problema di formulare un’ontologia degli artefatti, sarebbe semplicistico e riduttivo vedere negli artefatti solo degli esempi particolarmente felici per spiegare il nesso forma-materia e fornire la base per quel raffinamento che la costituzione dei viventi (mobili e corruttibili) incorpora. Non è un caso che i processi di produzione tecnica siano interpretati sul paradigma dei processi naturali. E, punto ancora più significativo, la questione dello statuto ontologico degli artefatti nella Metafisica sorge sempre nel medesimo contesto, in connessione con il problema dell’ingenerabilità delle forme e della generabilità dei composti viventi. Infatti, i viventi corruttibili terrestri sono capaci di svilupparsi fino a trovare il proprio compimento, la propria determinazione formale ultima nell’organismo maturo in grado di riprodursi. Al contrario, la forma di un tavolo non esiste separatamente dal composto di cui è forma (o, almeno non gode dello stesso tipo di separatezza propria della forma della specie di un gatto) e non esiste come attualità eterna.
In questo saggio mi propongo di dimostrare che gli artefatti non sono sostanze poiché non posseggono un assetto mereologico[6] qualificato, ossia strutturato attorno ad un vincolo sostanziale, una parte che ne veicoli l’essenza, l’identità e, dunque, la sostanzialità (come accade per un gatto, ad esempio, e la sua parte principale, il cuore)[7]. Per rendere l’idea del percorso che Aristotele compie verso la non sostanzialità degli artefatti motivo ho diviso il testo in tre sezioni: (§1) nella prima parte mostrerò la differenza irriducibile che esiste tra enti secondo natura ed enti secondo la tecnica. (§2) Mostrerò poi che la forma di un ente secondo la tecnica non è separata in modo qualificato, non hanno in sé la causa del loro essere né esibiscono l’unità propria delle sostanze naturali. Infine (§3) mostrerò il modello mereologico semplificato su cui poggia l’unità artefattuale in Aristotele.
- 1 –Gli artefatti non hanno un principio interno di mutamento e stasi
Come è noto, nell’ontologia aristotelica si danno tre ordini di sostanze – dio, le sfere celesti, gli animali e le piante (intesi sia come interi che come composti di parti) – alle quali l’attualità pertiene in modi diversi. Mentre dio e le sfere celesti sono pensiero e movimento in atto, animali e piante ne partecipano in quanto hanno la capacità di riprodursi: l’eternità della specie si pone a garanzia dell’eternità ed attualità delle forme delle specie (species forms)[8].
La forma di un animale gode di queste proprietà in quanto dunamis che ne regola una serie di processi (finalizzati al mantenimento diacronico e all’istinto riproduttivo) facenti capo a una parte dell’anima (threptikon) che, dato il paradigma cardiocentrico della biologia aristotelica, è localizzata nel cuore. La forma in quanto dunamis generativa è condivisa da tutti i membri della stessa specie; è separabile dai singoli individui essendo patrimonio comune alla specie – veicolo di quelle proprietà essenziali che ne costituiscono la natura e l’identità – e che nell’embriogenesi funge da agente nella formazione di esemplari diversi. La natura della cosa precede – se non nell’individuo almeno nella specie – ciò che è in potenza quella natura (priorità secondo l’essere dell’atto rispetto alla potenza), dal momento che dirige finalisticamente il passaggio all’atto; per lo stesso motivo la forma del padre è anteriore alle potenzialità che esibisce il figlio per quella stessa forma.
All’interno di questo quadro concettuale, ed in via del tutto preliminare, gli artefatti vengono parificati agli organismi a generazione spontanea e ai muli, enti che non sono sostanze in senso proprio. Come l’esistenza di questi dipende, rispettivamente, dalle sfere celesti e dai cavalli che sono prioritari per definizione, conoscenza e tempo, così l’esistenza degli artefatti dipende da quella dell’artigiano in quanto agente intenzionale (Katayama 1999). Tuttavia, se le differenze tra tipi di generazione biologica e produzioni intenzionali forniscono il quadro teorico più ampio in cui sorgono i problemi concernenti i modi di composizione ed i criteri di identità nel mutamento propri di interi naturali e artificiali, ad essere rilevanti sono i modi in cui si declina la relazione forma-composto. Per giungere a questo punto e, dunque, per esplicitare i criteri di composizione e di identità degli artefatti, è opportuno iniziare dalla distinzione tra enti che sono per natura ed enti che sono per altre cause che compare in Fisica II.1.
Il primo capitolo del secondo libro della Fisica contiene alcuni indizi significativi per comprendere la nozione di ente naturale. Con l’obiettivo di tracciare una partizione all’interno dell’ontologia del sensibile, nella prima sezione (192b8-193a9) si opera una distinzione tra le cose che sono distinguendole in enti che sono per natura (physei) ed enti che sono per altre cause: sono per natura gli animali e le loro parti, le piante e, tra i corpi, quelli semplici, cioè terra, fuoco, aria e acqua[9]. La focalizzazione dell’argomento a seguire è condotta sugli enti del primo tipo, non essendo i due gruppi collocabili sullo stesso livello epistemologico e non essendo affatto in grado di fornire una risposta esaustiva al perché un determinato ente esista per natura. Il parallelismo è finalizzato alla completa conoscenza degli enti per natura che si ottiene attraverso l’individuazione di quella caratteristica in grado di discriminarli da tutti gli altri, ovvero l’essere dotati di un principio interno di mutamento e di stasi: «ciascuna di esse infatti ha in se stessa un principio di mutamento e di stasi, alcune rispetto al luogo, altre rispetto alla crescita e alla decrescita, altre rispetto all’alterazione»[10].
La natura, tenuta implicita all’inizio del capitolo diviene ora esplicita ed è definita come «principio e causa del mutare e dello stare in quiete in ciò in cui essa appartiene primariamente di per sé e non per accidente», (Fisica II.1, 192b21-23). Il significato principale di natura può essere verosimilmente rintracciato già nel lessico filosofico della Metafisica. Da Delta 4 si ricava il seguente elenco:
- in una prima accezione con physis si intende la generazione delle cose che crescono;
- in un altro senso con physis si intende il termine primo che appartiene a ciò che cresce, dal quale cresce;
- e, ancora, è il movimento primo in ciascuno degli enti naturali, che appartiene a ciascuno in quanto è ciò che è;
- inoltre, si dice physis il primo da cui è o viene ad essere qualche ente naturale, essendo informe ed incapace di mutare dal proprio stato di potenza – nel caso della statua e dei manufatti di bronzo è il bronzo che si dice natura;
- ancora in un altro senso si dice physis la sostanza degli enti naturali, come coloro che dicono essere natura la prima composizione;
- per estensione, allora, e in generale ogni sostanza è detta natura a causa di questa ( la forma), perché anche la sostanza è una qualche natura.
L’esemplificazione artefattuale compare nel punto (iv) dopo che il discorso era stato impostato sullo sfondo del paradigma offerto dagli enti che esibiscono una unità e continuità naturale, in cui la natura indica primariamente la nascita e l’accrescimento quantitativo. L’intervento del primo (principio) da cui qualcosa viene ad essere, qualificato in termini di inerzia e potenzialità, implica un allargamento di prospettiva: il bronzo, infatti, di per sé inerte e in potenza una statua si dice natura solo sotto questo rispetto (in quanto materia prossima della statua atta ad accogliere il principio di movimento). In (v) e (vi) sono poste le basi per giungere al significato fondamentale di natura che compare nella Fisica: in presenza della materia dalla quale gli enti naturali vengono ad essere, non diciamo propriamente di essere in presenza della natura, ma lo diciamo quando la materia ha assunto compiutamente la sua forma e configurazione, come nel caso degli animali e delle loro parti. Dato che sono natura più la forma e la sostanza della materia, natura nel senso primario e massimamente è detta la sostanza delle cose che hanno in se stesse (in potenza o in atto e in quanto sono quelle che sono) il principio del movimento.
Questo risultato, esattamente come il senso dell’esemplificazione artefattuale, è perfettamente conforme al dettato della Fisica: si può dire che qualcosa è un principio interno se appartiene primariamente a ciò di cui è principio e se il suo essere interno è una caratteristica per sé[11] e non per accidente a ciò di cui è principio (192b20-23)[12]. Dopo aver individuato i due tratti definitori della nozione, la spiegazione procede chiamando in causa gli artefatti. Gli enti che derivano dalla produzione tecnica – qui esemplificati da un letto e da un mantello – non hanno alcun impulso connaturato al cambiamento, ma è nella misura in cui accade a tali oggetti di essere costituiti da svariati tipi di materia (pietre, assi, tessuti) che si può dire che possiedono tale impulso, (Waterlow 1982).
La nozione di appartenere primariamente viene dunque chiarita per mezzo dell’opposizione ad un principio o causa che non appartiene primariamente a ciò di cui è principio, ossia la materia di un letto o di un mantello. Ciò implica che l’impulso sia connesso e derivi all’artefatto dalla causa motrice della produzione – l’azione dell’artigiano sulla materia, (cfr., Lear 1988; Wieland 1993): infatti, esso possiede questo impulso solo in modo accidentale, nella misura in cui una parte di ciò che interviene nel suo assetto composizionale è detta essere per natura. Le parti – qui intese nel senso di componenti – del letto possiedono in se stesse un impulso connaturato per cui la physis delle parti materiali e la techne che li costituisce per il tramite delle parti formali sono compresenti in via del tutto accidentale. La differenza tra un gatto ed un letto consiste nel fatto che il primo possiede in modo essenziale un impulso al mutamento ed alla stasi – potremmo interpretare questa essenzialità come qualificazione dell’assetto strutturale della sostanza dotata di determinazioni formali – mentre il secondo lo possiede in modo accidentale – come determinazione che essenzialmente appartiene alle sue parti materiali ma che accidentalmente appartiene all’intero (in quanto l’intero è il risultato di una sequenza di processi che coinvolgono quelle parti).
Ma questo principio non è interno ad un gatto semplicemente perché possiamo localizzarlo in uno specifico livello mereologico – nel cuore, inteso come parte principale, come veicolo della sua identità, particolarità e persistenza – ma perché il gatto ne rappresenta il soggetto primo, (Analitici Secondi I.19,81b30-31; II.16,79b25-28). Ora, cosa si intende con livello mereologico sede della sostanzialità? Aristotele si riferisce al cuore come luogo primo del corpo (De respiratione 14, 474a25-b4), organo situato nel mezzo della sostanza (De juventute 4, 469b24-34) e come principio della sostanza (De vita 23, 478b30-479a3). Il paradigma cardiocentrico, che incardina (sul piano strutturale e teleologico) l’organizzazione anomeomera della forma del vivente ad una parte-principio, prevede che il cuore sia la sede dell’anima e di tutte le capacità-funzioni essenziali e necessarie al mantenimento diacronico della sostanza. A questa classe di capacità corrisponde una articolazione in parti organiche che la rende possibile e che costituisce quella soglia formale – data dagli apparati che rendono possibili nutrizione/generazione, movimento e percezione – su cui riposa l’identità stessa del vivente.
Agli enti che risultano dalle attività umane manca completamente questa soglia formale. Un letto non è il soggetto primo del suo principio di movimento perché si muove, poniamo verso il basso, non in quanto letto, ma in quanto vi è un elemento, la terra, che rientra nel suo assetto composizionale (come parte e come costituente). Nel caso delle sostanze naturali, l’essere dotate di un principio interno rappresenta una determinazione essenziale nella formulazione del principio di identità. E, correlativamente, gli artefatti, in quanto interi dotati di una articolazione ilemorfica che ammette variazioni bi-livellari (al livello della materia e della forma soltanto), sono enti la cui esistenza deriva da cause non naturali ed il cui principio interno di mutamento e quiete non appartiene ad essi primariamente ma in modo accidentale – il che equivale a dire che non compiono determinati movimenti in quanto se stessi ma in quanto altri.
Questo primo tratto non è ancora né una definizione completa di natura né una descrizione esaustiva degli artefatti, ma una descrizione del ruolo che la terra assume in questi interi (come si è detto, parte e componente). Tale descrizione va infatti integrato con il secondo tratto definitorio che chiama in causa i modi in cui si declina la nozione di appartenenza. Il principio interno per accidente (ovvero nella cosa stessa in quanto altra) è esemplificato dal caso del medico: la tecnica medica appartiene primariamente al medico, essendo il medico il soggetto primo del movimento determinato dalla tecnica, dato che attua la guarigione in quanto se stesso (in quanto medico). Tuttavia, la tecnica medica è un principio interno solo per accidente – e, come in ogni altra causa accidentale, la connessione con gli effetti prodotti è priva di regolarità (non in quanto riacquista la salute il medico ha la capacità di curare)[13].
Più in dettaglio, l’uso non ancora tecnicizzato dell’aggettivo aitios – il termine assumerà il significato tecnico di causa solo a partire da II.3 – interviene a rendere intelligibile il modo in cui si danno certi effetti nei prodotti della tecnica e nelle sostanze naturali, qualora siano intese come portatori di una proprietà rilevante (l’uomo-medico). Nel caso del gatto come in quello del(l’uomo-)medico, l’intero dotato del principio di movimento è sia soggetto primo (agente) che risultato (fine) del movimento. Tuttavia, a differenza del principio nelle sostanze naturali, nel caso del medico che cura se stesso il soggetto del movimento è solo per accidente anche il risultato del movimento: l’identità tra colui che guarisce e colui che è guarito è dunque solo accidentale. In questo caso la sostanza viene circoscritta sulla base del possesso di una determinazione accidentale: l’essere medico. Sotto il profilo per cui è una unità numerica (e un composto) accidentale e contrariamente a quanto accade nelle sostanze naturali, dal punto di vista dell’essere l’agente (l’essere-medico) ed il paziente (l’essere-malato) sono distinti dal momento che la tecnica medica si trova di per sé nel soggetto del movimento e solo accidentalmente anche nel punto terminale del processo (l’essere-sano)[14].
Un letto in quanto letto non possiede alcuna origine interna del mutamento e della stasi, ma solo in quanto una determinata materia è una sua parte o componente. Nessun movimento di genere specifico rientra nella definizione degli artefatti: nella verifica dell’eventualità che un ente possieda o meno una origine interna del mutamento ha dunque importanza soltanto il vaglio della sua eventuale presenza nella definizione d’essenza dell’ente. Abbiamo fatto un passo avanti. Gli artefatti sono interi in cui la forma esterna che svolge il ruolo di causa motrice, agente del movimento per produrre una configurazione strutturale statica della materia. Nel caso di un gatto, invece, la forma è l’agente di un processo che riproduce se stesso e porta al compimento l’ente naturale, dotandolo di una articolazione dinamica e multilivellare incorporante quella matteria[15]:
«hanno una natura tutte quelle cose che hanno un principio siffatto. E ciascuna di queste cose è una sostanza; ciascuna infatti è una qualche cosa soggiacente, e la natura è sempre in una cosa soggiacente[16]. Sono secondo natura sia tutte queste cose sia tutte quelle che a queste appartengono di per sé: per esempio, per il fuoco il portarsi in alto; ciò in effetti non è una natura né ha una natura, ma è per natura e secondo natura», (Fisica II.1, 192b31-193a1).
Si è in questo modo posta la natura o essenza di qualcosa come momento preliminare della spiegazione di che cosa effettivamente siano gli enti che hanno questa natura: la datità di quella natura o essenza viene articolata ulteriormente attraverso l’introduzione del concetto di sostanza. Già in I.7,191a7 si era parlato della natura come sostrato; ora, poiché la natura è sempre in una cosa soggiacente e la sostanza è una qualche cosa soggiacente, la natura è detta essere sostanza.
Con l’ausilio della nozione di soggiacente (ai mutamenti) è possibile ritagliare una classe di enti che non sono attributi di altro[17] ma sono soggetti di insiemi non meglio definiti di determinazioni accidentali – (l’essere) medico, sano, malato – e fare della loro natura e struttura interna l’oggetto della ricerca. Nella funzione di soggiacente abbiamo una specificazione della naturalità: queste sostanze devono essere composte di materia e forma o, meglio, da un soggiacente e da una natura che è in esse. Sarà possibile indagare la natura delle parti e degli interi cogliendo analogie e differenze con gli artefatti e qualificare l’ordine modale tra le loro parti proprio sulla base della definizione della natura di tali soggetti: essere dotati principi interni di mutamento e stasi. In certo modo forma e materia possono essere dette sostanze e nature, tuttavia il passo sembra operare una restrizione dicendo che la natura è sempre in una cosa soggiacente.
Ricapitoliamo. La natura è in una sostanza, in un composto di materia e forma in cui è possibile isolare un aspetto (materiale) che in essa funge da soggiacente; la presenza di questo livello nella sostanza (facente capo ad una parte formale del cuore o, detto altrimenti, al cuore in quanto sede della capacità treptica) è posto a garanzia del suo essere una sostanza naturale. L’ente naturale è una sostanza che funge primariamente da soggiacente: ciò posto, va chiarita l’estensione semantica di due espressioni, l’essere secondo natura e l’essere per natura. L’esempio del fuoco mostra come di fatto le due espressioni in questo contesto coincidano[18], in quanto gli elementi hanno come proprietà essenziale il muoversi nella direzione dei luoghi ad essi propri (il fuoco verso l’alto).
- 1.1- Natura, forma e materia
Dopo aver formulato una definizione di natura, il problema viene immediatamente tradotto in termini ilemorfici (193a10-b21) discutendo le due opzioni teoriche possibili: a) la natura si identifica con la materia; b) la natura si identifica con la forma:
«alcuni ritengono che la natura, nel senso della sostanza delle cose che sono per natura, sia per ciascuna cosa il suo primo costituente interno che sia di per sé internamente indistinto: per esempio, che natura di un letto sia il legno, di una statua il bronzo. Un indizio in questo senso è, secondo Antifonte, che, se uno seppellisse un letto e il marcio acquisisse la potenza di mandar su un germoglio, non nascerebbe un letto, ma legno: ciò che sembra mostrare che l’assetto secondo la regola del letto, cioè l’opera tecnica, è presente solo per accidente, e che invece la sostanza è l’altro: ciò che permane senza interruzione mentre subisce quelle modificazioni», (Fisica II.1, 193a11-18).
La natura delle sostanze viventi intesa come materia prima ed informe di cui sono costituite è una tesi attribuita ai fisiologi sulla base dell’esempio di Antifonte: se si seppellisse un letto a seguito della sua putrefazione non si genererebbe un letto ma del legno. Le ricadute teoretiche sulla nozione di forma sono in questo caso evidenti, se si considera che il letto – la forma di cui è dotato il legno – verrebbe qui intesa come una determinazione connessa alla materia in modo debole, come accade nelle unità accidentali. Mentre il letto viene meno, il legno permane e si mantiene identico lungo l’asse di tutti i possibili mutamenti che si danno per esso e per questo è inteso essere la sostanza del letto. La materia (remota) sarebbe qualcosa di eterno ed immutabile in cui è valido un principio di realizzabilità multipla, posto che diverse forme si generano e si corrompono nella stessa materia.
Il caso delle sostanze sensibili è ben diverso: è la natura come principio interno (teleologicamente o, meglio, teleonomicamente orientato) a guidare e dirigere il processo di sviluppo di un gatto verso la realizzazione della propria forma e natura. Se la natura di un letto fosse legno perché dal legno nasce legno, nel caso di un gatto non potremmo non sostenere che la sua natura sia solo materia. Il che è assurdo. Dal punto di vista di Aristotele la materia (a maggior ragione se così intesa) non può svolgere il ruolo di natura e sostanza in quanto non veicola in alcun modo l’identità della cosa. Data la presenza di due soli livelli di variazione, negli artefatti questa distinzione tra materia e forma è maggiormente intelligibile: possiamo sempre distinguere una materia di un certo tipo prima dell’intervento dell’artigiano ed una materia di un certo tipo dopo l’azione causale dell’artigiano, quando l’artefatto ha assunto la sua configurazione definitiva. In questo contesto la natura-sostanza è il sostrato materiale che permane (diamenei) nonostante le continue modificazioni cui è sottoposto nel divenire.
Secondo i fisiologi, dunque, l’eternità e l’immutabilità sono i due requisiti richiesti per assumere il ruolo di natura o sostanza di qualcosa (193a10-25); su questo piano non si può che attribuire questa funzione ad una materia di per sé priva di quelle determinazioni possedute da ciò di cui è materia. Per giungere a dimostrare che la natura del letto (e del gatto) è più la forma che la materia Aristotele ricorre all’analogia tra gli usi linguistici di tecnica e di natura. Con il primo termine si indicano solo gli enti che attualmente possiedono una configurazione definita sulla base dell’azione di un agente esterno; in questo modo si esclude che i materiali di cui si serve l’artigiano siano già intesi come elementi secondo la tecnica. Come diciamo che è un’opera tecnica ciò che è conforme ad una tecnica sia ciò che ne è un esito, allo stesso modo si dice che è una cosa naturale sia ciò che è conforme a natura sia ciò che ne è un esito.
L’analogia implica che non potremmo chiamare artefatti e sostanze naturali quelle cose – siano esse interi o parti – che sono in potenza: di un letto in potenza che non ha ancora acquisito la forma non possiamo dire che è qualcosa di conforme alla tecnica, né che vi è un’opera tecnica. Lo stesso si può dire nel caso di un gatto: gli elementi che rientrano nella composizione dell’asse omeomero della sostanza – esemplificato qui come altrove da carni ed ossa – non hanno la natura del tutto che vanno a comporre poiché, nella concettualità aristotelica, rappresentano qualcosa che è in potenza carne ed osso. Quando questi elementi saranno intesi in quanto materia che ha una determinata forma, ovvero avranno quell’assetto necessario per definire carni ed ossa, allora condivideranno la natura dell’asse omeomero della sostanza. Per questo motivo la forma è maggiormente sostanza del soggiacente e, dunque, la materia non può essere sostanza se non è considerata congiuntamente alla forma (posta ad un certo livello nell’architettura) di un composto (per quanto anche in questo caso si possano sollevare dei dubbi come testimonia Metafisica Zeta 3). L’identificazione natura-sostanza diventa lo spazio concettuale all’interno del quale si pone il problema della sostanzialità (o naturalità) della forma piuttosto che del composto: «questo dunque è un modo di intendere la natura: la materia primaria soggiacente a ciascuna delle cose che hanno in se stesse un principio di movimento e cambiamento. In un altro modo, la natura è la forma e la specie data secondo la definizione», (Fisica II.1, 193a28-31).
In che senso la natura è la forma e la specie data secondo la definizione? «Sicché nell’altro modo la natura sarà la forma e la specie (che non è separabile, se non nella definizione) delle cose che hanno in se stesse un principio di mutamento. Ciò che consiste di forma e materia insieme non è natura, ma per natura: un uomo, per esempio. Ed è natura più la forma della materia. Infatti ciascuna cosa è detta essere quando è compiutamente in atto, piuttosto che quando è in potenza», (Fisica II.1, 193b2-8). Non è possibile definire un letto, un gatto, carni ed ossa se questi non hanno ancora assunto la forma specifica che compare nella formula definitoria (dell’intero) che ne esprime il che cos’è, dal momento che non è possibile definire enti che non siano unitari ed in atto. Se abbiamo un letto in potenza o carni ed ossa in potenza non abbiamo ovviamente a che fare né con un artefatto né con una sostanza naturale, bensì con una totalità (mucchio) potenziale e con delle parti potenziali; sul piano della potenza e dell’atto si può dunque concludere che esiste un altro modo di dire la natura oltre a quello della materia e del soggiacente.
Possiamo raffinare ulteriormente questa posizione sostenendo che sul piano dell’articolazione mereologica della sostanza è possibile distinguere un modo in cui si dice natura dell’intero, ovvero natura intesa come qualificazione del livello (materiale) che funge da soggiacente, da un modo che ne implica la forma e dunque la definizione. La natura di ciò che ha in se stesso l’origine del movimento è la forma e la specie: morphe è qui essenzialmente la configurazione strutturale e funzionale – suggerimento desumibile dal ricorso ad esempi quali carni ed ossa, ovvero a quelle parti necessarie al possesso degli assetti funzionali (nutrizione, percezione e movimento) propri della specie – ovvero la configurazione corporea considerata a prescindere dagli aspetti relativamente accidentali propri di gruppi più ristretti o di individui particolari. Qui eidos può essere inteso come specificazione di morphe visto che quest’ultima si può intendere sia come privazione che come forma della specie. Questi due aspetti sono del tutto correlativi al modo in cui possiamo intendere il principio interno di mutamento. In quanto agente e tendenza della sostanza ne regola i mutamenti, in quanto determinazione essenziale e specifica ne indirizza i mutamenti nel campo più ampio dei mutevoli.
Le differenze riscontrabili sul piano del venire ad essere marcano più determinatamente le differenze tra artefatti e sostanze: diciamo che da un uomo viene ad essere un uomo, non che da un letto viene ad essere un letto, per cui la natura di un letto non potrà essere la sua configurazione ma la sua materia. Gli artefatti sono, dunque, degli interi statici la cui intelaiatura ilemorfica è il compimento di un processo ad essi esterni, regolato da un agente intenzionale che produce qualcosa di diverso da sé e che non è a sua volta dotato di alcuna capacità produttiva. Al contrario, un uomo, oltre ad essere una unità numerica in grado di essere causa della propria conservazione diacronica, è naturalmente dotato della capacità specie-specifica di produrre un altro individuo della stessa specie:
«le generazioni naturali sono quelle delle quali c’è generazione dalla natura: ciò da cui viene ad essere lo chiamiamo materia, ciò ad opera di cui è qualcuno degli esseri naturali, ciò che viene ad essere è qualcosa come uomo o pianta o qualcuna delle altre cose di questo genere, le quali diciamo essere massimamente sostanze[19] – tutte le cose che vengono ad essere o per natura o per tecnica hanno materia; infatti, ciascuna di esse può essere o non essere e questo è, in ciascuna, la materia[20]. In generale è natura anche ciò da cui ed è natura ciò secondo cui [scil. viene ad essere] (infatti, ciò che viene ad essere ha una natura, ad esempio pianta o animale) e ciò ad opera di cui è natura intesa secondo la forma della medesima specie (è la stessa ma in un’altra: infatti l’uomo genera l’uomo)»[21].
La materia viene qui intesa nella sua funzione all’interno del processo – come ciò di cui, a17 –rientrando anch’essa nell’ambito della natura, come si dirà in a22. In questo senso si può intendere la precisazione che segue (a20-22) in cui la materia viene equiparata alla potenzialità della cosa di essere e di non essere. Il principio di sinonimia della forma nei processi in senso lato, e nel venire ad essere della sostanza in particolare, il cui aspetto diacronico viene ampiamente affrontato in Metafisica Zeta 7-9, vale per gli enti per natura e non per gli artefatti: il nome proprio spetta agli enti il cui principio di individuazione è interno al generato e deriva dal generante e non a ciò che è individuato per accidente (l’uomo-colto) o è esterno al prodotto (una sedia, ad esempio).
L’identità tra forma e natura che si realizza nei primi si chiarisce se si considera che la forma può esistere a vari livelli di potenzialità e di attualità ed è (ad ogni livello dello sviluppo della sostanza) presente come regola della sua struttura ed organizzazione, intesa come principio che governa i mutamenti che conducono l’organismo al compimento, alla propria maturità. La natura detta nel senso della generazione è ulteriormente qualificata poiché è intesa al modo di una via verso la natura (193b12) ed è definita in relazione al risultato del mutamento. Dato che la natura del soggetto sostanziale è un principio interno di mutamento e stasi che rende quel soggetto una sostanza naturale, la forma è il candidato migliore a rivestire il ruolo di questa natura, essendo una parte della sostanza fin dall’inizio; se è possibile distinguere una forma sul piano strutturale della sostanza naturale da una forma nella sua funzione motrice, allora possiamo distinguerla dalla materia e dal composto sulla base di considerazioni metafisiche da un lato e teleologiche dall’altro.
Ciò non significa affatto che si debba tentare di definire la forma in termini di proprietà di una qualche materia che esista prima dell’esistenza della sostanza in questione; ma comporta una domanda sulla sostanzialità della forma e/o del composto – o, detto altrimenti, che cosa porti preferenzialmente il titolo di sostanza e ne veicoli l’identità. Non si tratta qui semplicemente di esaurire il campo semantico della nozione di natura ma di aprire la strada, attraverso questa indagine, della comprensione dei motivi per cui la forma è maggiormente natura (e sostanza) della materia e del composto. Se l’opzione a favore del composto sembra preferibile poiché permette di salvare l’articolazione ilemorfica a più livelli delle parti e della sostanza intera, l’opzione a favore della forma sembra anch’essa preferibile in quanto connessa al principio interno di mutamento della cosa, principio che può essere fatto oggetto di definizione in virtù della sua unitarietà (cfr. Frede-Patzig: 1988).
Il nesso di unità tra sostanza e natura deve dunque rendere conto delle rispettive modalità di composizione che differenziano artefatti da sostanze naturali, in cui forma e materia si costituiscano in unità, oppure di introdurre all’interno di diversi tipi di unità formale (e definizionale) un ordine in grado di garantire l’unità di tali soggetti. A differenza delle produzioni tecniche, le sostanze esibiscono una gerarchia di livelli ilemorfici che qui si declina mediante l’attribuzione di un principio interno di mutamento e stasi. L’introduzione di questo livello d’analisi è indubbiamente estraneo all’ontologia scientifica della Fisica essendo un risultato conseguito con gli strumenti concettuali propri della filosofia prima. Ciò è d’altra parte testimoniato da una semplice osservazione: visto che le sostanze sono entità dotate di una forma sostanziale proprio in quanto possiedono una natura, la questione ontologica relativa a che cosa in esse svolga il ruolo di sostanza – la materia, la forma o il composto – rimane in II.1 in sospeso, in modo del tutto conforme alle conclusioni raggiunte nel primo libro.
- 1.2- Il modello di Fisica I.7: i principi
In Fisica I.7 si mette a tema il problema concernente le condizioni di possibilità del mutamento, i cui elementi strutturali vengono individuati nel sostrato, nella forma e nella privazione. L’ontologia di riferimento è quella esposta nelle Categorie: il venire ad essere è primariamente caratterizzato attraverso l’analisi della struttura predicativa minimale (soggetto-predicato), in cui il soggetto è quello categoriale (nella Fisica invece la relazione di inerenza sembra configurarsi come ontologicamente preliminare nell’individuazione dei principi).
Il venire ad essere è analizzato attraverso una particolare istanza di predicazione ontologica che opera diverse specificazioni entro categorie diverse da quelle di sostanza, che predicano qualcosa del soggetto (che è colto o non colto, seguendo l’esempio di I.7) ma non dicono cos’è il soggetto – si tenga presente che la distinzione soggetto/proprietà e la priorità del soggetto sulle sue proprietà non è metafisicamente un fatto ovvio, e che nelle Categorie la nozione di accidente indica tutto ciò che non rientra nella categoria di sostanza[22]. Siamo in presenza di rapporti di inerenza che contribuiscono a definire le relazioni ontologiche sussistenti tra proprietà ed interi in cui esse sono, e per questo ad isolare classi di dipendenza ontologica.
Più precisamente, ciò che viene ad essere è primariamente inteso come un portatore di proprietà – non colto, colto – un insieme di determinazioni in cui non sono ancora fissati univocamente rapporti di essenzialità o di accidentalità. Al livello più grezzo di analisi ontologica una considerazione esterna di un soggetto quale l’uomo non colto ci aveva consegnato soltanto dei conglomerati di determinazioni, la cui circoscrizione equivaleva ad una partizione in due classi – soggetti ed accidenti – del vasto campo delle differenze; tali soggetti erano discernibili a posteriori, solo e nella misura in cui isolavano differenti enti numerabili che specificano lo stesso aspetto (semantico), ovvero lo stesso modo di essere soggetti di inerenza. I nessi strutturali dell’uomo non colto sono ricavati dall’applicazione di una analisi interna agli interi che trova nella nozione di natura come principio interno la sua chiave di volta (e nel criterio di determinatezza di Metafisica Zeta 3 la sua condizione di possibilità).
Da questo punto di vista, e rispetto ad una descrizione che ne metteva in evidenza solo il ruolo di soggetto di proprietà, la forma e ciò che deriva da entrambe si mostrano maggiormente sostanza, se l’obiettivo è trovare e giustificare il principio di unità delle multiformi determinazioni che sono proprie di tali soggetti. Invero, nel venire ad essere di una sostanza la forma entra in composizione come un (elemento o parte) semplice e per questo possiamo dire che è e non è accidentalmente (le forme intervengono nel venire ad essere ma non si generano a loro volta), ma il venire ad essere avviene essenzialmente in qualcosa che è altro dalla forma: il composto. Le modalità di questa composizione rimangono qui oscure. In I.9, 192a5 compare già un uso tecnico-filosofico del termine materia, uso del tutto compatibile con quello operante nell’ousiologia: infatti, con materia intendo il soggiacente primario di ciascuna cosa, dal quale come costituente interno una determinata cosa viene ad essere e non per accidente. Con l’introduzione delle determinazioni privative è ora chiaro che tutto ciò che si origina viene ad essere da un sostrato, dalla privazione e da una forma.
Solo in un senso qualificato possiamo dire che ogni cosa viene ad essere da ciò che soggiace e della forma soltanto: infatti possiamo analizzare un composto accidentale quale uomo colto – che rappresenta il livello d’ordine raggiunto nel processo – come composto da due termini (soggetto e contrarietà specifica) ed analizzarlo nelle definizioni di questi due. Al soggetto-sostrato ci si può riferire secondo un duplice aspetto: da un lato c’è la materia che è numerabile, la base su cui riposa la possibilità di contare enti omogenei (individuazione sincronica). Essendo ciò permane durante il cambiamento e dalla quale essenzialmente viene ad essere ciò che viene ad essere, ha per questo in grado maggiore il carattere di questa certa cosa, ma non in senso assoluto – trattandosi di una qualifica relativa al ruolo che essa assume nel venire ad essere. Dall’altro ci sono la privazione e la contrarietà, stati transitori della materia, che invece sono accidenti: quindi da un lato si può dire che i principi sono due (sostrato e forma), dall’altro si deve dire che i principi sono tre, quando la forma viene assunta anche nella sua relazione con la privazione. L’accidentalità in questione è la stessa che interviene quando diciamo che è un fatto accidentale che un medico costruisce: un medico costruisce non in quanto medico, ma perché possiede anche la capacità di costruire. La privazione andrebbe a connotare la materia a prescindere dal fatto che questa sia determinata dalla sua forma: quella stessa materia, infatti, avrà ancora in sé la privazione. Ciascun ente naturale è e viene ad essere grazie a principi sulla base dei quali non sussiste accidentalità, altrimenti non sarebbe giustificabile il fatto che ciascun ente è detto essere secondo la sua sostanza.
Ciò posto, ci si può comunque riferire al sostrato come ad una cosa o sotto il profilo per cui gli spetta qualcosa di determinato, come ciò che nel venire ad essere resta mantenuto o come ciò cui ancora manca la determinazione di cui la forma lo doterà. Se ciò che costituisce l’identità del diveniente è il principio dell’unità numerica della cosa, essa potrà restare se stessa nella determinazione essenziale anche mutando nelle altre proprietà (conservando una identità diacronica) che la costituiscono in modo secondario, ed il suo essere una non sarà più da intendersi in modo assoluto (non vi è una riduzione del principio di identità ontologica di una sostanza, condizione della predicazione essenziale, al principio di identità logica, condizione della predicazione esprimibile con un giudizio tautologico), bensì relativamente al persistere di questa determinazione essenziale. Non sarebbe infatti possibile alcuna continuità nel venire ad essere, essendo questa determinazione connotata (minimamente) come assenza di intermedi del medesimo tipo (in questo modo l’identità di una cosa si sposta ad un livello più astratto che comporta il riconoscimento, all’interno del venire ad essere di una sostanza, di un continuum metafisico di determinazioni dato con e dall’essenza).
Ogni intero sottoposto al divenire è un composto di forma e sostrato: ciò che cambia è la materia, che ha una sua continuità nel processo, e ciò in cui qualcosa cambia è la forma, che mantiene una certa alterità rispetto al processo stesso (e, nel caso del mutamento sostanziale, semplicità rispetto al composto). In Fisica I.7 l’esistenza di forme sostanziali è una assunzione teorica posta sullo sfondo della ricerca e per nulla dimostrata, se non sulla base di quanto le pratiche linguistiche degli uomini tramandano. E le nozioni di forma e sostrato, per quanto efficaci sul piano strutturale nel rendere conto anche del caso più complesso – il venire ad essere delle sostanza – non sono sufficienti per fornire dei criteri esaustivi in grado di distinguere questi enti dagli artefatti (non essendo ancora intese come cause dell’ente naturale). Banalmente, tutto ciò che si muove esibisce una architettura ilemorfica; fintanto che rimarranno oscure le modalità di variazione e cambiamento all’interno dello schema ilemorfico multilivellare delle sostanze da un lato, e bilivellare degli artefatti dall’altro, non avremmo alcun criterio univoco di discernimento. Indubbiamente un passo avanti in questa direzione viene fatto nel primo capitolo del secondo libro. Sappiamo che gli artefatti sono privi di una forma che abbia una qualche funzione motrice e che avvii processi di mantenimento e continuità metabolica che reiterano ricorsivamente la medesima dinamica – in modo da poter essere descritte come future oriented routines (Furth 1988, pag.147): anche per quanto concerne lo statuto ontologico di tali enti, le informazioni presenti in Fisica II.1 non sono del tutto esaustive (per quanto su questa base venga operata una netta differenziazione rispetto alle sostanze naturali).
L’ontologia scientifica della fisica è dunque costruita tenendo conto della rilevanza metodologica che ha la distinzione tra vivente e non vivente, iniziando ad articolare internamente i soggetti atomici ed unidimensionali dell’ontologia logica. In questo modo Aristotele ne dà una qualificazione scientifica maggiormente pregnante – va detto, per completezza, che la stessa procedura è condotta sul piano metafisico in Metafisica Zeta 3, punto in cui ha inizio l’analisi metafisica delle sostanze mediata proprio dall’uso dello schema ilemorfico. Il soggetto ereditato dalle Categorie viene articolato qualificandolo come un intero dotato di materia e forma – i cui principi esplicativi sono sostrato, privazione e forma – e come un (certo questo) dotato di principio interno di mutamento e stasi. La nozione di natura o principio interno è allora un punto di raccordo tra analisi strutturale e teleologica: l’interconnessione tra questi livelli esplicativi, sebbene l’analisi strutturale a paradigma ilemorfico sia subordinata alla teleologia, è particolarmente efficace in quanto è in grado di mettere in evidenza il modo in cui i principi di cui si parla in I.7 sono orientati ad un fine e a una natura determinata (dotata di un principio interno di mutamento, II.1).
La forma per sé può dunque essere sottratta al mutamento essendo nel venire ad essere delle sostanze la condizione ed il principio che ne governa e presiede l’accadere, come, del resto, il principio di individuazione diacronica che concorre a determinare a quali trasformazioni un soggetto può andare incontro restando se stesso. Resta ovviamente ancora aperta la questione concernente la definizione d’essenza dei corpi che abbiamo visto popolare l’ontologia della Fisica – si tratta della forma o del sostrato (191a19-25)? – come quello relativo alla natura dell’eidos.
Dunque, dato che il carattere sostanziale degli enti naturali è qui sancito sulla base del possesso di una natura-principio interno, gli artefatti non sono sostanze poiché non possiedono tale principio e la loro forma si genera e si corrompe e non esiste separatamente dal composto di cui è forma. Se deve esserci un principio interno di permanenza, unità e definibilità, resta da stabilire la sua localizzazione all’interno della sostanza e quale parte o determinazione corrisponda a quel principio, consentendo la permanenza ai mutamenti accidentali. L’identità o sinonimia nella pluralità dei piani di variazione possibili per gli enti naturali coincide con in problema della sostanzialità dei composti, se è vero che la sostanzialità è determinata e determinabile sulla base di precisi criteri di composizione che restringono il campo delle variazioni possibili fermo restando la permanenza dei composti. La domanda sulla sostanzialità di una certa popolazione di interi viene a coincidere con la domanda relativa alla localizzazione corporea di questo principio di mutamento e stasi che gli appartiene per sé, domanda che non ha alcun senso se rivolta agli artefatti.
- 2- La forma degli artefatti non è separata in modo non qualificato
Come si è visto, il problema del novero delle sostanze e dello statuto degli enti che sono nature è metodologicamente connesso al problema metafisico concernente lo statuto ontologico degli enti che non sono nature, dato che la nozione di natura (principio interno) è una ridefinizione della forma in termini teleologici e svolge un ruolo significativo nella concezione aristotelica della sostanza almeno per due motivi:
- contribuisce con un ulteriore argomento a motivare l’esclusione della materia dall’ambito della sostanzialità. Si può anche ipotizzare, forse forzando un po’ i termini, che per via del quadro ilemorfico semplificato di cui sono portatori sia su questa base escluda anche la sostanzialità degli artefatti. In parte è possibile interpretare in questa direzione i luoghi teorici a seguire: Metafisica Zeta 17,1041b28-29 (in cui si escludono alcune cose dall’essere sostanze), Eta 2,1043a4-5 (la sostanza è la causa per cui ciascuna cosa è), Eta 3,1043b21-22 (ma forse non sono sostanze né queste cose ( la casa o il suppellettile) né nessuna delle cose che non siano costituite per natura, e qualcuno potrebbe dire che soltanto la natura è la sostanza delle cose corruttibili: Metafisica Eta 3,1043b21-22);
- contribuisce a focalizzare un ambito all’interno delle più ampie critiche alle forme platoniche, quelle relative al modo in cui si intende l’eternità delle Idee, che sono principi separati rispetto agli interi generabili e corruttibili – critiche cui si accenna anche in Fisica 1-2 – e riprese tra l’altro anche in Metafisica Lambda 3,1070a5-20.
Per quanto attiene al primo punto, se è la forma il candidato migliore a svolgere il ruolo di principio e causa della sostanza allora l’esempio dell’uomo che genera un uomo (per il tramite di un principio interno di mutamento) non soltanto distingue gli enti naturali dagli artefatti – ed in modo correlativo pone le basi per discernere identità numeriche tipologicamente identiche – ma l’identità tra forma e principio di naturalità determina la sostanzialità dei primi: infatti, sembra che alla sostanza appartenga soprattutto l’essere qualcosa di separato e di determinato, perciò sembra che la forma e ciò che è costituito da entrambi sia maggiormente sostanza della materia[23].
Va notato che altrove soltanto il sinolo è detto essere separato in senso non qualificato (Eta 1,1042a30-31). Tuttavia, qualora in ogni dotato di principio interno di mutamento e stasi si intenda introdurre un gradiente metafisico di non linearità – qui è la forma, che prima si predica della materia, che entra in una relazione di composizione con il composto (e di predicazione con i termini generici). Allo stesso tempo si intende spiegare il passaggio dalla forma al composto attraverso la materia (e non a partire dalla materia per giungere attraverso il composto alla forma, come vorrebbe un percorso lineare utile sul piano logico alla teoria della predicazione) in modo da giustificare la tesi secondo cui la forma è più reale della materia.
Di riflesso a questa struttura interna non lineare si può sostenere che separatezza (per cui la sostanza non deve essere né dipendere da nient’altro, fatta valere come criterio principale in Zeta 4-6) e determinatezza rendono conto degli aspetti essenziali a ciascun intero dotato di principio interno di mutamento e stasi ed individuano il modo in cui meglio ci si riferisce alla materia. E possiamo con questo escludere alcuni candidati alla sostanzialità, artefatti e materia. La materia, pur essendo in linea di principio ciò cui tutto il resto inerisce o si predica, se paragonata con il composto non ne condivide certamente lo stesso grado di determinatezza. In questo senso si può dire che in ogni sostanza naturale la materia occupa sul piano logico il termine ultimo, il limite verso il basso della scala di determinazioni individuata all’interno del composto (che è detto essere posteriore alla forma) proprio grazie al criterio dell’essere un certo questo. Rispetto al quadro ontologico a paradigma categoriale in cui è condotta l’analisi del venire ad essere della sostanza, a partire dagli usi conservati nel linguaggio comune (Fisica I.7), qui abbiamo a che fare con nuovi criteri che determinano non solo che esiste qualcosa che è maggiormente sostanza della materia – punto che il solo criterio dell’essere soggetto non poteva dimostrare – ma anche la complessificazione dell’ontologia di riferimento, non più costruita seguendo la struttura minimale soggetto-proprietà. In altre parole, il principio di naturalità interno ai viventi può essere meglio spiegato se viene incardinato all’interno di un tipo ontologico la cui struttura interna è articolata seguendo il paradigma ilemorfico.
L’argomento della strutturazione metafisica dei dotati di principio interno di mutamento e stasi è indubbiamente connesso con il problema popolazionale affrontato in Metafisica Zeta 2,1028b8-13: Zeta 1 si era concluso con la domanda “cos’è la sostanza” ed il capitolo seguente si apre passando in rassegna tutti i tipi di cose che potrebbero essere definite sostanze; posto che la sostanza appartiene phanerotata (1028b8) ai corpi, sono sostanze gli animali, le piante e le loro parti, i corpi naturali (fuoco, acqua, terra, etc., e le loro parti), o i corpi composti da tutti o da alcuni di essi, come l’universo e le sue parti, gli astri, la luna e il sole. Trovandosi ad uno stadio iniziale della ricerca, sembra godere di una relativa neutralità ontologica in merito al problema della sostanzialità degli artefatti (come accade nel lessico filosofico di Delta 8,1017b10-14), contrariamente a quanto avviene in Zeta 17. Inoltre, questo capitolo sembra appartenere ad una linea argomentativa del tutto indipendente dalle altre, principalmente in quanto, attraverso la tematizzazione del concetto di natura di una sostanza, la forma viene intesa nella sua funzione di causa e di principio. Con ciò siamo ad un livello superiore nella sintassi della teoria che, essendo mediato dalla spiegazione teleologica, apre la strada a quello della potenza e dell’atto dominante in Eta[24]. Se è anche (ma non solo) a questo livello metafisico che si respinge la sostanzialità degli artefatti, allora in Zeta 17 si innesta una linea argomentativa che aveva cominciato a formarsi in Fisica I.7 e II.1 e che trova espressione nel principio di naturalità delle sostanze:
«infatti bisogna avere a disposizione l’essere di una cosa e bisogna che questa cosa ci sia davvero: perciò è chiaro che si cerca perché la materia è una certa cosa. Per esempio: perché queste cose sono una casa? Perché c’è ciò che è l’essenza sostanziale di casa. E per la stessa ragione questa cosa, o questa cosa che ha questo corpo, è un uomo. Perciò in tutti questi casi si cerca la causa della materia, che è la forma, ciò per cui la materia è qualcosa di determinato, e questa è la sostanza», (Metafisica Zeta 17, 1041b4-9).
«Alcune cose non sono sostanze ma, tutte quelle che lo sono, sono costituite secondo natura e per natura: sembrerebbe perciò che questa natura, che non è un elemento ma un principio, sia sostanza», (Metafisica Zeta 17, 1041b28-31).
Come accade nella spiegazione scientifica dell’articolazione ilemorfica dell’uomo, anche di fronte ad una casa lo scienziato aristotelico ha a che fare con qualcosa che esiste in modo autentico, ma vi è una differenza di ordine mereologico: in una casa non esiste una parte che goda di una primarietà ontologica tale da essere di per se stessa la sede della definizione dell’essenza dell’intero. L’analisi metafisica di sostanze e non sostanze diverge proprio su questo punto, nella misura in cui il criterio di determinatezza apre la strada ad una gerarchia tra le determinazioni e le parti di cui è composto un gatto, gerarchia che non si dà negli interi che non sono sostanze (gerarchia che è alla base della mereologia della sostanza in Aristotele). Per quale motivo questa cosa, o questa cosa (determinata materia) che ha questo corpo – è un uomo? La spiegazione scientifica di una sostanza naturale sarà certamente una analisi interna scandita in termini ilemorfici, ma non potrà certo esaurirsi in questa, pena la riduzione ontologica al tipo di spiegazione valido per gli artefatti. Infatti, sono sostanze sia gli enti kata physisn che quelli physei, ovvero sia quelli che sono la risultante di un processo che si è svolto secondo natura ed il cui fine è conforme a natura (si tratta della formazione di un intero: questa natura) sia quelli generati da un processo che trae origine dalla natura – qui la natura è intesa primariamente come causa materiale del processo, (Frede-Patzig 1988).
Il composto di materia e forma non può essere esso stesso il principio e la causa del suo essere, tanto meno ciò da cui si deriva la determinatezza. Se questa funzione viene riconosciuta alla forma, allora l’essere principio e causa della forma sarà un ulteriore criterio per discernere sostanze da artefatti; la sostanza è infatti identificata con la natura intesa come causa prima dell’essere di qualcosa e, se avere una natura significa avere un principio interno di movimento, allora la sostanza sarà la forma sostanziale intesa come ciò che governa la continuità dei piani ilemorifici di ogni composto dotato di siffatto principio. L’identità e le condizioni di persistenza del tutto sono dunque connesse al mantenimento di questo principio interno: la conclusione di Metafisica Zeta 17 sembra attribuire in modo prioritario la sostanzialità agli interi secondo natura e, anche a seguito dell’analisi svolta nel capitolo precedente, che giunge all’esclusione degli aggregati elementari dall’alveo delle sostanze, i viventi sono intesi come sostanze a pieno titolo.
Fisica II.1 sembra convalidare questo risultato (ovviamente su un piano di indagine diverso ma complementare). La sostanza può essere soggetta a mutamenti accidentali rispetto ai quali la sua identità è pienamente preservata mantenendosi invariante quanto al proprio principio psichico rispetto ai caratteri progressivamente acquisiti (l’uomo non-colto viene ad essere colto); nel corso della sua durata diacronica porta a compimento la propria natura progettualmente e potenzialmente contenuta nel principio psichico ed al termine del processo viene a mancare.
Si può sostenere che un gatto è fatto dalle sue parti e che queste parti rientrano nell’assetto (specifico) che va a costituirne il corpo. Il distaccamento di alcune parti compromette certamente l’esistenza del gatto: la sua strutturazione è organizzata secondo un ordine modale multilivellare e non ogni parte è necessaria all’identità del tutto – l’assunto è, d’altra parte, abbastanza intuitivo ed appartiene all’analisi preanalitica delle sostanze, se è vero che empiricamente si testa che un gatto cui si è mozzata una gamba continua ad esistere, mentre cessa di esistere se viene meno il complesso psichico legato a tutti i processi che fanno capo alla nutrizione ed alla respirazione (su questo punto torneremo più avanti). Ciò implica che ogni livello costitutivo dell’identità del gatto ha le proprie parti necessarie – il possesso di un cuore come sede delle capacità essenziali (nutrizione/generazione nei dotati di un principio interno di mutamento e stasi) e degli apparati ad esse connessi – e regola, per via di un legame di dipendenza ontologica, i livelli ilemorfici ulteriori.
Un ordine di processi simile a questo può essere rintracciato negli artefatti solo in maniera derivata, per via della mediazione offertaci dal progetto e dai movimenti dell’artigiano su un materiale scelto in base alla presenza di alcune caratteristiche (disposizionali). L’artigiano è l’agente della causa motrice, colui che controlla e dirige la produzione tecnica, ed è il trasmettitore di una forma che preesiste nella sua anima. Infatti, la finalità è presente nei movimenti eseguiti e l’ordine sequenziale che assumono è analogo a quanto accade negli enti naturali; ed è in questa dinamica di svolgimento che si riconosce il carattere teleologico di tali movimenti. La differenza che si riscontra tra questo modello e il caso del venire ad essere delle sostanze consiste nel fatto che in questo secondo caso la forma è parte della costituzione stessa del padre, mentre nella produzione tecnica essa è nell’anima dell’artigiano: ciò implica che siano differenti i modi di trasmissione, non il fatto che a trasmettersi sia una forma che preesiste e che dirige il processo. All’interno di questi movimenti ordinati e sequenziali, negli artefatti si può anzitutto parlare di materia in modo non qualificato, come materia che si pone complessivamente collocata al di sotto della forma, di modo che la sua struttura (ed eventuale frazionamento in parti) sia appiattita su due soli piani, essendo presente un solo livello formale di organizzazione che viene conseguito a seguito di una successione lineare di movimenti impressi da un agente esterno.
Distinguiamo tra condizioni materiali e requisiti formali alla realizzazione di una sedia. Nella struttura di base di una sedia, ad esempio, è certamente possibile che materie differenti – legno, bronzo, metallo – realizzino la medesima forma e, dunque, è sempre possibile distinguere i requisiti richiesti dalla forma per la propria realizzazione nella materia dal modo in cui una certa materia è il supporto che assolve quei requisiti. Per ogni sedia abbiamo a che fare con due livelli materiali logicamente distinguibili: se ci riferiamo alla sedia in questa stanza che è fatta di legno, abbiamo di fronte un esemplare attuale tra le configurazioni ed i supporti possibili per l’artefatto sedia. Empiricamente esperiamo sedie di bronzo, metallo, etc., ma in ogni caso ciò che funge da materia – legno, bronzo metallo e simili – deve rispondere ad una serie di requisiti minimi per essere materia di una sedia e non materia di un vestito o di una bandiera.
Sarebbe impossibile costruire una sedia di stoffa e per questo il materiale usato deve avere un certo grado di duttilità, resistenza, temperatura, etc.. La scelta dell’artigiano della materia adatta può dunque spaziare lungo un arco di possibilità determinate dal possesso di un pacchetto di proprietà disposizionali. A queste stesse proprietà fanno capo le condizioni di permanenza e le restrizioni riguardanti i tipi di sostrato materiale utilizzabili nelle produzioni: si tratta di proprietà che sono proprie dell’artefatto in quanto totalità artificiale per il fatto che esibisce una certa configurazione adatta all’esercizio di una o più funzioni, non essendo il prodotto finale arbitrariamente imposto ad una materia qualsiasi. Se ne inferisce che in ogni artefatto si dà una ratio ed una unità (accidentale) tra forma e materia: la materia sensibile è ciò che nelle mani dell’artigiano diventa quella sedia ma può diventare anche un tavolo e una statua – trattandosi dell’insieme di attributi che le appartengono per sé a prescindere dalla configurazione assunta – e si distingue concettualmente dalla materia – sostrato intesa come insieme di proprietà disposizionali che necessariamente deve possedere per essere materia di una sedia. Vi è, per così dire, un’unica regola di composizione delle parti (eterogenee) materiali e nella misura in cui i rapporti tra forma e materia sono instaurati in un intero non vivente il nesso è (relativamente) accidentale.
Per quanto attiene al secondo punto, l’esempio dell’uomo che genera un uomo interviene nei contesti in cui si critica Platone per aver fatto ricorso alla nozione di separatezza per giustificare l’ingenerabilità ed incorruttibilità delle forme; in altri termini, la separatezza verrebbe concepita come condizione dell’eternità delle Idee. Il problema è indubbiamente vasto e complesso: in linea generale si possono individuare tre sensi fondamentali di separatezza – spaziale, definizionale, ontologica – tra cui solo quella ontologica, intesa come capacità di esistenza indipendente dagli enti concreti, è attribuita alla dottrina platonica e non coincide con la nozione ontologica di separatezza fatta propria da Aristotele. In questa sede la focalizzazione di questo tema sarà condotta solo nell’ottica del confronto tra la forma delle sostanze dotate di un principio interno di mutamento e stasi e la forma degli artefatti, per come questo si intreccia ad un aspetto che Aristotele rigetta della metafisica platonica. In Fisica II.1 proprio in connessione all’argomento che mostra il nesso forma-natura – la forma è detta natura in quanto causa e principio di identità della cosa di cui è natura – si precisa che la forma non è separabile se non secondo la definizione (Fisica II.1,193b5).
- 2.1- Intermezzo: cenni alla separabilità nella Metafisica
In Fisica II.2 si tratta diffusamente questo tema rimarcando l’inseparabilità degli enti naturali dalla materia di cui sono composti (il generante è causa della forma nella materia, Metafisica Zeta 8,1034a5): coloro che sostengono l’esistenza delle Idee, di fatto, separano (chorizousin) gli enti naturali che, a differenza degli enti matematici che sono separabili con il pensiero (Fisica II.2, 193b34-194a1), non sono separabili dalla materia.
Come ha rilevato Morrison, la connessione tra idee e separabile o separato – dall’opzione adottata discendono importanti conseguenze di ordine metafisico – e, dunque, l’uso del verbo chorizein e dell’avverbio chorismos sono propri di Aristotele[25]. Dei quattro tipi di separatezza – topologica, definitoria, ontologica e numerica – individuati dagli studiosi[26] l’accezione ontologia del termine, che assume nella dottrina aristotelica una esplicita formulazione modale (A è separabile/separato da B se e solo se A può sussistere senza (o indipendentemente da) B), implica che le forme possono sussistere indipendentemente dalla loro effettiva istanziazione negli individui in quanto godono di una priorità logica oltre che ontologica rispetto ad essi. Lo stesso argomento si può applicare alle forme degli artefatti:
«inoltre [scil. si deve dire] che ciascuna sostanza si genera da una cosa sinonima; invero, sono sostanze le cose per natura e le altre. Infatti qualcosa si genera o per arte o per natura o per caso o per spontaneità. L’arte è principio [scil. di generazione] in altro, la natura è principio in se stesso (infatti un uomo genera un uomo), le restanti cause sono privazioni di queste due. Le sostanze sono tre[27]: una è la materia, che è un certo questo nel suo porsi fenomenicamente (dato che tutte le cose che sono per contatto e non perché fuse insieme sono materia e sostrato; l’altra è la natura, che è un certo questo e un abito determinato verso la generazione; come terza poi la sostanza particolare composta da queste due, Socrate o Callia, per esempio. Ora, in certi casi non c’è il certo questo oltre la sostanza composta: per esempio, nel caso di una casa non c’è la forma [scil. oltre la casa composta], a meno che l’arte del costruire [scil. sia la forma] (né c’è generazione e corruzione delle cose di questo tipo: è invece un altro il modo in cui sono e non sono sia la casa senza la materia che la salute, come tutto ciò che è esito dell’arte); se esiste realmente [scil. il certo questo oltre la sostanza composta], è nel caso delle cose che sono per natura. Perciò non a torto Platone parlò a proposito dell’esistenza di tante idee quante sono le cose per natura (se davvero esistono idee), non però a proposito delle cose esemplificate dal fuoco, dalla carne, dalla testa; tutte queste cose infatti sono materia, e la materia ultima è [scil. la materia] di ciò che è sostanza al massimo grado», (Metafisica Lambda 3 1070a5-20).
«inoltre, c’è qualcosa oltre il composto oppure no (dico la materia e ciò che è con la materia)? Infatti, se non c’è, tutte le cose che sono nella materia sono corruttibili; se c’è qualcosa, dovrebbe essere la specie e la forma. Dunque, è difficile stabilire per quali cose c’è una forma separata e per quali no, infatti è chiaro che per alcune cose la forma non è separata, ad esempio una casa», (Metafisica Kappa 2,1060b23-28).
Nell’ambito del venire ad essere, in tutti quei casi in cui qualcosa viene ad essere ad opera di qualcosa che ha lo stesso nome – e questo può essere vero anche per una sedia, nel senso che questa è prodotta propriamente a causa di qualcosa (la forma-sedia) che ha lo stesso nome ed esiste nell’anima dell’artigiano – in generale si può dire che sia le cose per natura che le altre sono sostanze. Il generico riferimento alle altre – ta alla – può certamente includere gli artefatti ma non nel senso che qui si intenda mostrarne la sostanzialità. Aristotele sta in parte ricapitolando le linee dell’indagine svolta nel segmento di Zeta dato dai capitoli 7-9 e, probabilmente, utilizza il termine ousia ad indicare gli enti concreti che si danno per natura e per altre cause (per arte, caso e spontaneità), mentre nelle righe seguenti, quando si deve riferire alle sostanze esemplificate da Socrate e Callia, usa kath’ekaston. Il punto significativo è il seguente: nel caso di Socrate e Callia la forma, o comunque si debba chiamare la configurazione entro il sensibile, non diviene né c’è generazione di essa, come non c’è generazione dell’essenza, che è ciò che si genera in qualcos’altro (per opera dell’arte, della natura o della potenza, Metafisica Zeta 8,1033b5-8).
Il tode ti (la forma che rende l’intero un ente determinato) è incorporata in esso ed è al tempo stesso separabile nel caso delle sostanze naturali, invece, nel caso di una casa, non si dà alcuna forma al di là (para) della casa stessa – l’assunto è presente anche in Eta 3,1043b18-21. La forma degli artefatti non esiste in modo non qualificato separatamente dal composto (esiste separatamente solo in modo accidentale, nel senso che è nell’anima dell’artigiano) e, dunque, la forma degli artefatti non è sostanza. Solo in maniera derivata si può operare l’inferenza che rende possibile sostenere la non sostanzialità degli artefatti, essendo qui chiamata in causa solo la loro forma. Ed essendo il passo del tutto neutro rispetto ai modi ed ai criteri di composizione di una casa. In sintesi, la forma degli artefatti non esiste separatamente come la forma delle sostanze naturali e, al contrario di quest’ultima, si genera e si corrompe insieme al composto.
Se, poi, le forme fossero separate nel modo in cui suggerisce Platone – e quindi tali da essere già di per se stesse un alcunché di determinato – non si potrà in alcun modo spiegare come possano effettivamente rientrare nella costituzione dei concreti enti determinati. Le Idee o Forme platoniche sono, in realtà, solo un concetto astratto – un universale posto su una scala logica di generalità – indicante di che specie o natura è una cosa; se la forma del sensibile non esiste se non in unione con la cosa di cui è forma, rimane oltremodo oscura la spiegazione del divenire delle cose. Da questa prospettiva l’errore di fondo della teoria delle Idee dato che postula una radicale separatezza tra cosa ed essenza è il seguente: dalla separazione dell’Idea di gatto dal gatto si ricava una relazione di inversa proporzionalità tra grado d’essere del gatto e grado di conoscibilità del gatto. Abbiamo il sensibile come un agglomerato di attributi eterogenei e delle unità reali poste su un livello metafisico ulteriore che si rapporta al primo in modo partecipativo. Viene posto come massimamente conoscibile e come fondamento della scienza ciò che, in ultima analisi, è inconoscibile, poiché il sensibile è completamente svuotato della qualifica di esistenze, (Metafisica Zeta 6, 1031b3-10).
Se l’essenza sostanziale e l’essenza della cosa sono separate, potremmo chiamare la prima essenza dell’essenza della cosa, ma non aggiungeremmo con ciò nulla alle nostre conoscenze, poiché sarebbe come dire essenza della cosa; se ammettessimo che stiamo dicendo qualcosa di diverso, ricadremmo in un regresso tale da annullare il potere esplicativo della teoria (1031b28-1032a4). Di conseguenza, la separatezza dalla materia e dal movimento non è un buon argomento a favore dell’ingenerabilità ed incorruttibilità delle forme: solo intendendo le forme come principi interni del movimento tali attributi possono essere connessi con il compimento cui tendono gli enti naturali, considerandole come la controparte teleologica dei processi cui sono sottoposte. Detto altrimenti, se la forma è un principio interno siffatto, allora i composti naturali possono essere sottoposti a quei processi ricorsivi che non solo ne fondano l’identità formale, ma soprattutto l’eternità formale, essendo la forma tale da dotare ciò di cui è causa di una specifica modalità d’essere, quale è l’eternità.
Sostenere che la forma o sostanza non si genera mentre il composto, cui attribuiamo un nome proprio in virtù della forma, si genera e corrompe significa anche che essa determina quei tratti strutturali ed essenziali di ciò di cui è causa ma, a differenza delle Idee platoniche, è anche responsabile di quei processi fisici in cui consiste la sostanza di ogni composto naturale. In altri termini, ogni sostanza naturale è, sotto il profilo formale, qualcosa di semplice e di incorruttibile mentre, sotto il profilo per cui è un composto risultante da rapporti di articolazione ilemorfica, è un particolare processualmente corruttibile; la corruttibilità appartiene a tutte le sostanze naturali – e per questo è connessa con la particolarità delle singole forme viventi solo per via accidentale – ed è, in certo modo, una condizione del modo di composizione. Nel caso delle sostanze naturali è possibile conferire alle forme (individuali) l’eternità propria di un principio che regola il divenire del composto e questa eternità è connessa al ruolo causale ed esplicativo della forma stessa.
Per concludere su questo punto è bene ricordare che nei dotati di principio interno di mutamento e stasi il rapporto di composizione è un rapporto di articolazione dal semplice al composto e, per questo, le forme sono (a differenza delle specie) indipendenti dalla determinazione temporale che le renderebbe incorruttibili al modo degli astri. La forma può essere collocata su un livello temporale distinto da quello dei mutamenti che interessano il composto e di cui essa è la regola. Questa relazione tra la determinazione semplice – natura o forma – e mutamento accidentale da un lato, e determinazione complessa ed ilemorfica – la sostanza naturale – e mutamento sostanziale dall’altro è mediata da un rapporto di composizione che veicola l’identità della cosa (della forma ci sarà divenire e conoscenza solo per via accidentale e avrà un tipo di eternità o modo d’essere non temporale, in quanto principio del divenire temporale).
- 3– Costituzione e identità: un modello mereologico semplificato
- 3.1- Il principio di attività: Wiggins e Leibniz
L’identità di un vivente poggia sul possesso della sua parte principale, sede della sostanzialità. La stessa cosa non si può dire per un artefatto. Poniamo che la sedia rotta ed arrugginita che è oggi in cantina sia la stessa sedia sulla quale l’estate scorsa ero seduta. Apparentemente a (la sedia rotta ed arrugginita) e b (la sedia che usavo l’estate scorsa) possono essere lo stesso F (lo stesso tipo di artefatto) senza essere lo stesso G (la stessa sedia rotta ed arrugginita) perché la proprietà F appartiene ad a e b in virtù di una continuità naturale che esibiscono, mentre la proprietà G è stata acquisita con il tempo.
In apparenza si ha a che fare con due sedie differenti la cui condizione di permanenza nel mutamento non è data dallo stesso sortale. Tuttavia, ci si affida all’indiscernibilità degli identici di Leibniz come principio regolante le asserzioni di identità (nella forma “a e b sono lo stesso F”) è necessario enucleare un livello base di predicati – sia nei sortali di sostanza che nei sortali di artefatti – a cui vengono riportati tutti i predicati temporalizzati che fanno riferimento a proprietà, stati, ruoli acquisiti o persi nel tempo intendendoli come restrizioni del sortale di base (in questo modo si evita, in quanto risulta non necessaria, la traduzione temporale di tutti gli enunciati di identità, al modo dell’ontologia quadrimensionalista). In maniera complementare, i predicati di ruolo o titolo si collocano al di qua del livello ontologico in cui è in gioco l’identità del gatto e della sedia, nel quale lo stesso ruolo può essere occupato da individui differenti.
Da questo schema comune si può in primo luogo desumere che per gli artefatti e per le sostanze naturali sono necessari dei principi di identità nel mutamento – sia esso strutturale che nel tempo – che coinvolgono la natura delle parti e degli interi. Nelle piante e negli animali (che hanno una natura) tali principi sono vincolati alla presenza di strutture complesse (il sistema linfatico nei vegetali cui fa capo la capacità vegetativa) o parti (il cuore nei viventi sanguigni) in cui la forma è localizzata nella sua funzione (dinamica) di principio interno. L’essere dotati di un principio interno di mutamento o stasi e l’essere dotati di cinque sensi è una determinazione essenziale al sortale sostanziale e non è temporalizzata – a meno di modificazioni notevoli sul piano strutturale. Rispetto a questo livello di base, formale, che ci dà la natura, l’identità necessaria e, potremmo dire, l’orientamento teleologico implicato nel suo compimento, vi sono flussi di determinazioni che appartengono ad essa in modo accidentale, che vengono persi ed acquisiti, che ne specificano il ruolo senza che il soggetto muti nella sua essenza. Il principio interno di mutamento e stasi – nel lessico di Wiggins 2001 il principio di attività – è qualcosa di strettamente relato alla struttura delle sostanze, al punto che concorre a determinare la persistenza dei continuants individuali.
Wiggins non definisce in termini generali cosa effettivamente sia questo principio di attività benché se ne serva per elaborare criteri classificatori dei tipi di sortali sostanziali: «things which exist by nature […] such as animals and organs of these or plants and the elementary stuff […] have in them a principle of change or rest (in respect of place or growth and decline or alteration generally) […] the nature of a thing being the source or cause of non-accidental change or rest», (Wiggins 2001, p.81).
L’attività di un soggetto sostanziale può essere minimamente intesa come una sequenza di interazioni causali tra le sue parti interne o tra l’intero e l’ambiente esterno, la cui descrizione è traducibile in un ordine di processi che determinano in larga misura la persistenza del vivente in esame. In Aristotele un esempio di questo tipo di processi è dato dalla nutrizione: la vita stessa, nella sua forma più basilare, coincide con tali processi, (De anima II.4, 416b9-13, 415b19-28, 416a15-18). Finché l’organismo non consegue la sua grandezza propria, la nutrizione è indistinguibile dall’accrescimento ed è quel processo metabolico complesso, scomponibile in processi semplici, finalizzata alla conservazione di ogni corpo vivente in quanto vivente, (De anima II.4,416b14-19). Comporta dunque modifiche nell’ordine della grandezza nelle parti del soggetto senza che queste ne compromettano l’identità.
Aristotele sembra proporre una nozione forte di principio di attività o, almeno, più forte di quanto sembra emergere dalle pagine di Wiggins: «the Leibnizian echo made by ‘activity’ is deliberate but, outside the monadological framework, it does not have to import anything very different from ‘way of being, acting and reacting’- something a stone might have», (Wiggins 2001, p.72). Il principio così inteso, infatti, non distingue tra viventi e non-viventi: una nozione debole o inclusiva di attività, se estesa ai non-viventi, non ci fornisce alcun criterio di persistenza. In Aristotele invece il principio di attività (qui esemplificabile anche dal principio interno di mutamento e stasi) è la base su cui distinguere gli interi che vengono ad essere per natura da quelli che vengono ad essere per altre cause da un lato, dall’altro è la base teorica su cui si pone il problema della strutturazione metafisica e della sostanzialità di una classe specifica di interi. Se si accetta questa posizione, il principio di attività nelle sostanze naturali è strettamente connesso con l’identità diacronica del vivente in quanto chiama in causa due funzioni psichiche primarie, quali nutrizione e riproduzione, connesse con il mantenimento in vita ed il compimento di una forma (atto e identità sono intimamente connessi).
Al contrario, l’identità sortale degli artefatti sembra alquanto ristretta e in prima battuta dipendente dal principio di composizione. Completo smantellamento e ricostruzione, modificazioni mereologiche, intermittenze ed interruzioni di funzionamento sono tutti casi che complicano il tentativo di produrre una teoria. Per quanto concerne l’organizzazione mereologica di una sedia – più semplicemente, il tentativo di capire se le relazioni spaziali tra le parti seguono o sono correlative a qualche regola di dipendenza ontologica – si può dire che la struttura e disposizione reciproca che assumono nel tutto danno luogo ad un’unica determinazione qualitativa, la cui unità riposa nel carattere funzionale incorporato in esse. Detto altrimenti, le parti assumono quella particolare conformazione e disposizione se e solo se è posto a priori il carattere funzionale del tutto. La possibilità di esiti divergenti e di differenze nelle realizzazioni possibili di una sedia, dunque, sono vincolate al progetto, per quanto questo progetto debba rimanere conforme alla funzione ed alla destinazione d’uso di una sedia.
- 3.2- Il modello artefattuale di Rudder Baker
Si pensi al seguente caso divenuto ormai famoso nella letteratura analitica[28]. Poniamo che in un tempo t Mirone scolpisce il Discobolo, in t1 lo smantella e ha tra le mani un Blocco di marmo: la statua del Discobolo in t e Blocco di marmo in t1 potrebbero essere due enti successivi nel tempo, come due oggetti differenti suscettibili di criteri di identità diversi. I casi di branching o doppia identificazione[29] aggravano ulteriormente la determinazione dei criteri di persistenza. È agevole immaginare situazioni in cui si hanno sia una fase di smantellamento e ricostruzione che la sostituzione delle parti e, in casi simili a questo, l’applicazione simultanea di due criteri di identità dà origine a puzzle di sdoppiamento analoghi a quello della nave di Teseo. Come si è visto nel caso della perdita ed acquisizione di proprietà, a meno di non ammettere l’identità relativa la contraddizione è evidente. Ma il Discobolo di Mirone è fatto di marmo ed è la stessa statua del Blocco di marmo ma non è lo stesso Blocco di marmo poiché si sarebbero potute verificare innumerevoli situazioni possibili in cui quel Blocco fosse utilizzato per gli scopi più svariati – una lapide, un muro, il David di Michelangelo. In modo correlativo, si sarebbero potute verificare situazioni in cui la materia del Discobolo fosse nel corso del tempo sostituita e rimpiazzata da un altro tipo di materia -poniamo cera- in modo da mantenere la stessa configurazione, come accade nel noto esempio della nave di Teseo. Nel primo caso avremmo lo stesso Blocco di marmo, nel secondo caso, invece, la stessa configurazione, la statua del Discobolo. Per ricavare le condizioni di permanenza ed identità del Discobolo di Mirone sembra necessario fissare una serie di attributi formali del tutto indipendenti dalla materia di cui è fatto il blocco. La statua potrebbe essere distrutta, ridotta in frantumi (cessa di esistere come tale nel momento in cui perde i nessi dell’organizzazione mereologica che ne definisce l’identità in modo continuativo) oppure trasformata in una lapide e dunque, o con la distruzione anche il Blocco cessa di esistere in quanto Blocco perché la statua e la lapide sarebbero due artefatti diversi oppure il Blocco è lo stesso ma anche in questo caso la statua non sarebbe il Blocco nello stesso senso in cui il Blocco è la statua. La statua non è più la medesima se la sua scomposizione oltrepassa il limite oltre il quale le procedure di restauro non possono riportarla ad esprimere l’intenzione dell’artigiano.
Detto altrimenti, la statua Discobolo si trova in un certo luogo nel tempo t1 occupando un certo volume v1, ( Wiggins 1968). Questo stesso volume è occupato anche dall’aggregato Blocco di materia che compone la statua: anzi, è proprio il fatto che Blocco occupi v1 a determinare con precisione che Discobolo occupa v1. Si consideri tuttavia che da una prospettiva aristotelica nell’esemplificazione data dagli artefatti non viene messo a tema il bronzo in quanto bronzo, vale a dire il bronzo inteso come una mescolanza determinata sulla base di una proporzione tra gli elementi della mistura, ma del bronzo sotto il profilo per cui esso non ha ancora una forma specifica. non si può ancora dire in senso proprio che il bronzo viene ad essere una statua, ma che il bronzo in quanto privo della forma-Discobolo viene ad essere la statua in quanto bronzo dotato della forma-Discobolo. Discobolo e Blocco si trovano, pertanto, nello stesso luogo e nel medesimo tempo: sono identici? Per affermarne l’identità dobbiamo accettare che ciò che è vero per Discobolo è vero anche per Blocco – legge di Leibniz – ma, evidentemente, Discobolo e Blocco non hanno le stesse condizioni di persistenza e sopravvivenza durante il cambiamento. Non si deve però pensare che Discobolo sia necessariamente qualcosa in più rispetto a Blocco, come se si trattasse della risultante di una somma mereologica (Scaltsas 1990).
Discobolo ha la proprietà di essere una statua in modo indipendente dalle sue relazioni di costituzione – in modo dunque essenziale – poiché il fatto che sia una statua non implica affatto che sia costituito da qualcosa che potrebbe essere stato una statua anche se non avesse costituito qualcosa. Invece, non si dà il caso di un Blocco che abbia la proprietà di essere una statua in modo indipendente – a guisa di una determinazione per sé ed essenziale – dalle sue relazioni di costituzione; il fatto che il Blocco sia la statua implica che il Blocco costituisca qualcosa. Dire il Discobolo di Mirone è un blocco di marmo è vero perché Discobolo ha la proprietà di essere quel Blocco di marmo in modo derivato: ciò permette di catturare la distinzione tra un uso predicativo ed un uso costitutivo della copula:
- si può leggere “a è (un) F” come “a è (costituito da) qualcosa che è (un) F”, ovvero “il Discobolo di Mirone è costituito da un blocco di marmo”, riconducendo a questo uso costitutivo della copula l’essere così-e-così di una certa materia (si tenga presente la forma paronimica attribuita da Aristotele ad enunciati di questo tipo, un tavolo non è legno ma di legno), (Wiggins 2001).
Possiamo concluderne che Blocco e Discobolo differiscono modalmente in virtù della differenza esista dalle loro proprietà essenziali: per il Blocco è metafisicamente possibile esistere in un mondo possibile in cui Mirone non è mai esistito o non ha mai scolpito il Discobolo. Quali sono, dunque, i principi di identificazione per gli artefatti? In certa misura è accettabile la posizione di Wiggins secondo cui non esisterebbero, in senso proprio, dei principi di identità e di persistenza che siano teoricamente del tutto soddisfacenti. Continuità mereologica e continuità funzionale, per quanto siano posti solo su base convenzionale, sembrerebbero fornire dei criteri abbastanza plausibili se vi fosse la possibilità di distinguere in Aristotele tra artefatti artistici, quali il Discobolo di Mirone, ed artefatti ordinari quali case e sedie – criteri plausibili solo per il Discobolo, ovviamente. Ma il concetto greco antico di arte livella ciò che per noi moderni è un’opera d’arte in senso proprio – una scultura o un quadro – ai prodotti artigianali in genere (il termine tevcnh copre lo spazio semantico occupato da artefatti artistici ed ordinari). Per qualunque teoria contemporanea si proponga di accettare la sostanzialità prima dei viventi, il Discobolo di Mirone rappresenta un caso limite, data l’evidente individualità che lo caratterizza: in nessun caso il Discobolo avrebbe potuto essere realizzato in materie differenti restando se stesso[30]. Lo stesso dunque non si può dire per Aristotele.
La continuità strutturale o mereologica determina i limiti di persistenza dell’artefatto segnando anche il punto critico al di sotto del quale non potrà più esistere ed al di là del quale esisterà soltanto il Blocco o l’aggregato da cui è costituito. Ciò implica che la continuità mereologico-strutturale debba essere messa in relazione a vincoli di luogo e di tempo e valga solo per quel prodotto particolare della tecnica e non sia, dunque, un criterio sortale. La continuità funzionale garantisce che una sedia possa subire modificazioni e sostituzioni delle sue parti rimanendo se stessa in quanto intero funzionale, ma non tutti gli interi che svolgono la medesima funzione sono portatori di una struttura isomorfa. L’esempio degli orologi di Wiggins è particolarmente efficace su questo punto. Secondo Wiggins si può definire un orologio come qualsiasi dispositivo capace di misurare il tempo, e possono esserci numerosi dispositivi che differiscono per struttura e modalità di funzionamento. La ricerca di regolarità nella struttura e nel comportamento degli orologi è dunque destinata al fallimento.
Possiamo aggiungere che la ratio della composizone governata dall’azione dell’artigiano qualifica la nozione di artefatto: se si dovesse definire un artefatto le parti che risulterebbero proprie della definizione sarebbero solamente le parti del progetto dell’artigiano e per ciascuna di esse l’artigiano potrebbe utilizzare supporti materiali differenti vincolati soltanto dal presentare o meno un pacchetto di proprietà disposizionali. Queste parti sarebbero qualificate dal ruolo che svolgono nel tutto grazie all’azione intenzionale dell’artigiano: una sedia deve realizzare le specifiche previste dal progetto del costruttore, e tali specifiche devono necessariamente essere conformi con una definizione funzionale della sedia – non vi è dunque alcun condizionamento gerarchico tra le parti di un artefatto se non in relazione alla sua configurazione finale.
- 4- Conclusioni: mutilazione e identità
I criteri di identità e persistenza degli artefatti spesso dipendono anche dalle loro destinazioni d’uso: una sedia con una gamba divelta resta una sedia solo de dicto: funzionalmente non è più considerata tale. Per i viventi secondo Aristotele le cose stanno diversamente, al punto che una voce (spesso trascurata dagli interpreti) del suo lessico filosofico può essere intesa come una specificazione di sostanzialità:
«‘mutilo’ si dice non di ciò a cui capita di essere delle quantità; bisogna invece che si tratti di una cosa che sia divisibile e che sia un intero. Infatti, il due non è mutilo se gli viene tolta l’una e l’altra unità (infatti, ciò che è tolto con la mutilazione non è mai uguale a ciò che rimane), né in generale lo è [scil. mutilo] nessun numero. Infatti, deve permanere anche la sostanza: se una coppa è mutila bisogna che sia ancora una coppa, invece il numero non resta più lo stesso. Inoltre, neppure le cose anomeomere sono tutte [scil. mutile] (infatti un numero può anche avere parti dissimili, il due e il tre), ma in generale, nessuna delle cose per le quali la posizione delle parti non fa nessuna differenza, come l’acqua o il fuoco, è mutila, ma è necessario che queste siano tali da avere una posizione delle parti stabilita dalla loro stessa sostanza. Bisogna inoltre che si tratti di cose continue. Infatti, l’armonia è costituita da parti dissimili e che hanno una posizione, ma non diviene mutila. Inoltre, non tutte le cose che sono interi sono mutile, non sono mutile neppure quelle che sono private di una parte qualsiasi. Infatti è necessario che non siano private né delle parti proprie della sostanza né delle parti in una posizione qualsiasi. Per esempio, se una coppa è bucata non è mutila, ma lo è se gli viene tolto un manico o una qualche estremità; e un uomo non è mutilo se gli viene asportata della carne o la milza, ma se gli manca una qualche estremità, e non una qualsiasi, ma una che non può più ricrescere dopo che è stata asportata per intero. Per questo i calvi non sono mutili» (Metafisia Delta 27, 1024a11-28, trad. C.A. Viano modificata).
Questa voce del lessico filosofico è assolutamente peculiare. Contrariamente alle altre ventinove, qui il tono è assertivo-normativo, come se si trattasse anzitutto di normalizzare l’uso linguistico di mutilo per farne un uso filosofico, la cui tecnicità interviene primariamente in contesti biologici (necessità comprensibile se si tiene conto dell’occorrenza certamente tematica che compare nel Politico di Platone: il gregge mutilo, 265d4 (agli occhi di Aristotele si tratta, peraltro, di un uso errato)). I concetti chiave del capitolo, che poi corrispondono all’esplicitazione di veri e propri criteri di mutilazione, sono i seguenti: posizione, continuità, estremità[31].
(i) Posizione. A quali condizioni, dunque, si può dire che qualcosa è mutilo? Vediamo se è possibile dimostrare che il concetto di connessione continua è alla base della struttura di un intero che possa essere diviso in parti continue. Ciò che viene sottoposto a mutilazione non deve essere una quantità qualsiasi, ma deve esserlo in modo qualificato: deve essere divisibile e costituire un intero. Sia il numero che il corpo rientrano in questa categoria. La mutilazione non si applica ai numeri in quanto alla fine del processo ciò che rimane è qualcosa di essenzialmente diverso dall’ente di partenza: sia che al numero 3 si sottragga il numero 2, sia che si sottragga il numero 1, il risultato della divisione (o, meglio, dell’operazione di sottrazione) sarà un numero sempre diverso dal 3. Per quale motivo? Le parti del numero sono intese a guisa di parti sconnesse, poiché non vi è nessun confine comune che le connetta: il 5 è il risultato di 3+7. Questa operazione è come se fosse intesa come una somma mereologica, in quanto il tre e il sette non si connettono in relazione a nessun limite comune (Cat. 6, 4b28-29). Ciò che è corpo (qui inteso grezzamente, in senso geometrico), invece, si può concepire come se avesse un limite comune: la linea o la superficie in relazione alla quale le parti si connettono o, se si pensa all’armadillo, la linea tracciabile seguendo la successione continua delle parti e che hanno come limite e principio di connessione il cuore. Le parti dell’armadillo, infatti, proprio perché parti di un intero connesso in relazione ad un confine comune (il cuore) e che hanno una posizione le une rispetto alle altre occupano un certo luogo e, aggiungiamo, sono in potenza (al contrario del tutto di cui sono parti che, invece, è in atto). Che le parti siano potenze è tematizzato in modo esplicito nelle pagine di Aristotele:
«è evidente che anche delle cose che sembrano essere sostanze la maggior parte sono potenze: le parti degli animali (infatti nessuna di esse presa separatamente esiste, invece, una volta separate, anche allora esistono tutte come materia), e la terra, il fuoco e l’aria. Infatti, nessuna di queste cose è un’unità, ma è come un mucchio prima che siano cotte e da esse nasca qualcosa che sia unitario. Qualcuno potrebbe pensare che soprattutto le parti degli esseri animati e quelle più prossime all’anima siano in entrambi i modi, in potenza ed in atto, perché hanno nelle giunture qualcosa da cui deriva il movimento: per questo alcuni animali vivono anche dopo essere stati sezionati. Ma tuttavia queste parti sono soltanto in potenza, quando costituiscono un’unità continua per natura, ma non per violenza o per congiunzione naturale: questa è infatti una anomalia», (Metafisica Zeta 16, 1040b5-16, trad. C. A. Viano modificata).
Quali sono le parti più prossime all’anima? I composti elementari e gli aggregati di elementi esemplificano totalità-mucchio rese unitarie da un agente esterno ad esse; la loro caratteristica peculiare è di essere del tutto prive di un principio interno che ne regoli l’assetto complessivo ed i rapporti tra le parti. Dunque non possiedono parti più o meno prossime a qualcosa che in esse funga da fulcro delle variazioni pur nella permanenza dell’intero. Per questo motivo gli omeomeri, gli aggregati ed i mucchi possono essere sottoposti a processi di scomposizione senza che la loro identità ne risulti compromessa: non hanno, infatti, una soglia formale che sia incardinata ad un assetto mereologico. Le parti anomeomero-potenziali hanno un’unità solo in quanto parti di una architettura continua per natura all’interno della quale possiamo isolare quelle più prossime all’anima. proprio mediante il criterio della mutilazione. Fino a che punto possiamo mutilare un gatto? Fin quando rimane in possesso di quella parte in cui risiedono le proprietà essenziali al suo essere sostanza di un certo tipo: il cuore. L’esemplificazione in merito alle parti che hanno o meno posizione è condotta anche qui su base artefattuale. Una coppa è un intero connesso composto da un insieme di parti. Possiamo dire di una coppa che è mutila poiché se togliamo una parte all’intero, l’intero sarà sempre una coppa e preserverà la sua sostanza: ciò che permane deve essere la stessa ousia che si aveva all’inizio. Ma affinché una cosa sia mutila non è sufficiente che sia un intero anomeomero, o composto da parti dissimili, altrimenti anche il numero potrebbe essere detto mutilo (non tutti gli anomeomeri sono sostanze: il 5, infatti, esemplifica un intero anomeomero visto che può essere dato dalla somma del 3 e del 2).
Possiamo infatti considerare il 3 e il 2 come parti dissimili del 5, ma questa considerazione non è ancora sufficiente in quanto non possiamo istituire una regola secondo cui il 3 ed il 2 siano parti a diverso titolo e funzione del 5. Il numero si comporta come la sillaba: i rapporti di anteriorità e posteriorità istituibili tra di essi originano una successione all’interno della quale non è prevista la presenza di un ulteriore elemento o sillaba tra i due. Non c’è limite comune, non c’è contatto. Per gli elementi vale lo stesso discorso: per essere mutilo l’intero non deve avere una natura omogenea ed indifferenziata come l’acqua ed il fuoco (se verso da un bicchiere una parte di acqua ciò che rimane è sempre acqua, come accade per tutti i termini-massa). Nel caso delle sostanze le parti devono essere disposte secondo un ordine necessario che è dettato dall’essenza stessa dell’intero, che deve esibire una organizzazione strutturale sufficientemente articolata affinché sia applicabile la scomposizione, ed il corpo scomposto possa essere detto mutilo nella misura in cui conserva la sua stessa sostanza nonostante la mutilazione. Come mai? La nozione di continuo è la chiave per capire il punto.
(ii) Continuità. Come accade nell’analisi di luogo, tempo e movimento, che sono le coordinate di riferimento per esperire qualcosa, il continuo è il presupposto dell’analisi dei corpi in generale. Tale meta-struttura è alla base dei criteri di mutilazione. All’inizio di Fisica VI.1 si distingue il continuo dal contatto e dal consecutivo: continuo è ciò le cui estremità sono una sola cosa, in contatto sono quelle cose le cui estremità sono insieme, consecutive infine quelle in mezzo a cui non vi è nulla di affine, (231a22-30). Tra le grandezze le cui estremità sono una unità solo di quelle divisibili si può dire che sono continue: nel nostro caso, un animale è una grandezza divisibile. L’esemplificazione geometrica aiuta a capire il punto. Una linea, precisa Aristotele, non può consistere di punti poiché, se così fosse, non sarebbe soddisfatta la condizione secondo cui gli estremi sono uno. Infatti, un punto è privo di parti (231a24-28: in osservazioni di questo tenore si deve cercare il motivo per cui Aristotele non annovera tra i problemi matematici il continuo. Impostare la trattazione anche con l’ausilio della distinzione tutto-parti sposta il baricentro stesso dell’argomento).
Solo le parti possono stare in una relazione di continuità o essere in contatto: a differenza dei punti di una linea, le parti di un gatto non coincidono (se non grazie ad un limite comune) né lasciano tra loro uno spazio occupabile da altre parti. Così intesa, la continuità tra le parti di una tazza o tra le parti di un gatto non è una qualità né una relazione dell’intero. È, invece, la condizione stessa della divisibilità in parti – nel caso di grandezze quali luogo, tempo e movimento – e della mutilabilità di grandezze estese quali i corpi percipienti. Invero, è inteso indivisibile ciò che è privo di parti e si trova ad essere in contatto con qualcosa in quanto intero. Ma un contatto tra interi esemplifica una discontinuità. Un gatto è una totalità continua perché può essere diviso in parti localmente distinte e separate: infatti, il continuo ha ora una parte ora un’altra e si divide in cose che siano diverse in questo modo e siano separate per luogo (231b4-6). Ovviamente non si esclude per questo che si possa, in alcuni casi, avere a che fare con una separazione concettuale, non fisica, tra le parti. Il punto significativo è che un continuo è divisibile in parti che sono sempre nuovamente divisibili (231b16): infatti, se fosse divisibile in parti indivisibili, si verificherebbe un contatto tra due indivisibili, dal momento che una è l’estremità e uno è il punto di contatto dei continui (231b16-19). Mentre in questa definizione non si richiede una precisa qualificazione del concetto di parte in essa implicato, per cui è sufficiente dire che si tratta di parti a loro volta continue e concettualmente divisibili all’infinito, nei processi di mutilazione la focalizzazione non è posta sulla divisione in quanto tale. È piuttosto posta sul tipo di parti che ci fanno dire che qualcosa è mutilo o non mutilo. Poiché il continuo è inteso come costituito di parti e queste parti non possono che essere caratterizzate come parti (che è possibile) dividere all’infinito, né la relazione di costituzione né la nozione di parte sono qui oggetto di ulteriore raffinamento teorico. Al contrario, se mutiliamo un gatto dobbiamo tenere presente sia da cosa è governata la sua costituzione in unità, sia quali parti sono rilevanti in questa relazione.
(iii) Estremità (comune). Perché una coppa bucata non è mutila, invece una coppa senza manico lo è: il manico è dunque una parte più necessaria delle altre? Anche la carne e la milza qui vengono investite dello stesso grado di necessità per la vita animale, al punto che la mutilazione della carne e l’asportazione della milza compromettono la persistenza della sostanza. Il caso della carne è abbastanza semplice: è detta essere principio e corpo per sé degli animali (De partibus animalium II.8, 653b23) ed essendo l’intermediario del tatto, una radicale asportazione della carne potrebbe compromettere la soglia formale della sostanza. Quanto alla milza, invece, da De partibus animalium III.7 sappiamo che fegato e milza sono organi correlativi (si tratta di visceri dalla natura bipartita) data la loro collocazione speculare; poiché il fegato si trova in una posizione spostata a destra, si è venuta a formare la milza che, in una certa misura, ma non in modo assoluto, è necessaria alla vita animale (De partibus animalium III.7, 670a2). Trattandosi di parti che non ricrescono, come invece i capelli, la loro perdita compromette la sopravvivenza della totalità. Una dissimiglianza generica tra le parti non è dunque sufficiente per fare dell’intero un mutilo, altrimenti anche l’armonia sarebbe tale (tolta un’ottava per esempio). Deve dunque darsi una distinzione tra quelle parti che sono più essenziali all’essere una sostanza di un certo tipo, e quelle parti che invece godono di gradi di necessità sempre inferiori; la presenza di un ordine gerarchico di parti sembra addirittura implicata nella continuità che ne caratterizza l’articolazione.
Ricapitoliamo il senso di questo lungo percorso. Quando sottoponiamo la morfologia di un artefatto ad un processo di scomposizione massiva, e restiamo soltanto con dei pezzi tra le mani, ed eventualmente quando con questi pezzi costruiamo un altro artefatto, l’intero di partenza cessa di esistere se e nella misura in cui questo percorso implica una perdita dell’organizzazione mereologica essenziale all’essere artefatto, e dunque al mantenimento continuativo della propria identità. Il limite superato il quale si ha la distruzione dell’artefatto è di matrice funzionale: non è la sostanza a venir meno bensì la possibilità stessa di assolvere ad una data funzione. La sedia potrà svolgere altre funzioni e realizzarle su un supporto materiale modificato: potrà essere per esempio un insieme di pezzi di ricambio e così via. Per ognuna di esse sarebbero disponibili supporti materiali multipli vincolati soltanto dal presentare o meno certe proprietà disposizionali – in ambito artefattuale rimane aperta la possibilità logica di una lettura funzionalista del nesso materia/forma.
Nel caso del vivente, in conclusione, non è possibile un processo di scomposizione e ricomposizione massiva ferma restando l’identità del soggetto. Posso operare la mutilazione sul mio gatto eliminando occhi, naso, orecchie, zampe, testa: affinché rimanga un gatto devono essere salvaguardate le parti che rientrano nella soglia formale del composto e che lo mantengono in vita. Il gatto mutilo di zampe è comunque un animale che conserva tutte le potenzialità proprie della sua anima, pur conservandone solo alcune in atto (il tatto e alla possibilità di rotolare o strisciare). Il gatto mutilo di zampe è comunque una sostanza fintanto che il processo di mutilazione non incontra un limite oltre il quale non può esercitarsi: quel limite è dato dal cuore, dalla sede delle proprietà essenziali all’essere sostanza di quel tipo. La mutilazione, intesa come processo che disvela il limite corporeo della sostanzialità, implica la conservazione delle proprietà che fanno capo al genere e che rientrano come necessarie nell’intero.
Nota bibliografica
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[1] Questo saggio è la risistemazione di una sezione della mia tesi di laurea dedicata alla Fisica di Aristotele.
[2] In virtù delle caratteristiche esibite dai sortali si può concordare con quanti ritengono che la natura degli enti che popolano il dominio dell’esperienza possa essere efficacemente espressa da questi termini. Cos’è un sortale? In una interpretazione minimale con sortale si intende un termine generico che accoglie modificatori di quantità poiché può dividere il proprio riferimento. Poniamo di avere a che fare con cani, gatti, alberi, tavoli, mele: in tutti questi casi possiamo contare – ci sono uno, due, tre, n cani – e possiamo chiederci quanti cani ci sono qui. Ai sortali si oppongono i termini di massa come neve, dal momento che possiamo al massimo dire che c’è della neve qui e determinare quanta neve c’è. A differenza di quanto espresso dagli aggettivi, dai verbi e dai termini di massa, i sortali offrono un criterio di enumerazione degli oggetti di una certa sorta e sono strettamente connessi con l’identità numerica (ad esempio, non ci possono essere due sortali diversi che occupano la medesima regione di spazio e, ancora, non vi possono essere sortali che siano negazioni di altri sortali, dato che l’operazione di complementazione annulla il criterio di contabilità (con non-cane si può intendere qualunque cosa, dal gatto al tavolo) e con l’individuazione degli enti che risultano essere contabili (per queste indicazioni di ordine generale, cfr., Grandy 2007). In epoca moderna e contemporanea, il raffinamento teoretico di queste nozioni è stato condotto da Wiggins 1980 e 2001 e da Strawson 2008.
[3] Nell’ambito della filosofia analitica con tridimensionalismo si intende quella dottrina degli oggetti ordinari spesso difesa come la posizione non solo più vicina ad Aristotele ma anche al senso comune, intesa come modello che ricalca quasi fedelmente la nostra concezione ingenua del modo, in cui gli oggetti continuano ad esistere a tempi diversi. La tesi centrale può essere formulata come segue: gli oggetti ordinari posseggono tre dimensioni spaziali e perdurano nel tempo in quanto sono interamente presenti in ogni istante della loro esistenza. Sedie e individui hanno parti (anomeomere nel lessico aristotelico) localizzate ad un certo livello dell’organizzazione corporea (dove è presente la mia testa, ad esempio, non è presente il mio braccio) che, però, non sono divisibili in parti lungo la dimensione temporale. Per questo motivo anche le parti del mio corpo sono interamente presenti (a se stesse) a tempi diversi. Dire che interi differenti e parti differenti perdurano significa introdurre una relazione di identità molto stretta, in quanto io sono in ogni momento identica a me stessa lungo l’intero arco della mia life history. Non esiste una parte di me che potremmo chiamare io-ieri-sera e che stava vedendo un film ed un’altra parte di me, che potremmo chiamare io-oggi-pomeriggio che sta scrivendo al computer. Ci sono sempre e solo io che persisto attraverso la dimensione temporale pur restando in ogni istante interamente presente a me stessa. Accanto a questa prima modalità di persistenza – si badi, per come è stata impostata la questione, non si è ancora detto perché io persisto così-e-così – il tridimensionalismo riconosce un’altra modalità di persistenza propria degli eventi. Gli eventi, infatti, a differenza degli interi tridimensionali, hanno parti temporali e persistono nel tempo in virtù del susseguirsi in successione delle loro parti temporali. Una partita di calcio, ad esempio, persiste per novanta minuti con l’avere un primo tempo seguito da un secondo tempo, e senza mai essere interamente presente in nessun momento della sua esistenza. Per la dottrina delle parti temporali e le implicazioni metafisiche del quadrimensionalismo rinvio all’ormai classico lavoro del 2002 di Runggaldier-Kanzian.
[4] Questo passo – in particolare la linea 1070a5 – è oggetto da parte di Frede-Patzig 2001 p. 471 di una interpretazione forte; i due studiosi vi vedono, infatti, un caso di inclusione esplicita degli artefatti nel novero delle sostanze.
[5] Va rilevato che Katayama 1999 individua quattro luoghi contro la sostanzialità degli artefatti (Metafisica Beta 4. Kappa 2, Eta 3 e Lambda 3) con il seguente obiettivo: «from these passages, I establish that in the Metaphysics, Aristotle offers only one argument against the substantial status of artifacts, which is: the form of an artifact does not exist apart from the composite; hence, it is possible that an artifact is not a substance», p. 10.
[6] Su questo punto si veda: https://annaliside.wordpress.com/2007/04/22/la-classical-extensional-mereology-e-lapproccio-di-aristotele-2/.
[7] Su questo tema mi permetto di rinviare ad Arci 2011.
[8] L’eternità è qui grezzamente intesa come convinzione secondo cui, data la fissità delle specie, sempre ci sono stati e sempre ci saranno rappresentanti di ciascuna specie, senza che con ciò si sostenga l’eternità materiale di ciascun membro dell’estensione attuale della specie (non si configura come attributo distributivo del tutto rispetto alle sue parti): Lennox 2001. Il problema dell’eternità della specie e delle conseguenze teoriche che da esso discendono meriterebbe indubbiamente una trattazione indipendente che, in questa sede, non è certo possibile condurre. Mi limito a segnalare un punto. L’eternità delle specie, poggiando sull’istinto alla riproduzione, garantisce la necessità dell’esistenza delle specie e, dunque, l’eternità di quelle che, de facto, esistono; con ciò si ha l’applicazione del cosiddetto principio di pienezza in base al quale se qualcosa è sempre, allora è necessariamente. L’eternità della specie verrebbe intesa – nello studio di Lennox – in senso formale più che numerico. Con ciò intende svincolare la necessità della specie da quella dei caratteri esibiti dai singoli individui che vi appartengono per ancorarla alla tesi secondo cui in ogni momento deve esistere almeno un rappresentante della specie che esibisca la forma di quella specie. Ma l’eternità formale delle specie non coincide affatto, secondo lo studioso, con l’eternità della forma – uno in forma è solamente un individuo composto e perituro, non certo un termine generico; l’unità in forma della specie non implica affatto l’identità tra eternità della specie ed eternità della forma. Ho accennato il punto poiché anche qui è possibile scorgere una significativa divergenza tra l’ontologia dei viventi e quella in essa incorporata degli enti conformi ad una tecnica, per cui non vi è alcun principio di eternità ed attualità delle forme dei rispettivi tipi.
[9] Fisica II.1,192b5-8. Gli esempi addotti, di cui la natura sarebbe principio di mutamento, riguardano le totalità anomeomere – animali, piante e le loro parti – e i corpi semplici, i quattro elementi della tradizione. Risulta evidente l’analogia con l’incipit di Metafisica Z.2 in cui si affronta il problema del novero delle sostanze – quello che la storiografia ha battezzato come problema popolazionale (Galluzzo-Mariani 2006) – in cui, tuttavia, la sostanzialità viene primariamente ricondotta all’alveo della corporeità e solo successivamente si produce un elenco il più possibile esaustivo di tutti i corpi che diciamo essere sostanze.
[10] Fisica II.1, 192b10-13. Tutte le citazioni della Fisica sono condotte sulla traduzione di F. Franco Repellini 1996. L’unica rettifica introdotta concerne il termine sumbebekos reso qui con accidente e non con concomitante.
[11] La nozione di per sé è intrinsecamente problematica e non può essere in questa sede oggetto di un vaglio approfondito. Mi limito a segnalare che, secondo quanto viene detto in Analitici Secondi I.4,73a34-b3, le determinazioni per sé – per lo meno in uno tra i significati individuati – sono quelle nella cui definizione è contenuto il soggetto di cui si predicano e che rientrano nella definizione del soggetto di cui si predicano. Su questo punto si veda Barnes 1975.
[12] Su questo punto riprendo l’ottima analisi di Quarantotto 2005.
[13] Metafisica Eta 2,1026b31-33; Fisica II.8,198b34-36; Analitici Secondi I.4,73b10-16.
[14] Sovente la tecnica viene definita come un principio del movimento in altro o nella cosa stessa in quanto altra: De generatione animalium II.1,735a2-5; Metafisica Delta,12,1019a15-20, Lambda 3,1070a7-8; De caelo III.2,301b17-19.
[15] Studiosi come Charlton 1970, Cooper 1982, Irwin 1988 e Lennox 2001 ritengono che anche la materia sia un principio interno di mutamento. Nel caso delle sostanze sensibili questa tesi assume una certa plausibilità, nel senso che in tutti i processi dinamici sia di auto-mantenimento diacronico – si pensi alla connessione tra l’attività treptica e la persistenza nel tempo della sostanza, cfr. Furth 1988 – è sempre una forma assunta da una determinata materia a poter svolgere quella funzione, e una forma intesa come elemento semplice in una scala logica di semplicità. Ovviamente, anche sulla base del dettato di Metafisica Eta 6, l’unità di materia e forma nelle sostanze naturali è subordinata all’individuazione di un campo di relazioni ilemorfiche (come di mutamenti) in cui intervengono solo quei caratteri del tutto accidentali e che non qualificano o sono implicati nella definizione di queste sostanze; per questa ragione, mantenendo fisso un livello ilemorfico in cui ha sede la definizione d’essenza ed in cui si preserva l’identità del soggiacente al mutamento (il che vuol dire, minimamente, mantenere gli apparati legati alla nutrizione), si può dire che il soggetto muta nel tempo ma muta sempre in quanto se stesso.
[16] Seguo la lettura del testo adottata da F. Franco Repellini 1996 (proposta da Laas 1963) che, in accordo con Temistio (In Phys. 36,24-37,2) e Filopono (In Phys. 204,16-23), introduce una virgola dopo l’espressione hupocheimenon gar ti; su questo punto si veda anche Giardina 2006.
[17] Viene in questo modo tenuta sullo sfondo l’ontologia logica delle Categorie in cui la sostanza prima è oggetto di una definizione negativa, come ciò che non si predica di altro né inerisce ad altro (2a11-13).
[18] Va ricordato che non sempre le due espressioni coincidono: si pensi al caso dei terata che, pur essendo per natura, non sono affatto enti secondo natura ma contro natura (para physin). Questo caso suggerisce che l’estensione della classe degli enti per natura sia più ampia di quella che comprende gli enti secondo natura, poiché contiene anche quelli contro natura.
[19] Alcuni studiosi hanno creduto di vedere in questa affermazione un riferimento ad ogni vivente (Kosman 1987; Gill 1989). Ma con questa espressione non si intende dare una risposta al problema popolazionale, ovvero al novero delle sostanze per come viene sollevato all’inizio di Zeta 2. Si intende evidenziare che, se si danno sostanze, lo saranno maggiormente le sostanze che si generano, quali piante ed animali – intento che, come rilevano Frede-Patzig 1988, corrisponde anche a quanto si dice in Zeta 8,1034a4. Ma qui il dettato aristotelico è più sfumato che in Zeta 8: si assume come valido il modo in cui generalmente si parla delle sostanze che vengono ad essere e se ne fornisce una prima caratterizzazione non ancora inserita nella griglia causale, come invece avviene in Zeta 8. Qui, infatti, è plausibile che si dia per scontato che ciò che il diveniente viene ad essere sia in qualche modo una forma, il che sarebbe avvalorato dal fatto che sembra identificare questo fattore con la causa formale (solo a questo livello entrerebbe in gioco la qualificazione con cui le sostanze sono dette essere enti primari e, dunque, solo in Zeta 8 vi sarebbe una risposta al quesito popolazionale).
[20] La stessa formulazione si trova in Metafisica Zeta 15,1039b29-30 e può essere interpretata come un accenno al non ancora tecnicizzato nesso materia-potenzialità.
[21] Metafisica Zeta 7,1032a15-25. Le citazioni della Metafisica tengono conto della traduzione di Viano 1995.
[22] In merito alla nozione di accidente va segnalata una complicazione che nella Fisica rimane sullo sfondo della trattazione. Al di fuori della categoria di sostanza ricadono non solo quelle determinazioni meramente accidentali – il bianco di Socrate – ma anche le proprietà relativamente accidentali della struttura del corpo di Socrate – ad esempio, il grado di durezza della carne necessario affinché la carne possa svolgere le funzioni che le sono proprie. Possiamo, dunque, da un lato analizzare i processi cui Socrate è sottoposto e stabilire una scala di determinazioni più o meno accidentali; correlativamente, posiamo analizzare una o più strutture da esaminare e stabilire un’altra scala di riferimento in cui le determinazioni in gioco avranno diversi ordini di accidentalità.
[23] Metafisica Zeta 3, 1029a27-30. Come accade per tutti i capitoli del libro Zeta della Metafisica esistono molteplici letture elaborate sia sulla base di problemi testuali che di interpretazioni divergenti; esulerebbe dagli scopi di questo lavoro rendere conto dei quadri problematici in cui Zeta 3 può essere inserito. Mi limito a citare Burnyeat 2001 per il ruolo di cesura che il capitolo assume in relazione all’ontologia logica delle Categorie.
[24] Burnyeat 2001 nell’ambito di una lettura non lineare del libro Zeta della Metafisica pone il capitolo 17 in un segmento indipendente rispetto a quello inaugurato da Z.3 (segmento A) concernente le specificazioni logiche della sostanza, affrontato in: A1: Z.3, sostanza come soggetto; A2: Z.4-6, 10-11: sostanza come essenza; A3: Z.13-16: sostanza come (genere e) universale. Con Z.17 si apre il segmento B, indipendente dal resto del libro, che esamina la sostanza come causa e principio, anticipando lo svolgimento di parte del libro Eta, in particolare del capitolo sesto in cui vi si risolverebbe il problema dell’unità della definizione. La non linearità è del tutto correlativa ad una struttura a due livelli, in cui al piano logico – confinato alla preliminare sgrossatura dei problemi – si intreccia costantemente il piano metafisico, caratterizzato dalla coppia concettuale materia-forma. Questa impostazione si trova anche in Frede-Patzig 2001 ma non in Wedin 2000.
[25] Morrison 1985a. Con ogni plausibilità si può ritenere che il lessico della separazione non sia stato tecnicizzato in maniera univoca in ambito accademico. L’avverbio chorismos compare nel Parmenide e nel Sofista ma non in relazione agli assunti coinvolti nell’ipotesi eidetica, e nemmeno il sostantivo choris compare in relazione alle idee – nel Fedone è connesso all’anima (67d4-9) – Cherniss 1946 ha correttamente focalizzato l’attenzione sulla presenza di una terminologia affine. Le evidenze testuali, considerando anche l’occorrenza del verbo nel Fedro (67c6) non depongono a favore dell’interpretazione forte propugnata da Fronterotta 2001, che connette il problema della separazione ontologica agli assunti di non-identità che, nel quadro della dottrina platonica, non va confusa con la nozione di trascendenza. Il punto è particolarmente controverso e meriterebbe un’attenzione più approfondita che esulerebbe dagli scopi di questo lavoro. Rinvio all’ormai classico lavoro di Fine 1984 per un inquadramento del problema in relazione alle critiche mosse da Aristotele alle Idee platoniche.
[26] Le relazioni enunciate possono essere spiegate come segue: (i) con separatezza topologica si indica la presenza di A e B in due luoghi non coincidenti; (ii) con separatezza definitoria l’indipendenza della definizione di A da quella di B o, detto altrimenti, nella definizione di un termine non rientra in alcun modo la definizione dell’altro; (iii) con separatezza ontologica si denota quella relazione secondo cui A può esistere indipendentemente da B; (iv) infine, con separatezza numerica si vuole mostrare che A è numericamente distinto da B. Va rilevato che la (ii) e la (iv) sono propriamente aristoteliche, mentre la (i) e la (iii) sono presenti, secondo la lettura di Aristotele, anche in Platone ma è con la (iii) che si garantirebbe la non-immanenza delle forme: cfr. Fine 1984.
[27] Come ha messo in evidenza Judson 2000 il passo è parallelo a De anima II.1,412a6-11 (in cui si precisa che la materia non è di per sé un questo) e a Eta 1,1042a26-b8 (riassunto in Eta 2,1043a26-28). In particolare, Eta 1 sottolinea che la materia è sostanza in quanto è ciò che funge da soggiacente nei processi che interessano le sostanze, il venire ad essere ed il perire. Se in questa sede la soggiacenza sembra essere posta come condizione necessaria e sufficiente di sostanzialità, altrove, nella misura in cui intervengono i criteri di determinatezza e separatezza, tale condizione pare perdere forza – come accade in Zeta 3. Judson lascia cadere il punto, non spingendosi oltre nel segnalare analogie e differenze. Un motivo potrebbe essere suggerito dal differente contesto in cui si muove Zeta 3. Qui non è in questione il venire ad essere e mancare della sostanza; è probabile che il criterio della soggiacenza acquisisca pregnanza teoretica se la focalizzazione è ristretta al caso specifico di cui si parla in Eta 1, in cui infatti non vengono richiamati gli altri criteri.
[28] Pure con l’inserzione di qualche modifica, l’esempio è in prevalenza condotto tenendo conto della posizione di Rudder Baker 2000.
[29] Secondo Wiggins solo ai sortali di sostanza sono associati dei criteri di identità tali da non poter dare origine a fenomeni di doppia identificazione: «if f is a substance-concept for a, then coincidence under f is fully determinate enough to exclude this situation: a is traced under f and counts as coinciding under f with b, a, is traced under f and counts as coinciding under f with c, b do not coincide under f with c», (2001 p.72).
[30] Nel senso moderno del termine, in merito alle opere d’arte si registra una forma di iperessenzialismo se ci si propone di indagarne la struttura mereologica. In certa misura su questa linea di pensiero si pone la soluzione di Wiggins 2001 al problema dell’identità degli artefatti artistici: per le opere d’arte, secondo lo studioso, sembrerebbe essere in gioco una teoria scotista dell’individuazione, come se vi fosse una hecceitas insita in ogni opera d’arte responsabile proprio della sua individuazione. Non va comunque sottovalutato il peso dell’intenzionalità dell’autore delle opere e, dunque, il carattere intenzionale incorporato nelle opere stesse, per quanto questo aspetto sia per Wiggins del tutto subordinato al primo.
[31] Assumo (dato che per ragioni di spazio non posso qui dimostrarlo) che i concetti che nella filosofia analitica contemporanea vengono annoverati nella meta-ontologia e classificati come topologici e mereotopologici (quali confine, limite, ‘x è connesso a y’, cfr., A. Varzi, Ontologia, Laterza, Roma-Bari, 2005) in Aristotele possano essere fatti oggetto di analisi mediante la coppia tutto-parti.