di Augusto Di Benedetto >> Definire la Confessio…
Etica e fisiologia in Aristotele. L’incidenza della malattia, della morte, della bile nera e del clima nella riflessione morale
di Marcello Zanatta >
1.1 È noto che per Aristotele l’etica fa parte delle scienze pratiche [1], e la prassi riguarda unicamente l’uomo [2]. Il modo di comportarsi degli altri animali – «altri», giacché anche l’uomo è uno zòon -, quella materia, cioè, che in una classificazione moderna delle scienze rientra nell’etologia, per lo Stagirita è oggetto di studi zoologici quali il De motu animalium, il De generazione animalium, il De incessu animalium, non dell’etica. La zoologia, infatti, come parte della biologia, ricade per lo Stagirita nell’ambito complessivo della fisica, la quale rientra tra le scienze teoretiche, strutturalmente distinte da quelle pratiche[3]. In particolare, le «abitudini» degli altri animali non danno luogo a un carattere (ethos), nel quale si consolidano invece le abitudini contratte dall’uomo e da questi soltanto, e lo studio del carattere è parte integrante dell’etica. Tanto che materia propria di questa scienza pratica sono le virtù etiche o del carattere.
Ora, se ogni vivente (zòon) è composto di anima e corpo, e tale è la sua costituzione ontologica, questa costituzione vige a maggior ragione per quel vivente che è l’uomo, nel quale l’anima – che per sua natura è «forma di un corpo naturale che ha vita in potenza» (DA, II, 1, 412 a 21) ed «entelechia prima di esso» (Ivi, 27-28) – con la presenza della parte intellettiva raggiunge un livello di massima complessità e perfezione. Ma se il corpo è parte essenziale dell’essere vivente e a fortiori dell’uomo, e l’etica è disciplina che riguarda l’uomo e lui soltanto, non può non esserci un rapporto tra questa e il corpo. E non soltanto per quell’aspetto del tutto generico e minimale, ancora estrinseco alla materia propriamente assunta, per il quale l’etica, studiando il modo virtuoso e vizioso di comportarsi dell’uomo nella sua prassi, studia per ciò stesso il modo in cui egli nei suoi comportamenti dispone il suo corpo. È senza dubbio questo un livello di riflessione pertinente, ma – come si diceva – generico, minimale ed estrinseco alla specificità della materia etica perché non ne coinvolge ancora l’intrinseca struttura epistemica e, per così dire, non si intrama ancora con essa. La riflessione sul rapporto dell’etica col corpo raggiunge invece questo livello quando la domanda verte determinatamente sulla parte che il corpo ha nella fondazione dell’etica, ossia, specificandosi l’etica propriamente intesa – come abbiamo richiamato – nello studio delle virtù, su come lo studio del corpo, delle sue finzioni e delle prerogative delle sue parti interviene strutturalmente nello studio delle virtù stesse. Ovvero, quando la ricerca si volge a indagare in che termini le virtù etiche, ossia gli stati di eccellenza del carattere, regolano il funzionamento del corpo, delle sue parti e delle sue funzioni e, per converso, come le conoscenze sul corpo, sulle sue parti e sulle sue finzioni intervengono strutturalmente nella costituzione delle virtù etiche.
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[1] Sulla classificazione aristotelica delle scienze si veda, in particolare, Metaph., VI, 1.
[2] Ciò è paradigmaticamente attestato dal fatto che nel presentare la felicità, ossia il bene supremo, Aristotele insiste sul suo essere il bene supremo «dell’uomo», giacché forse anche altri esseri, come per esempio gli dèi, possono essere felici, ma non è questa la felicità di cui l’etica va alla ricerca. Interessante poi, per il tema oggetto del presente saggio, che gli animali non possono partecipare della felicità. Così in proposito scrive lo Stagirita: la felicità «è il più grande e l’eccellente dei beni umani. Diciamo «umano» perché forse vi può essere una felicità anche di qualche altro fra gli enti che è migliore <dell’uomo>, per esempio di Dio. Nessuno, infatti, degli altri viventi, quanti, per ciò che attiene alla natura, sono inferiori agli uomini, partecipa di questa designazione: ché, non è felice un cavallo, né un uccello, né un pesce, né alcun altro fra gli enti che, conformemente alla denominazione, non partecipa nella natura di qualcosa di divino, ma quelli che, secondo qualche altra partecipazione dei beni, vivono, uno di loro meglio, un altro peggio» (EE., I, 7, 1217 a 21 ss.).