Perazzoli È un fatto che bisogna fare i conti con…
GUIDO SEDDONE, Epidemia da Covid-19: prospettive ecologiche e politiche a confronto
La recente diffusione del Virus Corona (Covid-19) ha sconvolto e prevedibilmente continuerà a mutare la società umana, cambiandone prevedibilmente la storia ed il senso della sua civilizzazione. Non v’è dubbio che questo evento, oltre agli aspetti prettamente biologici e molecolari, avrà un profondo impatto sulla nostra specie che è una forma di vita naturale che si organizza nei termini di cultura, identità, storia e civiltà. Al pari delle guerre mondiali e dello sviluppo tecnologico, la diffusione epidemiologica di questo tipo di virus pone delle serie domande di natura filosofica e politica attorno alla definizione del ruolo della nostra specie all’interno di questo pianeta.
Per prima cosa vorrei iniziare a definire l’oggetto del problema. Un virus è un filamento di RNA (raramente di DNA) che, trasportato da un virione (quella specie di mina della seconda guerra mondiale), infetta una cellula con un DNA compatibile allo scopo di poter fare ciò che non sa proprio fare da solo, sintetizzare proteine. Esso è quindi un organismo o sistema parassitario, ma non un organismo vivente perché, a differenza dei batteri non ha una cellula (che sa sintetizzare le proteine, per essere semplici). Molti si chiederanno a questo punto, da dove proviene questo filamento di RNA, com’è che in un preciso momento temporale fa la sua comparsa? Altra domanda che forse non tutti si fanno, come mai il Covid-19 ce l’ha proprio con noi esseri umani? La risposta alla seconda domanda è che un virus può diffondersi attaccando cellule con DNA compatibile per cui esso diventa una questione di specie, in quanto noi uomini, come membri della medesima specie, siamo individui portatori di DNA compatibili per il Covid-19. Quindi, se diventa una questione di specie ne determina lo sviluppo biologico e ne può determinare persino l’estinzione. Tuttavia, essendo la specie umana una forma di vita razionale e autocosciente, ne va da sé che il problema Virus diventa un problema politico di gestione dell’epidemia (prova ne sia che la politica mondiale da un mese non parla d’altro), e un problema filosofico relativo al ruolo della nostra specie nell’ambiente da cui questo virus proviene. Infatti, essere razionali e autocoscienti implica sapersi relazionare con l’oggetto in maniera spontanea e costruttiva elaborando forme di vita pratica che assorbono l’oggetto integrandolo nel contesto delle nostre azioni e organizzazione sociale. In altre parole, come sanno bene gli epidemiologi i virus possono infettare qualsiasi forma di vita (in genere le più prolifiche come suini e roditori sono le più colpite, ma tutte sono esposte), ma la vera differenza con le altre specie sta nel fatto che l’uomo rielabora le proprie attività e la propria identità pratica in funzione di questo nuovo pericolo e non sviluppa solo forme di difesa immunitarie. Tra queste attività rientra ovviamente la ricerca scientifica, ma non solo.
Insomma, una epidemia cambia la nostra civiltà, almeno per un certo periodo di tempo. Inoltre la filosofia ha anche il dovere di interrogarsi sulla natura delle misure politiche intraprese per contenere l’epidemia perché esse possono avere un impatto sulle nostre istituzioni, cultura, pensiero e prassi produttive. A questo punto è necessaria una digressione, i virus e relative epidemie non sono tutti uguali e, quindi, impattano diversamente la nostra civiltà. Ebola è un virus molto letale, ma a dispetto di quello che uno potrebbe pensare, il successo evolutivo di un virus non è dato dalla sua letalità ma dalla sua capacità di diffondersi ed abitare una specie, ossia dalla sua capacità di contagiare. Infatti, sebbene il virus non sia una specie vivente, noi possiamo usare i medesimi principi evolutivi della teoria delle specie di Darwin, per spiegarne la sua storia biologica e il suo successo. Tale successo è determinato dalla sua capacità di possedere una specie vivente come habitat. Come direbbe D. Quammen nel suo illuminante libro Spillover, il virus è come un predatore e noi siamo le sue prede.
Ora, virus molto letali come Ebola trovano facilmente un ospite terminale che una volta morto non può più infettare, per cui le epidemie di Ebola finora sono rimaste sempre molto circoscritte alle giungle africane (anche se gli epidemiologi avvertono che Ebola potrebbe diventare un serio pericolo per via della sempre più ampia mobilità internazionale degli africani). Virus come il Covid-19, invece, non sono molto letali e hanno quindi molte chances di avere ospiti amplificatori, ossia portatori, a volte anche asintomatici, che portano il virus in giro per il mondo con le proprie gambe.
Adesso veniamo alla prima domanda, da dove proviene il Covid-19 che ha fatto la sua comparsa solo qualche mese fa, sconvolgendo la nostra fiera civiltà millenaria che abita ogni angolo di questo variegato pianeta. Il Covid-19 è l’esito di un salto di specie, spillover in inglese, ossia è passato da un ospite serbatoio (probabilmente un pipistrello) all’uomo attraverso un ospite amplificatore (si crede un pangolino). Scena del delitto: probabilmente un mercato umido della Cina meridionale, dove animali selvatici di tutte le specie vengono accatastati vivi in gabbie prima di essere macellati ed eventualmente cucinati davanti al loro acquirente, che ovviamente ha avuto il “privilegio” di poterli scegliere da vivi e assistere alla loro macellazione. Quello che avviene nei mercati umidi cinesi è inquietante non solo dal punto di visto di etica e rispetto della altre forme di vita animale, lo è anche dal punto di vista igienico. Animali di ogni specie soggetti a profondo stress (da cui possono sviluppare infezioni e malattie) condividono le deiezioni coi loro sfortunati vicini, creando una pericolosa interconnessione con il loro consumatore, l’uomo. Tutto ciò favorisce il salto di specie del virus che magari fino ad allora aveva convissuto nel suo ospite serbatoio senza provocare un granché di danni. L’epidemia di SARS del 2003 era dovuta ad un altro Coronavirus che aveva fatto il salto di specie in un altro mercato umido della Cina meridionale. Il paese del dragone, dopo aver promesso di chiudere questi mercati umidi, ha ripreso a tollerarli e nel giro di pochi mesi, i famigerati wet markets erano di nuovo a pieno regime. Non è forse il momento di riflettere sulle responsabilità della Cina, dall’arresto del medico che per primo aveva avvertito del pericolo epidemiologico, al fatto che per settimane forse mesi abbia nascosto al mondo la diffusione di questo patogeno nell’Hubei contravvenendo agli impegni giuridici nei confronti dell’OMS che ogni nazione ha. Di certo, gli entusiasti e non della Cina dovrebbero tenere a mente che il leitmotiv delle politiche ambientali e commerciali cinesi non è certo rispettoso.
Quindi il nostro Covid-19 si è velocemente adattato alla nostra specie, l’ha scelta come habitat o preda ed è, ahimè, molto contagioso. La nostra specie è sotto attacco, ed è praticamente minacciata di estinzione perché se il virus dovesse mutare ed evolversi in ceppi più aggressivi, in presenza di particolari condizioni sociali, potrebbe mietere veramente tante vite e ridurre la nostra specie quanto meno in ginocchio. Incapaci di fornire terapie efficaci, di produrre beni materiali, servizi ed energia, potremmo ritrovarci all’età della pietra peggio di una guerra mondiale. Per fortuna la nostra specie non fa affidamento solo a strategie biologiche, ma anche a strategie razionali. Sappiamo che gli scienziati sono al lavoro per sviluppare vaccini e terapie e che i medici si prodigano sino allo stremo per salvare più vite umane, a loro va il nostro augurio di buon lavoro. Tuttavia ci sono anche questioni filosofiche da affrontare, in primis attorno a quella pressione antropica che favorisce lo spillover, il salto di specie. Distruggere ampi tratti di foresta amazzonica e la sua biodiversità significa anche risvegliare virus e patogeni assopiti che possono rappresentare il prossimo salto di specie. Inoltre la biodiversità consente un contenimento dei patogeni perché equilibra il rapporto delle specie all’interno di un ambiente naturale evitando che una diventi dominante, affiancando la specie umana e trasmettendole patologie. La peste nera del medioevo veniva trasmessa dai topi che, nelle città cinesi prima ed europee poi, trovarono spazi enormi di proliferazione potendo sfuggire a quei nemici naturali che in ambienti non antropizzati ne avrebbero limitato la crescita demografica. Vivendo a stretto contatto tra loro e a stretto contatto con l’uomo resero possibile la diffusione del bacillo che poté essere sconfitto solo cambiando le condizioni igieniche delle nostre città. Come afferma Quammen (2012, 43-44):
“Le attività umane sono causa della disintegrazione di vari ecosistemi a un tasso che ha le caratteristiche di un cataclisma… In questi ecosistemi vivono milioni di specie, in gran parte sconosciute alla scienza moderna [e] … tra queste milioni di specie ci sono virus, batteri, funghi, protesti e altri organismi, molti dei quali parassiti… Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie. Un parassita disturbato nella sua vita quotidiana e sfrattato dal suo ospite abituale ha due possibilità: trovare una nuova casa, un nuovo tipo di casa, o estinguersi. Dunque non ce l’hanno con noi, siamo noi ad essere diventati molesti, visibili e assai abbondanti.” [corsivo mio]
La pressione antropica è quindi molto pericolosa perché mutando gli ecosistemi favorisce lo sviluppo di patogeni che spesso non sono altro che mutazioni di un patogeno che l’ecosistema già teneva sotto controllo attraverso la biodiversità. Quando parliamo di virus, quindi, c’è un vasto problema relativo alla loro origine e al modo in cui passano alla specie umana a causa della pressione antropica, ossia del modo in cui sfruttiamo il nostro pianeta. Molti sarebbero tentati di considerare le epidemie un semplice fatto naturale che qualche volta capita ai suini, qualche volta ai fenicotteri, qualche volta agli uomini, ma così facendo non tengono conto che la peculiarità delle epidemie umane consiste nel fatto che esse sono l’esito del nostro distruggere la biodiversità. E’ forse per questo che sono particolarmente pericolose, perché noi non ci sappiamo giovare della biodiversità come invece suini, fenicotteri, roditori e altri sanno fare. Quindi ci dovremmo chiedere cosa non funziona nel nostro relazionarci con gli ecosistemi e con le altre specie viventi che ci rende da un lato così dominanti, da un altro così vulnerabili.
Io credo che la risposta più appropriata sia che la specie umana tra le altre patologie del pensiero da cui è colpita, è anche affetta da specismo, ossia dalla convinzione di essere una specie eletta che ha il primato sulle altre e che gode del diritto naturale di un potenzialmente illimitato sfruttamento del suolo e delle altre forme di vita del pianeta. Non c’è dubbio invece che sarebbe un buon consiglio quello di tenere “d’occhio gli animali selvatici, perché mentre li stiamo assediando, accerchiando, sterminando e macellando, ci passano le loro malattie” (Quammen 2012, 48). Il sintomo principale che lo specismo come malattia cognitiva produce è quello di ignorare che le forme di vita sono tra loro biologicamente interconnesse per il semplice fatto che siamo parenti stretti. E di qui un altro preoccupante sintomo di questa patologia del pensiero, quello di credere che gli altri animali non siano nostri simili, quando invece lo sono veramente, altrimenti, tra le altre cose, non ci trasmetterebbero i loro patogeni. Lo specismo è inoltre ciò che ci potrebbe, alla fine di questa emergenza, portare a credere che in fondo il Covid-19 sia stata una catastrofe, facendoci dimenticare che ci sono comportamenti ben precisi dai quali nuovi virus potrebbero fare la loro comparsa. La nostra specie, la nostra forma di vita ha il dovere di rivedere il proprio approccio nei confronti della natura e delle altre specie viventi in primis allo scopo di preservare se stessa. L’unicità della nostra specie è stata spesso evidenziata dai filosofi, ma molti si sono limitati a collegarla alla facoltà razionale o linguistica arrivando di fatto ad enfatizzarne il primato e a fornire una base scientifica alla specismo. Ciò non toglie che già Aristotele sottolineasse nel De Anima come la vita in tutte le sue forme persino vegetali sia un fatto cognitivo perché legato all’elemento teleologico della forma, sebbene non nella forma del pensiero. In altre parole, la vita è anima, sinolo, ossia unione di materia e forma, la cui causa e principio vivente sono la sua forma stessa. Kant ha ripreso nella Critica della facoltà di giudizio l’idea teleologica che la vita sia causa sui, ossia prodotto di una una causa finale interna, e Hegel nella Scienza della Logica esplicitamente afferma che la categoria di vita sia pensiero o Idea non autocosciente. Eppure di tutte queste approfondite indagini e analisi filosofiche nei più è rimasta l’idea che la specie umana sia quella razionale, dotata di linguaggio, simile a Dio, etc. Il perché sia avvenuto richiederebbe una terapia del linguaggio di quelle auspicate da Wittgenstein, una profonda ricerca della ricezione di questi pensatori da parte della politica, della religione e della società. Di certo abbiamo una specie, quella umana, che come dice Philippa R. Foot nel suo bellissimo Natural Goodness differentemente da tutte le altre è in grado di stabilire esplicitamente ciò che è bene per se stessa, senza però essere ancora in grado di affermare con vigore che anche la tutela degli ecosistemi e dell’ambiente è parte di questo bene. Nelle nostre prassi l’individualismo metodologico dell’homo oeconomicus ci ha portato a considerare come bene lo sfruttamento del pianeta e delle altre forme di vita sino allo loro distruzione, e a distogliere gli occhi dal male che stiamo arrecando direttamente alla nostra stessa specie. Questo homo oeconomicus è ovviamente un sostenitore del primato della nostra specie per via della sua razionalità, ma non comprende che questa specie è fondamentalmente interconnessa negli ecosistemi che lei stessa distrugge. Ripristinare un rapporto rispettoso nei confronti dell’ambiente appare oggi molto difficile perché si dovrebbero alterare certe dinamiche di sfruttamento del pianeta su cui il nostro attuale benessere poggia. Peccato che l’uomo abbia finora migliorato le condizioni di vita della propria specie drammaticamente peggiorando la qualità della vita delle altre e, così facendo, creando un fenomeno ritorsivo. Questo fenomeno è molteplice, possono essere le ondate di calore, le inondazioni, i fenomeni climatici estremi, l’innalzamento degli oceani, l’avvelenamento dell’aria e delle falde acquifere, le culture e allevamenti intensivi e, attuale più che mai, le zoonosi ossia il salto di specie dei patogeni. Avendo dimenticato che nella parola ecologia c’è il lemma del greco antico oikos (casa), ci siamo anche dimenticati che distruggere l’ambiente con le specie animali e vegetali che ci vivono equivale a distruggere la nostra casa. A livello filosofico sarebbe urgente rivedere quella auto-descrizione della nostra forma di vita di cui parla Foot e capire che tra i suoi beni e fini c’è anche la difesa dell’ambiente e delle altre forme di vita. Di fronte dello sviluppo tecnologico e demografico a cui siamo giunti e che si trova ancora davanti a noi, il principio pratico e morale per cui è bene per la nostra specie tutelare e difendere la natura sta ormai diventando un imperativo.
Torniamo al nostro Covid-19. Come dicevamo, probabilmente a novembre 2019, è avvenuto uno spillover che ha permesso a questo microscopico filamento di RNA di adattarsi al nostro DNA, infettarci e diffondersi liberamente. Questo fenomeno non è frutto del caso e non è neanche una punizione divina, ma il risultato del fatto che se noi distruggiamo l’habitat di un virus (ossia la specie del suo ospite serbatoio) questo dovrà trovarsene un altro. Quale migliore habitat se non la specie umana che prolifera nell’intero pianeta, i cui individui hanno la possibilità in poche ore di raggiungere l’alto capo del globo e che sono gli essere viventi che lo “dominano”? Del resto l’epidemiologia ha ampiamente dimostrato che i principali serbatoi dei virus sono i pipistrelli (rabbia, HIV, Ebola, Corona, etc.), ed in effetti non siamo così diversi dai chirotteri: viviamo in aree densamente popolate, creiamo enormi comunità, ci spostiamo molto e siamo molto invadenti. L’unica differenza è che i pipistrelli pare abbiano uno straordinario sistema immunitario che li porta rapidamente all’immunità di gregge senza rilevanti effetti sulla loro demografia (Calisher 2006), noi invece, creature arrivate su questo pianeta molto dopo, non abbiamo la stessa intelligenza biologica. In altre parole non sono i virus a cercare noi, siamo piuttosto noi a distruggere il loro habitat e a costringerli a mutare e a trasferirsi. Se la migrazione degli orsi polari è tristemente fallimentare perché il loro destino è segnato non essendoci un habitat simile a quello del polo a disposizione, questo non vale per i virus che devono semplicemente invadere un’altra specie qualora la propria sia sotto pressione. Certo i virus spesso co-esistono con la specie ospite, ma dopo che questa ha dovuto attraversare un lungo periodo di adattamento e evoluzione del proprio sistema immunitario, il che ha dei costi come stiamo drammaticamente osservando. E’ necessario quindi rivedere criticamente il nostro ruolo in questo pianeta e la connessa nozione culturale di specismo, auspicando una riconciliazione con la vita animale. Del resto la scienza veterinaria ha sempre affermato il principio per cui la salute degli altri animali si riflette sulla nostra salute umana, forse non ci sarebbe stato bisogno di scomodare la filosofia. Quindi la civiltà umana dovrebbe ridescrivere il proprio orizzonte storico e storiografico e comprendere che la difesa del pianeta e delle altre specie viventi è ormai un’istituzione con il compito di tutelare il benessere e la felicità umane. Credo che lo specismo sia una di quelle patologie sociali di cui parla Axel Honneth (2015), da cui l’esercizio filosofico e socio-filosofico ci può preservare attraverso una revisione di concetti cristallizzati come quello di insensibilità verso la biodiversità.
A questo punto vorrei giungere alla seconda parte di questo contributo, quello sugli aspetti politici istituzionali legati a questo nuovo orizzonte storico. Partirei dalla considerazione che questo virus proviene dalla Cina, il paese ad oggi con l’economia e la cultura politica più aggressive verso l’ambiente. Ho già citato gli aspetti etici legati ai mercati umidi e alle macellazioni sadiche nei confronti degli animali. Vorrei aggiungere che qua si rivela un’insensibilità culturale nei confronti della vita animale molto arretrata e diffusa nella società cinesi, che non fa pensare a niente di buono. Ma ciò che più colpisce della Cina è la sua risposta al problema creato attraverso il mero contenimento sociale e di sorveglianza di massa. Preoccupa che queste misure politiche di sorveglianza possano venire orgogliosamente adottate da altre nazioni, tra cui l’Italia, entusiaste dei risultati in Cina. Purtroppo si rischia di dimenticare che la soluzione del problema non può venire da dove esso è stato originato. In altre parole, le tecniche militari di sorveglianza della società, possono forse contenere il contagio, ma di certo non risolvono le contraddizioni da cui esso si è generato. La Cina sta diventando una nazione dominante nel mondo attraverso il suo PIL, ma non dimentichiamoci che si è dotata di soluzioni istituzionali molto sbrigative ed autoritarie nei vari aspetti della società. Così come non ha fatto tesoro dell’esperienza della SARS del 2003 (generata, lo ricordo, sempre in un mercato umido della Cina meridionale) dimostrando una superficialità egregia, altrettanto sbrigativamente ha incarcerato milioni di persone per bloccare l’attuale contagio. Il problema di un paese come l’Italia è che si possano adottare i medesimi strumenti di sorveglianza e reclusione di massa, per poi, finita l’emergenza, non ricordasi più di com’era la nostra vita prima. In altre parole, il rischio è che questa crisi porti ad una sinizzazione della nostra cultura istituzionale e politica, dimenticando l’esperienza repubblicana del dopo guerra e, ancor di più, la più ampia esperienza europea della modernità e del rinascimento. Sarò molto schietto su questo punto, il pericolo è che dopo il Coronavirus dalla Cina arrivi una colonizzazione culturale della nostra tradizione democratica e liberale e con esso un totale sconvolgimento degli equilibri geopolitici mondiali. Con questa sorta di egemonia, si arriverebbe a dimenticare che l’epidemia è partita dalla Cina a causa di una cultura istituzionale finora indifferente sia alle questioni ambientali che alle libertà e diritti della persona. Il pensiero critico ha il dovere di avvertire le istituzioni di questo pericolo, adoperarsi per una lucida riscrittura ed interpretazione della realtà sociale e cercare di indicare una via. Io credo che la strada dell’occidente finora intrapresa sia quella corretta, quella cioè di collegare i diritti civili con le politiche ambientali perché i diritti civili sono anche quelli delle future generazioni. Questo indirizzo è quello corretto ed è basato sulla nostra tradizione liberale, democratica, moderna e laica, ed andrebbe mantenuto anche durante e dopo questa crisi. Mantenere un atteggiamento critico seppur costruttivo verso la Cina è altrettanto auspicabile, evitando le facili equazioni PIL = progresso, sorveglianza di massa = efficienza. C’è da attendersi che le nostre istituzioni acquisiscano una piena consapevolezza del grande peso economico e demografico della Cina, ma anche delle gravi conseguenze connesse a quando un peso massimo di questa portata assume un indirizzo politico ed economico errato. Si può osservare a questo punto che buona parte del territorio cinese ricade in quella fascia climatica subtropicale in cui l’emergere dei patogeni è da sempre statisticamente più elevato e che buona parte della popolazione in queste aree viva in condizioni di povertà e parziale sottosviluppo. Sebbene ciò sia vero, questo non esime uno stato dall’adottare le opportune politiche legislative volte ad arginare tale pericolo, invece queste aspettative vengono puntualmente disattese come disattese sono anche le adeguate politiche energetiche volte a contrastare l’aumento delle emissioni. Di fronte ad un PIL così in crescita, la Cina piuttosto che insistere sul binomio erosione dei diritti umani ed aumento delle emissioni, avrebbe già da tempo dovuto destinare parte di questo PIL alle adeguate politiche ambientali e di miglioramento delle condizioni di vita dei suoi cittadini piuttosto che continuare a privilegiare l’etnia Han dominante. Non credo che sul piano internazionale certe politiche possano essere ulteriormente tollerate.
Concludo dicendo che la sfida che abbiamo davanti come umanità è soprattutto politica a questo punto. I biologici ed immunologi hanno di certo un gran da fare, ma ciò che più preoccupa sono le conseguenze politiche e sociali che un terremoto del genere può creare nel pianeta. Rivedere e potenziare le politiche ambientali, conservare il nostro diritto repubblicano, preservare le democrazie occidentali per sottrarci al pericolo connesso all’insensibilità verso la vita e l’ambiente rappresentano una sfida in cui le aspettative ecologiche e le libertà della persona sempre più mostrano di avere un destino comune.
Bibliografia:
Aristotele (2001), L’anima. Milano: Bompiani.
Calisher Charles H., James E. Childs, Hume E. Field, Kathryn V. Holmes, Tony Schountz, Bats Important Reservoirs Hosts of Emerging Viruses, “Clinical Microbiological Reviews”, XIX, 3, 2006.
Foot, P.R. (2001), Natural Goodness. Oxford: Clarendon Press [tr. it. La natura del bene. Bologna: il Mulino 2007].
Hegel, G. W. F. (1994), Scienza della logica. Bari: Laterza.
Honneth, A. (2015), Il Diritto della libertà. Lineamenti per una eticità democratica. Torino: Codice editore.
Kant, I. (2011), Critica della facoltà di giudizio. Torino: Einaudi.
Quammen, D. (2012), Spillover. Milano: Adelphi.