Kant e il bunga bunga, Ferrara ha preso lucciole per lanterne

di Giovanni Perazzoli


Non è per fare il pedante. Ma il “dibattito” in Italia è in grado di prendere, a volte, delle svolte davvero sorprendenti.
Giuliano Ferrara ha eletto Immanuel Kant a padre nobile della sua adunata di smutandati: secondo lui l’inflessibile filosofo prussiano sarebbe addirittura da considerare come un paladino delle debolezze umane e un castigatore degli stati della virtù.

Il fatto che Kant fosse un prussiano avrebbe dovuto mettere l’impulsivo Ferrara sul chi va là. Un post-moderno brasiliano si sarebbe anche capito, ma non uno nato a Königsberg, da una madre seguace del pietismo. Ma niente. Dall’opera di Kant, Ferrara prende la frase in cui il filosofo paragona l’umanità a un legno storto e la sventola al Tg1 (e, pare, in svariate altre sedi) a testimoniare che lui solo, l’Elefantino, ha capito il filosofo tedesco e non Umberto Eco e gli altri “professori”.

Dunque, Kant eletto a punto di riferimento per l’idea del diritto in Italia? Se si sapesse di che cosa si parla (una volta tanto), dubito che una tale proposta potrebbe essere declinata nel ferrarese ufficiale. Perché se c’è stato, in tutta la storia della filosofia, un filosofo a cui potrebbe adattarsi, con qualche ragionevolezza, il predicato di “giustizialista”, questo è senz’altro Immanuel Kant.

Parlando di Dei delitti e delle pene, Kant ne apostrofava l’autore, quasi con disgusto, come il “molle Beccaria” e arrivava a scrivere che, se c’è un terremoto e la città deve essere evacuata, il boia prima deve eseguire la sentenza di morte che resta in sospeso e solo poi può mettersi in salvo. Per Kant la pena (anche la pena di morte) deve essere inflitta per punire il colpevole, il soggetto morale macchiato dalla colpa, e non si definisce per il valore di deterrenza, non ha un’utilità sociale: la pena non è un mezzo (che significherebbe ridurre l’uomo stesso che la subisce a mezzo), ma un fine essa stessa. La pena viene dedotta da Kant dalla giustizia, senza alcun riguardo all’utilità sociale del punire: l’uomo deve essere punito semplicemente perché ha sbagliato. La punizione è il riconoscimento e la celebrazione della libertà del soggetto morale. Così Ricoeur commenta che “con Kant lo scandalo della pena coincide con la sua inumanità”.

Di quale Kant parla Giuliano Ferrara? L’antigiustizialista è andato a prendere come suo padre spirituale il filosofo più “giustizialista” che mai ci sia stato.
Ovviamente, anche come padre della “morale” degli smutandati Kant sembra davvero fuori luogo. Pare infatti che sia stato l’autore che più di ogni altro ha pensato la morale come limitazione dell’inclinazione sensibile. Altre voci ne fanno l’autore di principî morali di valore categorico: Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga universale. Agisci in modo da trattare l'uomo così in te come negli altri sempre come fine, mai solo come mezzo.

C’è da scommettere che Giuliano Ferrara abbia preso di peso la citazione del “legno storto” da Isaiah Berlin, che è l’autore che in Italia leggono tutti gli ex-comunisti che fanno i liberali “a orecchio” (l’altro autore prediletto da costoro è Karl Popper, ma solo quello de La società aperta e i suoi nemici, ché già quello che scrive della Cattiva maestra televisione non li convince, per non parlare poi del filosofo della scienza, che semplicemente possono trascurare, soprattutto perché altrimenti non sarebbero più devoti).

Ma allora andiamo a vedere il testo in cui compare il riferimento al “legno storto”. Il testo si intitola Idea per una storia universale in un intento cosmopolitico, ed è del 1784. Che Ferrara l’abbia preso per contestare l’idea di uno “stato della virtù” è tanto più singolare in quanto questo testo è forse uno dei più rappresentativi proprio del contrario: Kant dice, nella tesi quinta, che il problema è quello “di pervenire ad attuare una società civile che faccia valere universalmente il diritto”.

Allora. L’uomo, scrive Kant, “abusa della sua libertà in rapporto ai suoi simili e se in pari tempo, come essere razionale, vuole una legge che ponga limiti alla libertà di tutti, il suo egoistico istinto animale lo induce, quando può, ad eccettuarne sé stesso (…)”. Viene da pensare a qualcuno, no? Anche questo qualcuno vorrebbe effettivamente eccettuare se stesso dalla legge. Ma Giuliano Ferrara non nota la faziosità di Kant.

E come prosegue Kant? Prosegue, dicendo che gli uomini, proprio perché tendono a farsi gli affari propri, hanno bisogno di un comando che li obblighi ad obbedire a una volontà universale. Ma c’è un problema. Siccome questo comando non è a sua volta proveniente, da “nessun altro luogo che dalla specie umana”, e dunque da un uomo al comando che è “a sua volta un essere animale che ha bisogno di un padrone”, ne viene che gli uomini da soli non si regolano, e occorrono le leggi.

L’organo politico al comando, formato da una o da più persone, infatti, “abuserà sempre della sua libertà, se non avrà sopra di sé chi eserciti su di essa il potere secondo le leggi”. La legge dovrebbe essere perciò superiore al capo supremo, altrimenti questi farà i suoi interessi.
Il contesto mostra evidentemente il problema di un abuso. Di un abuso di potere, che le leggi cercano di mettere sotto controllo. Purtroppo, però, neanche le leggi bastano a limitare l’egoismo. Ed è qui che compare la citazione del legno storto. Proprio perché il capo supremo cerca di farsi gli affari suoi (ovvero, perché lui, come tutti gli uomini, è un legno storto), allora la legge soffre ed è precaria. Proprio qui nasce il problema “più difficile di tutti e una soluzione perfetta di esso è impossibile: da un legno storto, come è quello di cui l'uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto”.

Al di là di molte complicazioni che può porre questo testo, una cosa è certa: qui si descrive il problema del potere e del suo abuso. Ferrara invece, pare di capire, crede che Kant costruisca il suo pensiero politico in termini morbidi e comprensivi verso l’umanità imperfetta. Ma è evidente il contrario: il riferimento all’umanità come a un legno storto non può che essere costruito a partire dal valore dominante della perfezione. L’imperfetto (il legno storto) è tale rispetto al perfetto (al legno dritto). Del resto, Kant lo dice chiaramente.

L’idea del “legno storto”, come appare nella versione che sembra darne Ferrara, ha più affinità con il modello teologico del “peccato originale” che non con Kant. Ma allora, tanto più, non può essere la premessa di una visione che non sia cupa e pesante della “sensibilità” umana. Celebrare la disinvoltura della vita, del sesso, il sentirsi vivi, sulla base del fatto che l’umanità è sbagliata, incorreggibile e colpevole – e che non lo è per caso, ma perché è incorreggibile e colpevole ontologicamente, storta come un legno per natura – è come voler organizzare la propria vita mondana e galante con Martin Lutero o con Agostino d’Ippona.

Nel momento stesso in cui Giuliano Ferrara si mette a ragionare con le categorie del “peccato” e della “natura storta dell’umanità”, entra in un contesto di concetti piuttosto impegnativo per le conseguenze che produce. Immagino che lo faccia con cognizione di causa.
Ad essere conseguenti, infatti, dal “siamo peccatori”, non segue il “dunque, divertiamoci”. Il “dunque divertiamoci”, caso mai, presuppone il contrario: “ci piace come siamo e non ci poniamo problemi da nevrotici”.
Il punto è che se l’Ateo-devoto dicesse questo gli riuscirebbe difficile prendere per il naso la Chiesa cattolica.

Davvero curiosa, per chiudere, questa lettura, per la quale, da una parte, si scopre, e soprattutto si tiene fermo, il peccato (contro la sinistra della virtù), e, dall’altra, si trasforma, proprio la scoperta del peccato, nell’autoassoluzione (contro la sinistra giustizialista). Tenere fermo il peccato per criticare la virtù è da sbadati, perché “peccato” e “virtù” sono due concetti che appartengono allo stesso orizzonte concettuale e morale. Viceversa, dedurre l’autoassoluzione dalla condizione strutturale del peccato è di nuovo prender lucciole per lanterne, perché proprio il peccato è la premessa della punizione, della sua cupezza e inesorabilità. Inferno e paradiso presuppongono il peccato e le virtù.

Che dire di semplificare questo oscuro quadro metafisico e tornare alla legge positiva?