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Günter Figal, Oggettualità. Esperienza ermeneutica e filosofia

Figal, Günter, Oggettualità. Esperienza ermeneutica e filosofia

a cura di Antonio Cimino, Milano, Bompiani, 2012

REF - Recensione di Sara Fumagalli



Günter Figal con la sua ultima fatica - che appare in traduzione italiana col testo tedesco a fronte, arricchita da un’intervista all’autore - fornisce un compendio del suo percorso teoretico all’interno della filosofia ermeneutica.
In sette capitoli, Figal ripercorre le tappe che portano il lettore alla comprensione di quella compagine vitale in cui si trova da sempre e che include il tutto e la parte, il mondo e l’uomo.
Quel che emerge come punto centrale all’interno dell’esperienza ermeneutica proposta è l’oggettualità, che dà il titolo al volume.

Per iniziare il percorso della comprensione, infatti, c’è bisogno di qualcosa che si opponga alla nostra conoscenza, che la sfidi. Ed è proprio l’oggetto, der Gegenstand, che possiede per sua essenza la proprietà dello stare-contro, dell’opporsi, innescando un’interpretazione da parte dell’uomo che è tutt’altro che semplice e scontata.
Il terreno in cui si gioca la partita dell’oggettualità, e quindi della filosofia per eccellenza, è il mondo.
«Anche se si parla di un “luogo iperuranio”, i viaggi filosofici non conducono al di fuori del mondo, bensì si limitano ad illustrare la distanza fra ciò che è abituale e il mondo esperito filosoficamente. Con lo scaturire della filosofia si fuoriesce dalla quotidianità, ma non dal mondo” (p. 149).
Illustrare la distanza apparirà allora come la vera missione della filosofia. Del resto: «[…] non esiste comprendere senza distanza» (p. 87). Le dichiarazioni di intenti di Figal sono fin da subito chiare: nel tematizzare la distanza, si contrappone al pur ambizioso progetto di possedere il dato della conoscenza. Contro ogni positivismo che voglia cristallizzare il sapere in dogmi, la filosofia ermeneutica deve dischiudere la possibilità del comprendere. La possibilità ogni volta rinnovata e mai uguale a se stessa diventa la vera e propria meta del sapere: «“La” filosofia si può rappresentare sempre e solo per modelli. Non è mai semplicemente presente e nemmeno si disperde in una serie di dati storici. Ognuna delle sue possibilità si riferisce a un’essenza filosofica, che è in sé una possibilità e che per questo si dà sempre e solo in possibilità» (p. 103).
Una volta gettate le fondamenta dell’edificio ermeneutico, Figal illustra il suo metodo, la sua logica interna a partire dall’interpretazione a cui è dedicato il secondo capitolo.
Il procedimento comprensivo inizia da un’interpretazione dell’oggetto che ci si pone contro: un riferimento a qualcosa di altro rispetto a ciò che abbiamo di fronte, il quale di per sé, che sia una cosa o un testo, non possiede intenzioni o scopi di nessun genere e grado. Quando il riferimento trova una conferma delle aspettative all’interno della ragione, si può dire che esso è in atto e quindi si forma una rappresentazione, che altro non è che una presenza mediata dell’oggetto che può così venir appreso da un soggetto.
Si capisce allora perché «“Comprendere” è una parola che indica riuscita; se comprendiamo, qualcosa è riuscito e quindi è giunto a conclusione. Ciò vale anche nel caso in cui facciamo con successo ciò che è stato compreso; allora la riuscita consiste nel fatto che ne siamo appunto capaci, a differenza di prima» (p. 313). Sapere qualcosa allora equivale ad essere capaci di fare qualcosa con quel fenomeno appreso, come quando recitando un testo si può dire che lo mettiamo in atto. Lo facciamo valere nella sua significatività. Così come la comprensione ha origine da qualcosa che sta contro, l’autocomprensione emerge da un’estraneità presso se stessi: «Dobbiamo essere diventati estranei a noi stessi per tentare di comprenderci, cioè di comprendere una fase precedente o un altro aspetto della nostra vita» (p. 317).
Ciò che riesce nel comprendere è quindi il cogliere, ogni volta determinato, la relazione tra possibilità e realtà. L’oggettuale è la possibilità del voler comprendere.
«E’ vero che l’emergere dell’oggettuale è un accadere. Qualcosa si presenta di fronte ed è tutt’a un tratto presente. Tuttavia all’oggettuale appartiene la sua determinatezza; qualcosa si presenta di fronte e rimane. Il suo rimanere è come un attendere; è anche una promessa. Dà ad intendere, attivando in questo modo la possibilità del voler comprendere” (p. 393).
Con la comprensione entra in gioco sempre anche lo spazio ermeneutico, tema che Figal esplora in tutta la sua portata concettuale nel terzo capitolo, dato che comprendere qualcosa significa sempre comprendere anche il modo in cui questo qualcosa si dà.
La relazione tra la rappresentazione di un oggetto e l’oggetto stesso va a formare quella che Figal definisce compagine rappresentativa (p. 411). Il passo in avanti che la fenomenologia apporta alla comprensione del mondo è sicuramente l’aver tematizzato il diverso grado di intensità correlativa tra il soggetto e il reale dal quale deriva la fondamentale differenza tra l’atteggiamento naturale e quello fenomenologico. «Il grado di intensità correlativa peculiare per la fenomenologia è raggiunto nel momento in cui non poniamo più il problema relativo alle manifestazioni, bensì vogliamo chiarire cosa è lo stesso manifestarsi» (p. 435). È importante sottolineare che così come la distanza dischiude il mondo al soggetto, allo stesso modo «ovunque ci sia qualcosa c’è anche apertura» (p. 439). Tale apertura rinvenibile nell’epoché fenomenologica è l’elemento che ha profondamente colto e sviluppato in particolar modo il filosofo ceco Jan Patočka.
A questo punto Figal arriva ad un momento cruciale nella trattazione dell’oggettualità: lo spazio ermeneutico (capitolo terzo).
Essere nello spazio ermeneutico significa stare nella differenza tra i due mondi: quello della vita e quello delle cose. In questa differenza si trova una grande libertà per l’uomo, concetto indicato efficacemente nel titolo del paragrafo 18: deliberazione riflessiva (p. 547).
La libertà attraverso la distanza è in un certo senso l’elemento della differenza che ritorna in veste spaziale. Si pone a distanza, ovvero si contempla qualcosa: «La meta non è un elemento esteriore a cui procuriamo una presenza mediata, bensì una possibilità del proprio particolare agire gettata nella lontananza, all’esterno» (p. 555), scrive Figal.
Differenza, distanza, libertà e contemplazione sono concetti che indicano chiaramente come non vi sia mai un possesso delle cose, ma sempre una nuova e diversa possibilità del comprendere. «L’intervento è possibile solo se esso si accompagna a un lasciar essere. Nel lasciar essere rimaniamo liberi nei confronti delle cose; ad ogni intervento manteniamo anche la distanza, e le cose restano lontane. Ma così anche esse sono libere; restano libere dal tentativo di impadronirsene unicamente nell’ottica dell’intervento» (p. 573).
Nella libertà del mondo come spazio ermeneutico rientra la possibilità dell’anche diversamente, di differenti «[…] modi di accedere ad esso. Diversi modi di accedere significano: il medesimo mondo può essere esperito anche diversamente. Così si presenta nel mondo, come una particolare manifestazione della libertà, la libertà con riguardo al mondo» (p. 629).
Si è visto, all’interno del secondo capitolo, come l’interpretare all’interno della comprensione sia sempre un riferirsi a qualcosa di altro, e nel linguaggio, tema del quinto capitolo, emerge tale carattere di rimando, come esprime l’autore: «Seguire la frase significa quindi: farsi rimandare da essa a qualcosa. Seguendo questo rimando, comprendiamo cosa intende la frase. “Meinen” significa originariamente: indirizzare il proprio sentire verso qualcosa” (p. 671).
Ed è proprio nel linguaggio che emerge in tutta la sua portata la differenza che si è vista essere il carattere saliente del comprendere. A questo riguardo, Figal lascia la parola a Derrida: «Différance è l’“operazione del differenziare e del differire” – il verbo différer significa entrambe le cose – “che insieme fende e ritarda la presenza, sottomettendola in un colpo alla separazione originaria e al ritardo originario”». (p. 785).
Il collante della struttura, che ordina tutti gli elementi della compagine rappresentativa e li inserisce in quella vitale è il tempo: «[…] con l’oggettualità è diventato chiaro che le sensazioni e i vissuti sono connessi fra loro non solo in riferimento al mondo della vita.
Nel tempo c’è il legame con il mondo, nella misura in cui questo è il mondo delle cose. E con il tempo in questo mondo c’è senso» (pp. 1005, 1007).
La fitta trama concettuale finemente elaborata ed esposta in Oggettualità ha un senso se collocata nella compagine vitale dell’uomo: «L’uomo è un essere vivente ermeneutico; l’aspetto peculiare della vita umana risiede nel rappresentare – in ciò e nella relativa capacità: non poter fare a meno del rappresentare e di rappresentazioni» (p. 1023). Se la possibilità di comprensione è iscritta nel Dna dell’uomo, alla luce delle considerazioni sin qui accennate, appare chiaro che è proprio l’elemento della distanza a far emergere la vita del singolo uomo come di tutti gli altri.
La facoltà umana per eccellenza che è preposta a cogliere le differenze dando loro una logica unitaria è la ragione: «Sapere, cogliere significa dunque: percepire differenze, e ciò a sua volta significa: vedere queste nella loro coappartenenza, riconoscendo le cose distinte per come sono. Le cose distinte non sono un mero coacervo di molteplici elementi; sono le cose separate le une dalle altre e in ciò connesse” (p. 1127). La ragione è quindi «la capacità di differenziare gli elementi di un complesso di significati e di tenerli insieme nella loro differenza» (pp. 1129).
Il viaggio nella filosofia come esperienza ermeneutica che ci propone Günter Figal con Oggettualità vede l’uomo immerso nelle cose del mondo, senza alcuna possibilità di un anche diversamente, eppure con il dovere etico di tematizzare, ogni volta e di nuovo, la distanza da esse, pena il non comprendere: «Siamo in mezzo alle cose, ma le vediamo a malapena, dato che abbiamo a che fare “con noi”» (p. 1147). Si deve quindi raccogliere la sfida che gli oggetti ci lanciano per rendersi conto della propria dimensione nel mondo e per ricoprire quel luogo ermeneutico mai sicuro e dato una volta per tutte, ma sempre in bilico, alla ricerca di un punto fermo. Il punto fermo sono unicamente gli oggetti del mondo: «Proprio nel momento in cui gli stessi oggetti rifiutano ogni risposta e tanto più un’ultima risposta, danno una misura, in base a cui l’uomo può rendersi conto della sua esteriorità. Dato che con essi si intensifica l’esteriorità della vita, ci fanno essere aperti nel mondo e ci fanno continuamente scoprire quel senso del contemplare e rappresentare che entra in gioco in ogni vita umana. È un senso che media, al di là di ciò che è solo umano» (p. 1175).
 

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