Le palinodie della bellezza. Una lettura 'platonica' de La morte a Venezia

Le palinodie della bellezza  
Una lettura 'platonica' de La morte a Venezia  

di Valeria Turra   

 

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     La mia lettura di
Der Tod in Venedig nasce da una frequentazione ‘professionale’ con i testi della letteratura greca; frequentazione che mi ha suggerito di tentare non solo di fornire tassonomia alle tracce più visibili degli ipotesti greci utilizzati da Thomas Mann provando nel contempo a rintracciare alcuni riferimenti lasciati impliciti ma soprattutto di studiare il modo in cui gli ipotesti interagiscono con lo svolgersi della trama, nella convinzione che essi giochino un ruolo decisivo nella costruzione dei significati del romanzo. Questo il mio peculiare punto di osservazione; le riflessioni che ne seguono, lontanissime dalla pre-sunzione di sostituirsi alle molte autorevoli letture critiche che da altre considerazioni prendono le mosse, intendono solo provare ad arricchire la conoscenza di un testo che merita sicuramente tutti gli sforzi inter-pretativi compiuti negli anni che ci separano dalla sua pubblicazione (avvenuta, come è noto, pochi mesi dopo la fine della sua composizione, protrattasi dal luglio 1911 al luglio 1912).

Nel tentare una analisi e una interpretazione de La morte a Venezia, le visuali più frequentemente assunte dalla critica sono quelle che riflettono il clima di decadenza che pervade il breve romanzo: una decadenza che investe non solo il protagonista, Gustav von Aschenbach, ma anche l’oggetto della sua passione proibita, il giovanissimo Tadzio, e la città che di questa passione è complice scenario, una Venezia ammorbata da un’epidemia di colera che le autorità cercano di negare e nascondere). In queste pagine vorrei invece mettere a fuoco il rapporto fra Aschenbach e la bellezza. Si tratta di un rapporto continuamente rinnovato dal protagonista in una vita dedicata alla scrittura, ma anche, e forse proprio per questo, non vissuto che tramite il filtro di mediazioni artistiche fino all’incontro con Tadzio, e perciò sostanzialmente irri-solto, destinato a erompere improvviso e rovinoso una volta che tali mediazioni si rivelino incapaci di arginarla, incapaci cioè di renderla inoffensiva e quindi accessibile. Perché, se è lecito estendere a tutta l’arte il limite che, nella parola, Aschenbach al cospetto di Tadzio dolorosamente percepisce, il limite cioè di poter soltanto «celebrare, non riprodurre, la bellezza sensibile»), è in quel limite che dovremo saper cogliere anche la capacità consolatoria e protettiva dell’arte, che non ci lascia soli, fintanto che a essa ci affidiamo, di fronte all’incommensura-bile, al numinoso (che la bellezza rientri in questo orizzonte, non credo sia lecito dubitare) e ai rischi che essi comportano per il troppo precario equilibrio umano, che sembra talvolta trovare il proprio maggior fonda-mento nell’ignoranza di ciò che lo trascende. Ma, diversamente dal let-tore, da colui cioè che può godere senza rischi della bellezza donatagli da un’opera compiuta, e di quest’opera ignora la genesi, l’artista che voglia provare a creare una forma di bellezza dovrà, prima o dopo, non sottrarsi a un rapporto diretto con quella bellezza spontanea ed epifani-ca che è una delle prime fonti dell’ispirazione, e dovrà farlo anche a rischio di frantumare quel proprio equilibrio fragile. Questo mi sembra essere, in grande sintesi, il nucleo generativo delle problematiche che la lettura de La morte a Venezia

Quel che a me preme dimostrare è non solo che la fenomenologia del rapporto fra Aschenbach e la bellezza, che è il tessuto di cui il romanzo si costituisce, insiste sull’interazione fra categorie, culturali e morali, pretta-mente moderne e categorie estetiche antiche, in particolare la concezione platonica della bellezza (e dell’amore); ma che, soprattutto, è questa inte-razione non facile a produrre quella che vorrei evidenziare essere la forma specifica con cui, nel suo ragionare su quel che gli succede, Aschenbach dà voce alla sua idea della bellezza: un’ampia affermazione di principi cui segue però una palinodia, ovvero una ritrattazione, che è soprattutto au-toconfutazione, delle certezze precedentemente acquisite – fino alla finale, ma enigmatica, confutazione della confutazione attuata dall’autore, al momento della morte del suo personaggio.

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