Un Viaggio Nel Welfare Europeo: la cittadinanza, il lavoro (produttivo), il reddito

Un Viaggio Nel Welfare Europeo: la cittadinanza, il lavoro (produttivo), il reddito

Antonio mi racconta la sua sorpresa. Nessuno gli avrebbe creduto in Italia. Il figlio della sua landlady ha lasciato la casa appena compiuti i 18 anni. Si era reso autonomo grazie ai sussidi. Aspettava di decidere della sua vita e intanto alternava qualche lavoretto al sussidio. Finché un giorno non è partito per frequentare un corso universitario nel Nord del paese. Tutt’altra vita quella di Antonio, che fino a 28 anni ha vissuto a casa con la madre. Il suo primo momento di indipendenza lo trova nel Regno Unito. La ribellione di un bamboccione ante litteram.

Anche il Jobcentre è una sorpresa. Non è l’ufficio di collocamento buio, pieno di scartoffie e faldoni impolverati che Antonio aveva visto nel suo paese. Si capisce che il Jobcentre è un punto di riferimento importante nel sistema (e nel tempo lo diventerà sempre di più): almeno all’apparenza sembra proprio che facciano del loro meglio per trovarti un lavoro. Chissà perché in Italia – la Repubblica fondata sul lavoro – nessuno ha mai preso sul serio l’ufficio di collocamento. Chi cerca un lavoro in Italia non sa da che parte cominciare, ma l’ultima cosa a cui pensa è di entrare in un ufficio di collocamento. Quando si cerca un lavoro la prima cosa a cui si pensa, invece, è a qualcuno che possa cooptarti o raccomandarti. Per il «cane sciolto» è dura. Eurostat ci informa che solo il 3% delle persone che cercano un lavoro lo trovano attraverso un centro per l’impiego.

Arriva l’inverno e Antonio decide di restare in Gran Bretagna.

Non se lo nasconde. Ventotto anni sembrano (ma non lo sono affatto) già troppi per imparare una nuova lingua e iniziare una nuova vita. Tutto è in salita, potrebbe commettere l’errore di considerarsi un fallito. Le famiglie benestanti italiane mandano i figli nei mesi estivi a Cambridge o a Oxford a seguire i corsi d’inglese, ovviamente costosissimi. Non è il caso di Antonio. Al quale non sfugge che sta seguendo un corso di quelli a cui accedono in Italia solo i privilegiati, ma da disoccupato, e per di più straniero.

Lo lascio seduto davanti a una grammatica aperta: l’ausiliare, i pronomi, le frasi idiomatiche. Passano quindici anni. Intorno a me, in Italia, vedo intanto maturare molti fallimenti. Quindici anni sono sufficienti per veder spegnersi una generazione. Per chi studia, la fortuna si rovescia appena dopo la laurea. Il primo allarme suona quando i compagni di studio che si ammiravano per la loro bravura, si perdono; non tutti, ma quasi tutti. Qualcuno lascia il paese, altri cercano di sfondare invano il muro di gomma. Non va meglio per chi cerca subito un’occupazione, e che si trova a passare da un lavoro all’altro, spesso in nero. La scelta del lavoro è determinata dal caso, anzi non c’è neanche una scelta in senso proprio, le persone che possono scegliere un lavoro sono già nel privilegio. Il lavoro è quello che c’è intorno, quello che può procurare la famiglia. L’iniziativa è poca e rischiosa: il contesto la scoraggia.

Rapidamente si arriva al precariato di massa. Si crea un esercito di giovani precari che non di rado finisce, ironia della sorte, a rendere produttiva la schiera degli assunti non si sa come. Il precario non ha nessuno strumento per dire «no». Se vede che qualcosa non funziona, deve tacere perché qualsiasi critica o conflitto nell’ambiente di lavoro potrebbe essergli fatale e catapultarlo di nuovo nel deserto dei «cani sciolti». E lì, non c’è niente, nessun reddito minimo garantito, nessun’altra certezza che non sia la dipendenza da altri.