Sulla “vocazione” neoparmenidea del pensiero italiano contemporaneo

In occasione dell'uscita del libro di Mauro Visentin, Onto-Logica. Scritti sull'essere e il senso della verità, Bibliopolis, 2016, pubblichiamo


MAURO VISENTIN

A PROPOSITO DI UNA “VOCAZIONE” NEOPARMENIDEA
DEL PENSIERO ITALIANO CONTEMPORANEO



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Con il termine “neoparmenidismo” si intende di solito, da una trentina d’anni a questa parte (ossia da quando – con l’uscita de Gli abitatori del tempo, prima, e di Destino della necessità, subito dopo – il suo nome è entrato prepotentemente nelle “cronache della filosofia italiana contemporanea”, per dirla con Garin[1]), il pensiero di Emanuele Severino. Un’attribuzione di questo genere sarebbe assolutamente corretta di fronte ad una “lettura” di Parmenide come quella prospettata da Luigi Ruggiu nel libro sul filosofo di Elea da lui pubblicato nel 1975 (e recentemente riedito, del quale parleremo oggi pomeriggio)[2]. Non lo sarebbe, invece, affatto, se di Parmenide e del suo pensiero si fosse orientati a riproporre l’interpretazione “tradizionale”, quella cioè che risale all’epoca della filosofia greca classica, che lo stesso Severino ha più volte mostrato di condividere[3].

Non intendo discutere ora (ce ne sarà modo, agio e tempo più che bastevoli, oggi pomeriggio) di queste alternative esegetiche, ma semplicemente sottolineare il carattere che deve essere assegnato ai due modi opposti di intendere il rapporto fra aletheia e doxa in Parmenide, che discendono dalle due diverse interpretazioni delle quali ho fatto adesso cenno. Se il rapporto fra verità e opinione (potremmo anche dire: fra essere ed esperienza, fra immutabile e mutevole o temporale, fra incontrovertibile e controvertibile) è di continuità (per cui, vero l’essere, vera è anche l’esperienza, che ne dipende), allora la filosofia di Parmenide è una forma radicale di metafisica (come lo sono la filosofia di Spinoza e quella di Severino, che Brianese fa bene, a mio parere, nonostante le proteste del maestro, a collegare[4]). Se, invece il rapporto fra verità e opinione è di separazione totale (qualunque cosa questo voglia dire, e che cosa deve o dovrebbe voler dire lo vedremo, magari, se ce ne sarà il tempo, un po’ più avanti), allora questa filosofia è l’unico esempio di ontologia non-metafisica che si sia prodotto finora nella storia del pensiero occidentale (oltretutto, come implicita critica ante litteram della metafisica classica).
Per spiegare questa affermazione, devo, però, in primo luogo, chiarire che cosa intendo, specificamente, con il termine “metafisica”. Metafisica è, a mio avviso, il tentativo (paradossale e autocontraddittorio) che la filosofia mette in campo per governare il
thaumazein di cui parlano Platone e Aristotele come della fonte del filosofare (meglio sarebbe dire: come fonte del filosofare metafisico, ma visto che per loro il filosofare era innanzitutto ed eminentemente un filosofare metafisico – e che la filosofia, se non si risolveva interamente in metafisica, poneva, però, la metafisica davanti a tutte le altre discipline, con un ruolo, rispetto ad esse fondativo, cioè, appunto, esso stesso a sua volta metafisico, cosa che implicitamente comportava il riassorbimento di queste nell’ambito del fondamento – la confusione, che emerge, implicitamente, dalla tesi che abbiamo richiamato, tra filosofia e metafisica era, nell’ottica che caratterizzava il loro modo di volgersi al problema, del tutto legittima e giustificata). In altri termini, la metafisica è il tentativo che il pensiero mette in atto di porre sotto controllo l’imprevedibile e accidentale della temporalità e dell’esperienza, collegandolo alla verità sovrasensibile (cioè, appunto, meta-fisica).

Sotto questa angolatura prospettica, parlare di “parmenidismo” o “neoparmenidismo”, nel senso tradizionalmente assegnato al pensiero di Parmenide che è quello sul quale mi baso, significa identificare un aspetto in forza del quale possa dirsi, di una filosofia, che si trova, consapevolmente o inconsapevolmente, in rotta di collisione con il programma metafisico di continuità e di collegamento necessario della realtà empirica con la verità immutabile. Ora, in che senso noi possiamo dire che nel pensiero italiano esiste una specie di “vocazione” a tutto ciò?


[...]

*Questo testo è quello di una conferenza tenuta all’università di Venezia, la mattina del 1° dicembre 2015, nel quadro di una giornata di studi su Parmenide e Neoparmenidismo, conclusa, nel pomeriggio, da una tavola rotonda avente ad oggetto la seconda edizione del Parmenide di Luigi Ruggiu, con la partecipazione di Francesco Mora, Davide Spanio, Francesco Fronterotta, Luigi Vero Tarca e Mauro Visentin.

[1] In realtà, nelle “cronache di filosofia italiana” (intendendole nel senso gariniano di una ricostruzione dei momenti più significativi del pensiero filosofico nazionale) Severino fa la sua comparsa molto prima, sin dalla fine degli anni ’50 e poi, a pieno titolo, dal 1964, con la comparsa del suo Ritornare a Parmenide, per la vasta eco che questo saggio ebbe e il seguito di discussioni e polemiche cui dette vita. Tuttavia, è solo una quindicina di anni dopo (tra il 1979 e il 1980) che il suo nome diventa noto anche al pubblico dei non specialisti, attraverso la risonanza, non più semplicemente accademica ma giornalistica, acquistata attraverso le due opere richiamate nel testo.

[2] L. Ruggiu, Parmenide, Venezia 1975 (2a ed. Milano 2014, con l’aggiunta al titolo di un sottotitolo: Nostos L’essere e gli enti).

[3] Proprio per questo, rifiutando espressamente per la propria filosofia la denominazione di “neoparmenidismo” (cfr. Il destino dell’essere. Dialogo con Emanuele Severino, a c. di D. Spanio, Brescia 2014, p. 238).

[4] G. Brianese, Sentiamo e sperimentiamo di essere eterni. Emanuele Severino interprete di Spinoza, in Il destino dell’essere…cit., pp. 83 sgg.