G. Calogero, Eutanasia e suicidio

 

Guido Calogero, Eutanasia e suicidio, "Il Mondo" (20 marzo 1962)


Non di rado le cronache riferiscono circa persone che si sono uccise, e circa gli sforzi compiuti, da parenti o amici, per spiegare come il suicidio sia avvenuto in modo da non rendere necessaria, a termini del diritto canonico, la negazione della sepoltura ecclesiastica. Parallelamente, torna con una certa frequenza ad essere dibattuto il problema dell’eutanasia; e un recente processo ha riproposto anche alle coscienze più religiose il quesito se veramente compie delitto chi, col più sincero intento di aiuto per una persona irrimediabilmente condannata a morire dopo atroci sofferenze, la libera da esse, affrettando la sua fine.

Un punto che, in queste discussioni, non mi pare venga rilevato come occorrerebbe, è che il secondo problema non si può risolvere se prima non si affronta il primo. Perché il diritto all’eutanasia si risolve nel diritto al suicidio. Finché infatti, l’eutanasia è amministrata da altri, difficilmente essa potrà mai presentarsi come qualcosa di molto diverso da quello che il nostro codice penale, all’art. 579, prevede e condanna come “omicidio del consenziente”. Si presenterà, anzi, come cosa più grave, quando simile consenso non possa manifestarsi: e ciò nonostante che i difensori dell’eutanasia ritengano che essa possa essere amministrata anche quando il sofferente non abbia la forza o la capacità di esprimerlo. D’altronde, persino nel caso che il paziente manifesti con ogni chiarezza non solo il suo consenso ma anzi la sua originaria volontà e richiesta che l’eutanasia gli venga amministrata, come può il medico obbedirgli, senza assumersi le responsabilità di confermargli che non c’è più da tentar nulla, che nessun evento di nessun genere può intervenire a salvarlo, – cioè senza compiere un atto irragionevole, qual è, sempre, ogni profezia troppo sicura?

La realtà è che nessuno può togliere ad altri la vita, senza rischiare di scoprire tragicamente, il giorno dopo, che un nuovo ritrovato avrebbe potuto salvargliela. Diverso invece è il problema per quanto riguarda il dovere di vivere, che ciascuno di noi certamente ha: ma che non ha in astratto, o come uno di quegli inesistenti doveri, che in certe antiche classificazioni si chiamano i doveri verso se stessi. Come ogni altro dovere, anche il dovere di vivere non è che un dovere rispetto ad altri. Ed è quindi subordinato anch’esso alla regola ultima, che tale relazione ad altri sia di libera comunicazione cooperante, e non già un rapporto fra schiavo e padrone.

Se, dopo essere stato con una ragazza, io mi accorgo che è incinta e per disperazione mi sparo, sono veramente un vile, giacché, dopo essermi assunta una responsabilità paterna, fuggo dalla vita per non sopportarne le conseguenze. Per usare le vecchie parole feudali, sono un traditore e un fellone, perché abbandono chi dovrei aiutare, e proprio quando ha più bisogno d’aiuto. Si può quindi capire perché, in certe legislazioni di antica origine, come quella inglese, il suicidio continui ad essere condannato come un delitto di “fellonia”. Il soldato che si uccide per non combattere tradisce il suo re, così come, secondo il vecchio diritto romano, chi si uccideva per sfuggire a una condanna a morte, la quale avrebbe importato anche la confisca del patrimonio, diventava reo di frode all’erario.

Ma quel che importa non è tanto il fatto che, in ogni caso del genere, la previsione penale del suicidio come delitto sia destinata a restare senza effetto, in quanto la morte estingue ogni reato e chi vuole morire non teme più alcuna sanzione. Più importa il punto che la “fellonia” dell’abbandono della vita abbia luogo solo in quanto sussistano determinati impegni umani, e venga meno, invece, quando si possa considerar concluso il proprio compito, perché si è ormai divenuti, come diceva Omero, “inutili gravami della terra”, così che quel che si potrà fare per gli altri sarà comunque meno di quanto, continuando a vivere, si dovrà esigere da loro.

In simili casi l’individuo ha il diritto di decidere che preferisce dimettersi dalla vita; e nessuna autorità, né umana né divina, in età non più feudali, può continuare a pretendere che egli sia solo un suddito al suo servizio, così come nessuna comunità civile può vietare a un suo cittadino di decidere, a un certo punto, di dimettersi da suo membro. E allora si vede come il problema, in tali casi, sia non già quello di uccidere per pietà, ma solo quello di non più ostacolare il suicidio.

Certo, anche questa decisione è grave. Anche per essa, forse, occorrerà esigere che il morituro dichiari tale sua volontà ripetutamente, a distanza di giorni, di fronte a testimoni e non solo di fronte al medico. Questi stessi verba sollemnia potranno far parte di quella dignità del trapasso, di quel “saper morire”, a cui tutti dovremmo prepararci per tempo. Ma allora, nel quadro di questa dignità suprema, rientrerà bene anche il gesto di chi, dopo aver detto le sue ultime parole a chi gli sta intorno, volgerà la mano a prendere la dose mortale di sonnifero, che non gli sarà stata più nascosta o tenuta lontana, come se egli fosse diventato un infante irresponsabile proprio nei momenti più conclusivi e solenni della sua vita. Il suo gesto non sarà diverso da quello di Socrate, che prende e beve la tazza della cicuta. Perché, nell’Atene del quinto secolo, anche quando si condannava un cittadino a morte, non si abbassava nessun altro all’indegnità dell’ucciderlo, ma si prevedeva che, come uomo libero, egli bevesse se il veleno da sé.