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La coscienza linguistica. Ernst Tugendhat tra ontologia e analisi del linguaggio

Il pensiero di Ernst Tugendhat, autore di spicco nel panorama filosofico internazionale a partire dal secondo dopoguerra, non smette di essere attuale nonostante l’inadeguata attenzione riservatagli dalla storiografia filosofica italiana. La lettura che qui si propone tenta di ricostruire il suo itinerario intellettuale evidenziando gli stretti rapporti che l’autore intrattiene da un lato con la tradizione fenomenologica ed ermeneutica, dall’altro con la riflessione di stampo analitico. In particolare si rileva come nella riflessione di Tugendhat emerga una «svolta pragmatica» che attesta il suo passaggio dalla filosofia teoretica a quella pratica, secondo un’ascendenza di stampo trascendentale e kantiano ben rintracciabile in un percorso che, a partire dall’idea di una «semantica senza soggetto», giunge a riformulare il concetto stesso di «coscienza» nei termini di un fenomeno meramente linguistico.

Claudia Bartolucci  La coscienza linguistica. Ernst Tugendhat tra ontologia e analisi del linguaggio

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Introduzione

Se una delle cifre distintive della filosofia contemporanea sembra rintracciabile nella spinta a ritornare, con sempre maggiore urgenza, alla riflessione sulla “questione ontologica”, e con essa alla riflessione sul tema della soggettività, la filosofia di Ernst Tugendhat si può inscrivere a ragione all’interno di questo quadro concettuale, con il merito di metterne a fuoco temi e problemi principali.

L’eccentricità della posizione di Tugendhat nel vasto panorama della filosofia contemporanea, nonché la forte risonanza che ha avuto la sua posizione intellettuale sia nell’ambito della riflessione filosofica di area tedesca (in particolare per il serrato confronto con la “scuola di Heidelberg” , ma anche per l’intenso rapporto con pensatori di primo piano quali Karl-Otto Apel e Jürgen Habermas), sia in quella di area anglosassone (soprattutto per il dibattito intorno alla nozione analitica di “verità”, nel confronto con autori come Richard Rorty, Donald Davidson, Robert Brandom), rendono necessaria una riflessione su quelli che, a una ricostruzione della sua complessa architettura teorica, emergono come i temi e i problemi centrali di una originale proposta filosofica. Questi temi possono essere a grosse linee rintracciati nell’indagine intorno al concetto di “essere”, a quelli di “coscienza” e di “esperienza” e al concetto di “ragione”, laddove le problematiche centrali traggono spunto, al di là di qualsiasi questione di metodo, da una consapevole riflessione intorno a temi di chiara derivazione fenomenologico-ermeneutica .

Il presente lavoro si propone dunque di offrire la breve ricostruzione di una evoluzione intellettuale attraverso cui l’Autore, dagli esordi segnati dagli studi filologici al distacco, forse rimasto incompiuto, dalla filosofia di Martin Heidegger, passando per il soggiorno in Michigan negli anni Sessanta e l’adozione di un “nuovo modo di pensare” (il metodo analitico), giunge alla meditazione sul tema della coscienza e dell’autocoscienza, meditazione che sposta il baricentro della sua proposta filosofica nell’ambito della filosofia pratica. Paradigmatica di tale slittamento concettuale e la sua collaborazione con Jürgen Habermas al Max Planck Institute e il lavoro portato avanti durante la sua lunga permanenza in Cile.
La rilevanza della riflessione tugendhatiana nel panorama della filosofia contemporanea si giustifica, ad avviso di chi scrive, non tanto e non solo per la sua rilettura delle principali linee evolutive della storia della filosofia tradizionale in chiave linguistico-analitica, né, o almeno non soltanto, per la sua originale riformulazione della prospettiva heideggeriana, da cui tale rilettura prende le mosse, ma acquista importanza centrale anzitutto nella misura in cui sembra non solo assumere, ma portare alle sue estreme conseguenze una delle tappe epocali della filosofia occidentale: quella “svolta linguistica” a partire dalla quale l’a priori della conoscenza è stato inteso come propriamente linguistico. La sua proposta intellettuale rimane inoltre di estrema attualità nella misura in cui ha saputo focalizzare lucidamente e riportare l’attenzione su alcuni dei plessi problematici centrali della filosofia contemporanea .

L’intento del presente lavoro è dunque quello di ricostruire le tappe di una evoluzione teorica attraverso la quale l’Autore giunge a quella che può essere definita una “svolta pragmatica”, dove la posta in gioco e costituita dal riconoscimento dei limiti della filosofia linguistica per l’indagine di uno dei concetti soggiacenti alla riflessione ontologica a partire dalla modernità: il concetto di “coscienza” e i suoi correlati “autocoscienza” e “autodeterminazione”.
Questo e anche il motivo per cui si è scelto, piuttosto che ricondurre forzatamente la speculazione tugendhatiana a un determinato orizzonte concettuale, di tentare di ricostruire le linee evolutive del suo pensiero per cosi dire dall’interno, evidenziando tanto il forte debito quanto gli elementi di rottura nei confronti della prospettiva fenomenologica. Il bersaglio polemico, da questo punto di vista, è costituito dal concetto fenomenologico di coscienza, di cui si contesta sia il carattere fondativo per la conoscenza, sia la dimensione “privata”. Questo e il motivo per cui l’approccio semantico, che critica la dimensione propriamente soggettiva della conoscenza sulla quale ha fatto perno la riflessione ontologica almeno a partire da Descartes, può e deve essere riletto, alla luce della “svolta” nella direzione della filosofia pratica, come una istanza antisolipsistica essenziale, attraverso la quale l’Autore giunge a riconcettualizzare tanto la coscienza, quanto il suo supposto orizzonte intenzionale, nei termini di una “coscienza linguistica”.

La dimensione linguistica assume dunque, all’interno della filosofia tugendhatiana, lo statuto di orizzonte autonomo, tanto nei confronti del soggetto quanto nei confronti di una presunta “comunità della comunicazione” . E infatti la dimensione linguistico-semantica, all’interno della quale il soggetto si trova già da sempre inserito, a determinare l’orizzonte delle possibilità e dei limiti non solo della pensabilità del mondo, ma della sua esperibilità stessa. La nostra comprensione del mondo non ha come referente un orizzonte esterno di cui si debba dar conto – e da qui prende le mosse la critica tugendhatiana nei confronti del modello “rappresentazionale” della conoscenza –, essa è invece eminentemente comprensione di strutture linguistiche e del loro uso. Al di là della aperta critica nei confronti del “momento trascendentale della filosofia”, e del suo orientamento fondamentalmente oggettualistico, c’e dunque più Kant che Heidegger nel pensiero di Tugendhat, come dimostra anche la ripresa del tema wittgensteiniano in Autocoscienza e autodeterminazione, proprio allo scopo di decostruire la prospettiva fenomenologica orientata alla coscienza e di rifondare l’orizzonte della comprensione, anche e soprattutto quella filosofica, in una dimensione che, in quanto linguistica, rimane costitutivamente intersoggettiva.

La mappa concettuale tracciata nelle pagine che seguono tenta di seguire l’itinerario concettuale dell’Autore attraverso il filo conduttore del concetto di “coscienza linguistica”. Il motivo della scelta e determinato da quello che sembra emergere come il contrassegno fondamentale della posizione tugendhatiana, al di là delle diverse articolazioni concettuali in cui prende forma all’interno della sua vasta produzione intellettuale, e cioè una radicale problematizzazione dell’orizzonte che tradizionalmente mette capo a una “filosofia del soggetto”. Se dunque la prima parte del libro traccia le linee di una breve biografia intellettuale dell’Autore, tentando di dar conto dell’orizzonte concettuale, oltre che della temperie culturale all’interno della quale il suo pensiero ha preso le mosse, la seconda parte ricostruisce la critica tugendhatiana della storia della filosofia tradizionale a partire dalla prospettiva linguistico-semantica, affrontando quelle che possono essere ritenute le sue tappe fondamentali – almeno nella prospettiva di una ri-fondazione della filosofia in quanto disciplina autonoma –, dunque Aristotele, Cartesio, Kant, Husserl, Heidegger, la filosofia linguistica.

La terza parte del libro tenta invece di ricostruire nelle sue linee essenziali la “svolta” tugendhatiana nella direzione della filosofia pratica, a partire dal nodo concettuale principale di questa evoluzione, e cioe la problematizzazione e la rielaborazione di una “filosofia della coscienza”. Tale ricostruzione tiene ovviamente conto del serrato confronto di Tugendhat con gli esponenti della “scuola di Heidelberg”, ma anche e soprattutto con il pensiero di quegli autori che, come Jürgen Habermas o Karl-Otto Apel, assumendo coerentemente le conseguenze della “svolta linguistica”, continuano a orientarsi al linguaggio quale orizzonte ultimo della filosofia.

 

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