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Il neoparmenidismo italiano II. Intervista a Mauro Visentin

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di Gianni Perazzoli

È uscito il secondo volume de Il neoparmenidismo italiano. Il sottotitolo suona: Dal neoidealismo al neoparmenidismo. Un programma disorientante se si tiene ferma la bussola della storiografia filosofica in Italia. Vorrei allora porre l’attenzione in primo luogo sull’aspetto più originale e, immagino, più contestato della tua tesi: il neoparmenidismo come nota dominante della filosofia italiana che va da Croce e Gentile a Guido Calogero e a Luigi Scaravelli, fino a Gennaro Sasso. La tua tesi è che la filosofia italiana è legata a un fondo antimetafisico, e che dunque essa è legata - nel senso che tu dai a questa definizione - a un fondo “neoparmenideo”. Un “neoparmenidismo” che però non deve essere confuso con quello di Emanuele Severino (per quanto anche a Severino siano dedicate molte pagine, anzi un intero saggio). Proprio l’autore di Ritornare a Parmenide, è anzi un autore che - sostieni - fa eccezione alla nota neoparmenidea della filosofia italiana. Ma andiamo con ordine. Partiamo dal perché del “neoparmenidismo”, o meglio, del “neoparmenidismo italiano”.


Nella premessa al I volume di questa raccolta di saggi, avevo cercato di spiegare in che senso io ritenessi che proprio la debolezza della tradizione filosofica italiana e in particolare la debole incidenza della filosofia (nel senso specifico e ristretto di “filosofia speculativa” o “metafisica”) sulla cultura italiana nel corso dei secoli potesse considerarsi, retrospettivamente, come un fattore di maggior forza, nel momento in cui la crisi della metafisica determinatasi nel corso del ‘900 entro il quadro della tradizione occidentale stava aprendo un vuoto (culturale e filosofico) nel pensiero europeo, che la singolare ripresa di interesse (una ripresa non priva di equivoci) per i temi “speculativi” da parte della filosofia anglosassone non era certo sufficiente a colmare. In sostanza, cercavo di delineare un percorso della civiltà italiana che potesse permettere di sottolineare il paradosso per cui proprio una cultura nutrita di un cospicuo bagaglio letterario e storico, ma povera di un’autentica tradizione metafisica (con apporti, in questo campo, quasi esclusivamente dominati dalla soggezione imitativa nei confronti della letteratura filosofica inglese, francese e tedesca) e che aveva prodotto i suoi frutti migliori – prescindendo, ovviamente, dall’arte, in quasi tutte le sue diverse espressioni – nel campo della giurisprudenza, della scienza politica e della scienza naturale fosse più delle altre culture europee predisposta ad accogliere un’impostazione filosofica antimetafisica (nel senso specifico di antifondativa), come quella che, secondo il mio punto di vista, ha caratterizzato la parte migliore e più rimarchevole del pensiero filosofico italiano del ‘900. Ossia una filosofia di impronta neoeleatica. Si trattava, in altre parole, di proporre uno sfondo che potesse anche, suggestivamente, presentarsi come la ripresa (con altri strumenti logici e un diverso apparato concettuale) di una tentativo – l’unico che sia stato fatto nella storia della civiltà europea e, per avventura, proprio in un’antica colonia italica del mondo greco – di pensare in termini non fondativi il “rapporto” fra verità e realtà (ovvero di pensarlo al di fuori dello schema corrente di sovrapposizione reciproca e di sostanziale identificazione dei due concetti, frutto della dipendenza che in tale schema rende l’esserci della seconda tributario della prima e perciò espressione di questa nella sua “autenticità”). L’idea che mi guidava era quella secondo la quale occorreva fornire anticipatamente una risposta alla prevedibile domanda che il tentativo di proporre in Italia, ovvero proprio in un contesto culturale così filosoficamente depauperato, il grande stile filosofico avrebbe indotto molti a sollevare: come sarebbe possibile supporre che l’esaurirsi della paludata tradizione metafisica continentale, che ha i suoi termini di riferimento estremi, dal punto di vista cronologico e da quello speculativo, nel pensiero greco all’inizio e in quello tedesco alla fine, potesse lasciare il campo non ad un’epoca filosofica di scoliasti e chiosatori (un’epoca che si potrebbe definire, per riprendere un’espressione felice di Hermann Hesse – autore che, peraltro, non amo – nell’unico romanzo degno di questo nome che gli sia riuscito di scrivere, “appendicistica”), ma ad uno sforzo speculativo di ampio respiro e di smisurata ambizione, oltretutto proprio in un paese linguisticamente marginale e filosoficamente negletto come l’Italia? Vorrei quindi chiarire che il problema da cui partivo, che ho cercato di affrontare e di risolvere in questi due volumi è innanzitutto un problema culturale o storico-culturale, benché il confronto con esso sia stato impostato sul terreno dell’analisi filosofica (non storica o culturale) di alcune rilevanti espressioni del pensiero italiano che si sono prodotte nel corso del XX secolo. E questo non può non comportare l’avvio di una discussione, che nella premessa al primo volume è solo accennata, dei rapporti tra cultura e storia, da un lato, filosofia, dall’altro, in una chiave che, necessariamente, viste le premesse, non può essere “storicistica” se non in un senso particolarissimo e rovesciato, rispetto alle pretese dello storicismo tradizionale, ossia in quello di vedere l’influenza storica agire sulla filosofia solo “per sottrazione” o impoverimento. Con le filosofie italiane del ‘900 le condizioni culturali favorevoli all’avvio di un discorso filosofico impostato in chiave antimetafisica (ossia, torno a ripetere, in una chiave che non dà per scontata l’equivalenza semantica e concettuale di termini come “verità” e “realtà”) iniziano a dare i loro frutti sul piano strettamente teorico dell’allestimento di impianti speculativi nei quali il riassorbimento metafisico della dimensione fattuale dell’esperienza entro il quadro delle categorie che articolano il senso della verità di un orizzonte di pensiero mostra le prime crepe. Ma non, si badi, per un semplice deficit di coerenza interna (cosa che si può, probabilmente rilevare, per questo riguardo, in qualunque sforzo filosofico prodotto dalla metafisica europea), bensì perché le esigenze dalle quali quel pensiero è mosso, lo guidano, in modo più o meno consapevole, verso un approdo che prevede espressamente la manomissione del legame fondativo fra la verità e i fenomeni mutevoli e apparenti che, nel loro intreccio, definiscono la nostra esperienza del mondo. Ho cercato, nel primo volume, di far vedere come questo aspetto tenda a profilarsi nelle filosofie neoidealistiche di Croce e Gentile, venendo a costituire le premesse degli sviluppi successivi. Nel secondo, mi sforzo di mostrare come, appunto, questi sviluppi giungano a delinearsi in modo tematicamente sempre più esplicito, attraverso la riflessione di due pensatori che dissolvono dall’interno la tradizione neoidealistica (cioè Calogero e Scaravelli) e di altri due (Severino e Sasso) che ad un esito neoeleatico pervengono espressamente e in modo intenzionale. Anche se, come tu rilevi, il primo dei due, ossia Severino, non può propriamente, dal mio punto di vista, rientrare in questo discorso se non per gli esiti, da lui certo non previsti e non desiderati (e proprio per questo non riconosciuti), cui lo svolgimento del suo pensiero, a mio modo di credere, mette capo. La cosa può apparire paradossale, visto che proprio Severino è stato l’artefice, parzialmente involontario, del battesimo di questo orientamento filosofico, nel senso che è stato il suo Ritornare a Parmemenide ad aver suggerito, ad altri prima di me, di coniare l’espressione “neoparmenidismo”. Ma, per ragioni che spero la nostra intervista riuscirà gradualmente a far emergere (e che attengono in modo essenziale al fatto che nel suo orizzonte speculativo viene mantenuto ed anzi rafforzato il radicamento metafisico dell’ente – di tutto l’ente – nell’essere) non posso che ribadire la tesi dell’eccentricità della filosofia di Severino rispetto all’orientamento di fondo, cui intendo dare risalto, del cammino novecentesco della riflessione italiana intorno al problema della verità, da un lato, e del divenire (storico e non) dei fenomeni reali e sensibili, nelle loro varie e talvolta imprevedibili manifestazioni, dall’altro.

 

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