I dialoghi socratici di Platone


Marco Simionato

Intervista a Laura Candiotto


Le vie della confutazione.
I dialoghi socratici di Platone

(Mimesis, 2012).       



Quale importanza può avere oggi uno studio su Platone? Meramente storico-filologico (fornire un’interpretazione su ciò che Platone ha detto e scritto) o anche etico-esistenziale? E sul piano teoretico?

Il mio stile filosofico è di carattere interdisciplinare. Da un punto di vista teoretico studio la mereologia e la relazionalità tra le parti, quindi è inevitabile che io stessa sia portata a ricercare continui collegamenti tra le discipline. Questo però non nega un profondo rigore, che deve essere presente nello studio della singola disciplina, la quale viene poi messa in comunicazione con le altre discipline. Franco Trabattoni nell'introduzione di un suo recente testo (Attualità di Platone. Studi sui rapporti fra Platone e Rorty, Heidegger, Gadamer, Derrida, Cassirer, Strauss, Nussbaum e Paci) ha evidenziato la reciproca diffidenza che intercorre nell'università italiana tra storici e teoreti e ha sottolineato le conseguenze svantaggiose di questo fenomeno. Questo rilievo mi ha fatto pensare alla necessità di collaborazione tra studiosi in equipes interdisciplinari e ha acceso in me la speranza che prima o poi contesti di questo tipo possano trovare spazio nell'università italiana. Intanto sto cercando personalmente di svolgere i diversi compiti, di essere al contempo una valida teoreta e una valida storica... Nel caso di Platone, uno studio attento di ricostruzione testuale del suo pensiero mi sembra essere la base per poter esporre una tesi teoretica coerente e filologicamente fondata. Viceversa, un approccio teoretico al testo tendente a valorizzare peculiari tematiche e concetti è necessario a far sì che il testo non risulti sterile e che ci possa “parlare” ancora oggi.
La portata etico-esistenziale risiede, per quanto riguarda la mia esperienza personale, nello stile con cui ci si confronta con la filosofia, con un'attitudine vòlta all'“ascolto” del testo e al dialogo con il filosofo. La filosofia stessa è per me un grande esercizio di relazione, che permette di mettere in discussione il modo in cui vivo.

Secondo alcuni, l'intera filosofia occidentale è un insieme di note a Platone. Inoltre, secondo Severino – che è tra i tuoi maestri - l'intero Occidente è in gran parte costruito sulla filosofia di Platone. Come si rapporta il tuo libro a concezioni di questo tipo?

Nel mio libro propongo un'interpretazione di Platone tendente a cogliere elementi che mi sembrano essere stati oscurati da secoli di platonismo e cristianesimo. Il Platone che emerge dal mio testo non è un Platone dualista e precursore del cristianesimo, bensì un filosofo inserito nel suo tempo, che cerca di rispondere ai problemi sorti, da un lato, con la filosofia presocratica e, dall'altro, con la figura di Socrate. Nel testo mi concentro specialmente sulla filosofia socratica anche se la concezione della filosofia di Platone come dualità e non dualismo! all'interno di una "ontologia delle relazioni" è presente sullo sfondo. Emerge quindi un Platone che in Socrate trova la possibilità di un dialogo "integrale", dove il corpo e le emozioni si accompagnano all'analisi logica e argomentativa, di un metodo “eversivo” che vuole, attraverso l'educazione degli interlocutori, trasformare la polis. Severino, pur riconoscendo a Platone il merito di aver compiuto l'unico passo avanti rispetto a Parmenide, legge Platone come fondatore del nichilismo. La risposta platonica per "salvare i fenomeni" dopo Parmenide consiste, per Severino, nel consegnare gli enti all'epanphoterizein, all'oscillazione tra l'essere e il nulla. Io credo, e ci sto lavorando proprio in questo periodo, che Platone invece volesse dirci qualcosa di diverso e che il Platone con il quale si confronta Severino (ma non solo lui, pensiamo ad esempio alla poderosa critica di Nietzsche) sia il Platone che è passato alla storia e cioè il Platone del cristianesimo. Mi sembra invece che la prima (solo la prima però, poiché lo stesso Heidegger vedrà poi Platone come fondatore della metafisica...) interpretazione di Platone effettuata da Heidegger mi riferisco specialmente al corso del 1924-‘25 sul Sofista sia portatrice di un'immagine di un Platone intento a far emergere la relazionalità degli essenti.

È molto interessante la tua trattazione della figura dell'elenchos e la definizione di "elenchos retroattivo" che introduci. Potresti darne una presentazione nei suoi punti fondamentali?

L'interesse per l'elemento elenctico nasce in me sicuramente grazie agli studi di Severino e del professor Tarca con il quale collaboro da più di dieci anni. Nei ‘dialoghi socratici’ ho individuato una figura elenctica particolare da me chiamata appunto "elenchos retroattivo" e che viene utilizzata da Platone nei casi in cui Socrate dialoga con una particolare categoria di interlocutori e cioè politici, retori e sofisti. Il metodo socratico, infatti, può essere definito "contestuale" dal momento che si adatta al tipo di interlocutore cui è diretto e al particolare pubblico di uditori che assiste alla performance. Quando Socrate dialoga con un Polo, un Trasimaco o un Protagora ha di mira non la purificazione dell'interlocutore (essa non è possibile perché l'interlocutore, per poter preservare il proprio ruolo sociale, non è disposto a vergognarsi in pubblico) ma la purificazione degli uditori. L'azione elenctica, nel momento in cui si dirige sull'interlocutore, agisce "retroattivamente" sul pubblico. La finalità è prettamente politica: "coscentizzare" il pubblico in merito all'inadeguatezza dei propri politici ed educatori.
Nell'analisi del Gorgia da me compiuta ho evidenziato le strategie comunicative utilizzate da Socrate per attuare l'elenchos retroattivo. L'elenchos retroattivo rappresenta una delle maggiori “scoperte” della mia ricerca e penso che essa sia fondamentale per comprendere il metodo socratico, la scrittura platonica e la finalità del loro operare.

Quale rapporto intercorre tra l'elenchos socratico e l'elenchos aristotelico, che troviamo specialmente nel IV libro della Metafisica come via di confutazione del negatore del principio di (non) contraddizione?

L'elenchos utilizzato da Socrate è sicuramente diverso da quello formalizzato da Aristotele. Si consideri solo che Socrate per portare alla contraddizione il proprio interlocutore è disposto anche ad utilizzare "strategie" che fanno accettare all'interlocutore stesso, senza che lui se ne accorga, passaggi argomentativi infondati. Molti filosofi analitici hanno imputato a Socrate una inadeguatezza e rozzezza logica. Io credo però che Socrate fosse consapevole che alcuni argomenti utilizzati per confutare il proprio interlocutore erano errati; essi però, agendo sul piano strategico, risultavano utili per condurre l'interlocutore a quel rovello che avrebbe potuto poi innescare la purificazione.
Socrate inoltre utilizzava strategie proprie della retorica per incidere non solo a livello argomentativo ma anche a livello psicologico ed emotivo. Nel passo 230b-e5 del Sofista si sottolinea che la purificazione elenctica sarà efficace per l'interlocutore e utile per l'uditorio solo se l'interlocutore sarà disposto a vergognarsi, a mettere in discussione il proprio modello di vita e il proprio ruolo sociale. Non basta quindi un riconoscimento logico della contraddizione, è necessario anche viverla in prima persona di fronte ad un pubblico. Se pensiamo alle strategie socratiche notiamo, quindi, che non è l'argomento in sé che si autonega - come nella figura dello elenchos aristotelico - ma che è la maestria di Socrate a far sì che quel particolare argomento dannoso risulti all'interlocutore e al pubblico come contraddittorio. In ogni caso, penso che ci siano anche dei punti in comune specialmente in merito al tema della necessità del movimento elenctico, del riconoscimento della contraddizione e del nesso co-istitutivo tra verità e negazione.

Se intendiamo, aristotelicamente, l'elenchos come modo argomentativo attraverso cui si palesa l'incontrovertibilità dell'innegabile – come può essere, ad esempio, l'incontrovertibilità del principio di (non) contraddizione –, quale ruolo può avere la vergogna e tutto ciò che concerne la dimensione psicologica dei partecipanti al dialogo? Ossia: l'elemento in generale "umano" è determinante per il "funzionamento" dell'elenchos? Se sì, come può la verità innegabile dipendere dall'uomo e dalle sue reazioni accidentali?

Come ho detto prima, la dimensione umana dei partecipanti al dialogo è essenziale al dialogo stesso. Il movimento elenctico che possiamo cogliere nei ‘dialoghi socratici’ è un movimento “incarnato”, coinvolge le persone, gli individui che lo esercitano, lo subiscono o semplicemente assistono a esso. La stessa ricerca filosofica e la conseguente possibile conoscenza della verità ha a che fare con la dimensione umana. Nell'Epistola VII Platone descrive la genesi della conoscenza filosofica come una fiamma che si accende da un fuoco che balza. Il fuoco è stato generato da un dialogare vissuto in comunità, da una dedizione costante del filosofo a un esercizio che comporta fatica. Nel Simposio l'ascesa all'idea del Bene avviene per gradi, partendo dalla dimensione umana del riconoscimento della bellezza presente nel corpo. Certo è necessario un salto improvviso per cogliere l'idea del Bene, ma giunti a essa bisogna come il filosofo che ha visto il Sole fuori dalla caverna tornare alla dimensione corporea e vivere una vita filosofica orientata al Bene. Riassumendo in un unico motto potrei dire che “è il filosofo che esprime la filosofia”.

La necessità logica ha bisogno, necessità, della dimensione non-logica – psicologica, umana, emotiva, etc. –, oppure quest'ultima funge, per così dire, da contorno? In altri termini:se una necessità logica è vera in ogni mondo possibile, essa sarebbe vera anche in un mondo privo di umanità? Se la logica occidentale si fonda, per riprendere la filosofia di Tarca, sulla negazione e sul "potere" della negazione, come va intesa la dimensione "emotiva"? Perché se la si intende come NON-logica, allora essa, in quanto negativa, ricade dentro il senso minimale della logica della negazione (come Tarca appunto mostra nella pars destruens del suo discorso). Oppure la intendi in un modo diverso? E, più in generale, il sapere filosofico ha il suo completamento nella vita del filosofo – o in altri termini, la necessità logica ha il suo completamento nella emotività umana – perché esso, in quanto universale, deve abbracciare tutto? Ciò che non capisco è se la necessità logica, a tuo giudizio, è tale per cui vale sia da "sola", sia in “compagnia” dell'uomo, oppure se vale solamente coinvolgendo l'uomo.

La tua domanda mi sembra che presupponga un dualismo tra funzioni logiche e funzioni non-logiche. Personalmente credo che la filosofia di Platone sia una filosofia che voglia illuminare la relazionalità e quindi, in questo senso, anche il collegamento, il nesso, tra le diverse funzioni dell'anima. Come per il coglimento della verità non si dà una cesura, bensì un legame tra la dianoia e il nous e tra il nous e l'idea (interessante che le espressioni di Platone si riferiscano anche ad esperienze sensoriali, del tipo “toccare” ed “entrare in contatto” con l'idea), così tra le emozioni e la logica non vi è separazione ma complementarità nella differenza.
Da un punto di vista teoretico, non nel libro ma in alcuni articoli ad esso successivi, parlo di "relazione integrale" come di quel legame capace di cogliere l'identità in contatto con la differenza e di "relazione trasparente" come sfondo manifestativo della co-istituzione degli elementi. Se pensiamo quindi alla filosofia di Tarca possiamo leggere in questi termini il passaggio dalla negazione alla differenza, nel senso di una negazione che si trasfigura nel suo essere relazione, e del rapporto tra nulla ed essere, nel senso del positivo significare del nulla che costituisce lo stesso essere.

Secondo la tua interpretazione, c'è una verità, intesa come un insieme di tesi incontrovertibili, a cui il dialogo socratico può pervenire? Se sì, essa esiste a prescindere dall'accadere del dialogo? Se invece la verità si costruisce nel dialogo, non si rischia di cadere nel relativismo?

Questo tema è estremamente discusso e nella storia ha condotto a interpretazioni opposte. Il mio attuale progetto di ricerca in merito al nesso che sussiste tra verità ed emozioni, tra conoscenza e proceduralità, lo affronta nella consapevolezza che la verità “è già da sempre” e al contempo è scoperta da ognuno tramite particolari esercizi. Il rischio di relativismo lo colgo maggiormente nelle applicazioni contemporanee del dialogo socratico le quali intendono la verità secondo paradigmi di pensiero costruttivistici. È però pensabile un metodo che faccia apparire ciò che già da sempre è presente? Anche qui il nesso tra soggettivo e universale mi sembra essere fondamentale. Nel percorso dialogico il soggetto si trasforma e nel momento in cui coglie, d'improvviso e senza garanzia, la verità, ,egli diviene tutt'uno con essa, trovando così la sua universalità. Questo è il famoso tema dell'assimilazione al divino e della epistrophé. Tale percorso però, assumendo i termini severiniani, non è un “divenire altro” ma lo svelarsi di ciò che già si è. Ricordiamo che in Platone la conoscenza è reminescenza e che l'errore e la contraddizione sono presenti nell'anima come scorie che coprono la verità, la quale può generarsi grazie ad una propedeutica dialogica. Il grande tema hegeliano e poi severiniano del rapporto tra temporalità ed eternità nell'apparire mi sembra che trovi in questa tematica un interessante risvolto in merito allo statuto onto-gnoseologico della verità. Inoltre questa tematica mi sembra che apra degli orizzonti interessati, a partire da Platone e attraverso Severino, in merito all'elaborazione di pratiche disvelative ossia di pratiche d'eternità.

Si perviene da soli o collettivamente alla verità?

Nel mio libro ho voluto sottolineare gli aspetti comunitari del dialogo socratico, sia nei suoi aspetti critici e trasformativi della società (cfr. “elenchos retroattivo”) sia nei suoi aspetti generativi di conoscenza. Il soggetto nel dialogo ha bisogno della presenza di un altro che compia il ruolo confutatorio-maieutico (e in questo caso l'altro assume il ruolo della guida in una relazione complementare ma asimmetrica), il ruolo di audience che funge da specchio per la costituzione della propria identità, il ruolo di teste per mettere alla prova la conoscenza acquisita. Il dialogo può essere svolto anche in solitudine (dialogo dell'anima con sé stessa) ma anche in questo caso la dualità è fondamentale per creare la dynamis discorsiva, il “rimbalzo” di posizioni che permette alla fiamma di accendersi da un fuoco che balza, citando il noto passo della Epistola 7. Anche in questo caso la figura della dualità non indica separazione ma relazione generativa tra i differenti.

Il tuo testo ha scelto come epigrafe un passo del Gorgia al quale nell'Introduzione dài un significato "strategico". In che senso Socrate utilizza come "strategia" la "professione di fede per il metodo dialogico"?

L'epigrafe tratta dal Gorgia è una delle molte "professioni di fede" che Socrate pronuncia nei confronti del metodo dialogico. Essa rappresenta la sua fede nei confronti della possibilità di ricercare insieme grazie al dialogo ma, al contempo, agisce a livello, appunto, strategico. Socrate infatti utilizza le "professioni di fede" nel momento in cui il suo interlocutore dubita di lui sostenendo che egli intende ingannarlo; esse hanno quindi la funzione di ribadire all'interlocutore ciò in cui Socrate crede per fare in modo che prosegua il dialogo. L'interlocutore in parte ha ragione nel sostenere che Socrate lo vuole ingannare; Socrate, sapendolo, cerca di rassicurarlo con la "professione di fede" in modo che, continuando a dialogare, possa emergere chiaramente la contraddizione nella quale l'interlocutore si trova. Se essa emerge è positivo per l'interlocutore - anche se egli non lo ammette, mentre secondo Socrate, il primo passo verso il miglioramento consiste proprio nel riconoscere i propri errori - ma, specialmente, per gli uditori che, agli occhi di Socrate e Platone, possono così rendersi conto (tramite l'elenchos retroattivo) che l'interlocutore di Socrate non è una persona virtuosa.
Nel testo ho effettuato una catalogazione delle strategie utilizzate da Socrate. Questa catalogazione va combinata con quella dei personaggi. Il metodo socratico infatti agisce differentemente a seconda degli interlocutori a cui è rivolto. Ho così effettuato un'interpretazione di tre dialoghi (Lachete, Carmide e Gorgia) per dimostrate testualmente come agiscono le strategie socratiche.

Il termine "strategia" mi fa pensare a qualcosa che Socrate escogita per ingannare l'interlocutore. In che senso dici che il metodo socratico è ambivalente?

Socrate conosceva bene la retorica e la utilizzava a servizio del suo metodo. Platone però vuole mostrare che Socrate utilizzava "strategie" retoriche per aiutare l'interlocutore e non per plagiarlo. È proprio su questo aspetto che si gioca l'ambivalenza del metodo socratico che ai miei occhi non va mai però intesa come disonestà. Il suo linguaggio e il suo atteggiamento esprimono non solo ciò che è detto e fatto esplicitamente ma qualcosa di più che è nascosto all'interlocutore. In questo senso il suo dire e il suo fare sono strategici. Ricordiamo però che l'educazione socratica è rivolta a un miglioramento dell'interlocutore, anche se questo significa confutarlo ed esporre pubblicamente i suoi errori. Quando l'interlocutore non è disponibile ad intraprendere un processo maieutico queste strategie agiscono in vista del pubblico: Socrate deve ingannare l'interlocutore affinché emerga la verità su di lui e affinché il pubblico la possa vedere. Possiamo quindi dire che l'inganno è funzionale all'educazione dell'interlocutore e della società. Questa tesi però porta con sé grosse questioni sia da un punto di vista educativo sia da un punto di vista teorico. È possibile pensare a una educazione secondo verità? La verità, dovendo servirsi dell'inganno, è ancora tale? Non ci troviamo in una situazione “machiavellica” dove…il fine giustifica i mezzi? Ora non posso rispondere a queste domande ma vorrei solo far notare come esse, provenendo da testi di 2.500 anni fa, siano ancora attuali e così mi ricollego alla tua prima domanda in merito all'utilità di uno studio su Platone.

 In merito all'attualità del metodo socratico, nel testo presenti un’interessante Appendice dedicata al "socratic dialogue". In che senso esso può essere utile per la contemporaneità?

La ricerca filosofica che si effettua attraverso un dialogo o una discussione in comune è una pratica filosofica che non è mai scomparsa e che, negli ultimi quarant'anni, grazie alla crescita di interesse verso le pratiche filosofiche da parte anche di non filosofi o specialisti e per finalità non solo di ordine epistemologico, ha avuto una fiorente sperimentazione in vari ambiti e contesti. Il metodo contemporaneo differisce in alcuni punti cruciali dal metodo antico (specialmente in merito al ruolo del conduttore, allo statuto della verità e del processo conoscitivo) ma a mio parere, specialmente nella sua formulazione tedesca, riesce ad assumere quella finalità politica e sociale propria del metodo antico. In un mio articolo in via di pubblicazione intitolato "Il metodo socratico come risposta alla crisi della comunità" sostengo che il dialogo come ricerca comune può essere un fattore per costruire quella che Bauman chiama "nuova agorà" e cioè spazi collettivi di creazione di opinione pubblica. A livello individuale poi, esso è capace di rafforzare il pensiero critico (che è fondamentale per le life skills), strumento sempre più necessario per essere in grado di riconoscere i condizionamenti della nostra società. Personalmente sto lavorando nell'elaborazione di un metodo di dialogo socratico capace di integrare nella forma verbale pratiche di tipo corporeo, immaginativo e autobiografico nella consapevolezza che così facendo esso potrebbe essere espressione di una "pratica integrale".

 "Pratica integrale"....in che senso essa è collegata alla tua ricerca teoretica intorno alla "relazione integrale"?

Domanda bellissima che mi permette di sottolineare come per me la ricerca teoretica e la valutazione ed elaborazione di pratiche siano strettamente connesse. Partendo, da un lato, dalla prospettiva platonica e, dall'altro, dalla filosofia dell'olismo semantico di Severino, sto elaborando una "filosofia integrale" che intende evidenziare lo statuto ontologico della relazione agendo su più livelli. L'indagine di carattere prettamente teoretico rivolta alla questione ontologica è intesa anche come la base per una possibile valutazione delle ripercussione che i concetti elaborati in sede teorica possono svolgere a livello applicativo. Una particolare ontologia da me chiamata "monismo differenziato", basata sul concetto di "relazione trasparente", permette di mettere in discussione alcuni concetti chiave della riflessione filosofica quali l'identità, la differenza, la negazione e la partecipazione per giungere ad un concetto innovativo di "relazione integrale". Ma questo è un work in progress che mi accompagna da più di dieci anni e che spero che nel prossimo anno potrà trovare espressione nel mio prossimo libro.

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Laura Candiotto (1981), dottore di ricerca in filosofia, è cultrice della materia (filosofia teoretica) presso l'Università Cà Foscari di Venezia dove collabora alla ricerca con il Prof. Tarca.Membra dell'IPS (International Plato Society) collabora con il Prof. Luc Brisson (CNRS Paris). Da più di dieci anni è attiva nelle pratiche filosofiche.

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