Cosa significa dialogare con (il discorso di) Emanuele Severino?


Marco Simionato
“Cosa significa dialogare con (il discorso di) Emanuele Severino?”

Breve resoconto del convegno tenutosi a Venezia, il 29 e 30 maggio, presso la sede di ca’ Dolfin dell’Università ca’ Foscari, dedicato al pensiero di Emanuele Severino dal titolo "Il destino dell’essere".



La domanda di uno dei relatori del convegno, nonché allievo della prima generazione di Severino, ossia Luigi Vero Tarca (domanda che riprendo nel titolo dell’articolo) poneva il tema centrale della possibilità/impossibilità di obiettare al discorso di Severino: discorso che si propone come innegabile, non perché sia il “suo” discorso” (e dunque non per motivi di autorità, di competenza, o di superiorità di qualsivoglia tipo), ma perché esso testimonia il cuore della verità che chi nega per ciò stesso è costretto a riaffermare.
Scrive Severino nelle prime battute della sua opera fondamentale, La struttura originaria: «Alla struttura originaria compete [...] quanto Aristotele rilevava a proposito del principio di non contraddizione: che la sua stessa negazione, per tenersi ferma come tale, lo deve presupporre. Sì che ad un tempo lo nega e lo afferma: lo nega in actu signato, e lo afferma in actu exercito, e quindi, proprio perché insieme lo afferma e lo nega, non riesce a negarlo» (E. Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 20042, p.107).

Più specificamente, la struttura originaria nel lessico di Severino consiste nella relazione di due ambiti semantici: l’immediatezza logica e l’immediatezza fenomenologica, dove ‘immediato’ significa che non ha bisogno di alcuna mediazione, dimostrazione, o altro, per essere affermato, poiché esso appare di per se stesso come innegabile. In breve – e semplificando - l’immediatezza logica è l’identità e la incontraddittorietà (ma i due aspetti sono inscindibili) dell’ente in quanto ente, ossia l’impossibilità che l’identico sia diverso da sé e che i diversi siano identici; l’immediatezza qui risiede nel fatto che, se si affermasse l’identità dei diversi (e dunque la verità della contraddizione), proprio per affermare ciò sarebbe necessario che i diversi, posti in identità, fossero originariamente pensati e posti come diversi, riaffermando così la diversità dei diversi che si intendeva negare. L’immediatezza fenomenologica è «l’immediatezza dell’apparire dell’ente che appare, in quanto è ciò che appare». Severino riassume anche nel modo seguente: «[...] l’immediatezza del nesso tra i significati (= cose significanti = significare delle cose = enti) è posta come immediatezza ‘logica’ (la logicità, il logo, essendo appunto il nesso tra i significati) [...]. L’immediatezza della notizia, ossia dell’apparire delle varie forme di nessi che uniscono i significati, è chiamata immediatezza ‘fenomenologica’» (La struttura originaria, cit., p.17).
Sul fondamento di questa struttura, chiamata da Severino anche «verità» o «struttura originaria della verità», egli sviluppa la “sua” filosofia. Tutte le tesi possono essere criticate, seguendo la premessa, solo se prima si siano fatti i conti – per così dire – con la struttura originaria, e dunque con un gruppo di affermazioni che sono innegabili.

Ritorniamo così alla domanda del titolo: cosa significa dialogare con (il discorso di) Emanuele Severino? A tal proposito, Severino stesso ha risposto, in certa misura, intervenendo al convegno, dove ha ricordato che «l’obiettare contro la struttura originaria [nel senso indicato sopra] è un incominciare ad essere d’accordo con la struttura originaria», poiché chi vuole obiettare – se vuole davvero avanzare una obiezione – deve differire da ciò rispetto a cui obietta, e in ciò sta appunto la riaffermazione della struttura originaria stessa, cioè il riconoscimento della differenza dei differenti, che è – appunto – «il contenuto primario della struttura originaria».
Detto questo, dialogare con il discorso di Severino – o, in altri termini, con la struttura originaria - risulta assai peculiare: se il dialogo è tale per cui viene condotto dal di fuori di essa, cioè a partire da un “luogo” esterno, allora esso è impossibile, o meglio: sussiste solo come insignificante, dove persino quell’insignificanza, significando se stessa e non altro, appartiene (come negata) al luogo del significare originario, e dunque alla verità stessa. Chi dunque si avvicina alla struttura originaria volendo saggiarne la fondatezza, o volendo mostrarne la falsità, è destinato ad essere inglobato in essa...anzi, è destinato a “scoprire” che già da sempre la sua “valutazione” sulla stabilità della struttura poggia su questa stessa. Non c’è spazio per un dialogo nel senso di uno scambio tra due termini l’uno esterno all’altro: se uno dei due è la verità, l’altro, l’errore, esiste solo come negato e il suo contenuto è nullo (e persino il nihil absolutum sta nella verità, come negato. Si veda a proposito del nulla e dell’aporia ad esso connessa la soluzione proposta nel cap. IV de La struttura originaria).

Gli interventi che si sono susseguiti al convegno menzionato sopra rispecchiano a grandi linee i modi in cui il pensiero può avvicinarsi al contenuto del discorso severiniano; quei modi in cui – di fatto – la comunità filosofica si è storicamente confrontata con esso. Certo, ogni filosofo o pensatore ha il proprio atteggiamento teoretico, i propri presupposti di fondo, i propri punti di interesse; ma – parlando in termini generali – credo si possano individuare tre atteggiamenti nei confronti della filosofia di Severino.

Il primo consiste nel cercare di mostrare la falsità, o perlomeno la possibilità della falsità, delle tesi di fondo dell’ontologia del filosofo bresciano o di alcune di esse. È il caso, ad esempio, dell’intervento di Enrico Berti, dove viene criticata la riduzione severiniana della molteplicità delle determinazioni all’unico senso dell’essere inteso come negazione del nulla. Oppure ricordo l’intervento di Mauro Visentin volto a mostrare l’impossibilità di porre in sintesi incontraddittoria l’immediatezza logica e l’immediatezza fenomenologica. Infine segnalo gli interventi di Salvatore Natoli, che conclude sottolineando come la logica severiniana sia vera solo per quel che riguarda le parole, laddove le cose seguono un diverso corso; e quello di Mario Ruggenini, secondo cui anche il discorso di Severino – come qualsiasi altro – non può pretendere di essere verità assoluta, dovendo fare i conti con i limiti del linguaggio.
Il secondo modo di accostarsi a Severino consiste nel rileggere certi momenti della storia della filosofia, a partire dalla sua ontologia, accettata in pieno come fondamento per comprendere la storia del pensiero (e delle azioni) dell’Occidente. È il caso, ad esempio, degli interventi di Giorgio Brianese e di Davide Spanio che hanno posto in relazione la proposta teoretica di Severino rispettivamente con la filosofia di Spinoza e di Gentile.
Il terzo modo è rappresentato da un confronto con le tesi severiniane in merito al cosiddetto mondo della “vita” e della “storia”: la tecnica, la società, la politica, etc. Ricordo a questo proposito l’intervento di Irti, in merito al tema del rapporto tra tecnica e diritto.

Questi tre atteggiamenti filosofici nei confronti del discorso di Severino vanno incontro a quanto già indicato sopra: l’inevitabile fagocitazione all’interno della verità della struttura originaria: se dicono qualcosa di compatibile con essa, i contenuti dei dialoganti possono sussistere positivamente; se dicono qualcosa di diverso o incompatibile, essi sono tenuti all’interno della verità come negati (o il loro contenuto, di fatto, è un nulla assoluto). Certo, tutto ciò semplificando e generalizzando al massimo; ma il senso e il destino del dialogo con il discorso di Severino credo possa essere riassunto così.

A questo punto – si dirà – è perfettamente inutile dialogare con la filosofia di Severino, nella misura in cui o si viene a dire lo stesso, oppure si dice altro che – in quanto altro dalla verità – è irrimediabilmente sbagliato e dunque inutile alla conoscenza. Tuttavia, Severino stesso avverte che «ogni possibile negazione, ogni possibile critica della struttura originaria appartengono a questa struttura, nel senso che la verità è essenzialmente negazione dell’errore e tale negazione è tanto più concreta quanto più l’errore si manifesta in modo potente e concreto» (prefazione a M. Simionato, Nulla e negazione. L’aporia del nulla dopo Emanuele Severino, Pisa University Press, 2011, p. 9).
Ma egli ricorda anche che questo accrescimento della concretezza della verità non è un aumento di innegabilità della verità: non c’è un percorso in cui, via via, l’innegabile si mostra sempre più innegabile. Se l’innegabile è tale, lo è originariamente e immediatamente, non ad un certo punto o mediante qualsivoglia processo.
L’utilità del dialogo con il discorso di Severino risiede insomma nella possibilità di accrescere l’errore, dimodoché l’originaria negazione di esso da parte della verità sia sempre più grande, tanto più è grande, articolato ed elaborato ciò che essa nega.

Ritengo tuttavia che si possa individuare una ulteriore strada di dialogo con la filosofia di Severino e che consiste nel ridire lo stesso – la stessa verità originaria – con parole diverse. È il caso – credo – dell’intervento di Luigi Vero Tarca, che dichiara di non voler obiettare nulla al discorso severiniano, ma di ripensare il senso della (parola) differenza e della (parola) negazione. In tal modo si accrescerebbe il lato della verità non indirettamente, ossia rendendo più grande l’errore che la verità nega, bensì direttamente, cioè testimoniando la verità originaria con altre parole, dove l’alterità non sia un dire altro dal discorso di Severino, ma un dire lo stesso in altro modo.
La domanda che pongo, a conclusione di questo breve articolo, è la seguente e rimane volutamente aperta e senza risposta: ri-dire il discorso severiniano, ossia dirlo in altro modo, lascia davvero inalterata l’ontologia di Severino e il suo rapporto con il mondo della “vita”?

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