Emmanuel Faye: Heidegger e il "nazismo in filosofia"

È ormai da almeno un quarto di secolo, ossia a (ri)partire dai libri di Victor Farias, Heidegger e il nazismo (1987), e dello storico Hugo Ott, Martin Heidegger (1988), che la questione del "nazismo di Heidegger" è al centro di una serrata controversia storiografica e filosofica. Ora interviene come un macigno, vista anche la mole e l'amplissima documentazione, il libro di Emmanuel Faye, già pubblicato in Francia nel 2005 e da poco disponibile in traduzione italiana: Heidegger, l'introduzione del nazismo nella filosofia (L'Asino d'oro, Roma 2012).
La novità di questo volume è che non è più (solo) in questione il nazismo di Heidegger, ossia la sua personale scelta politica, l'adesione convinta al nazionalsocialismo - i documenti ci sono e parlano chiaro (tra l'altro, Heidegger conclude alcune lettere private con il "saluto" Heil Hitler!) - o l'analisi dei testi in cui la suddetta adesione trova diretta espressione, tra cui il celebre e inquietante "discorso del rettorato" del 1933.
Faye concentra piuttosto l'attenzione su un altro piano: a un'accurata indagine, la filosofia heideggeriana si rivelerebbe in gran parte essere la" traduzione" filosofico-ontologica dei fondamenti dell'ideologia nazionalsocialista, delle sue teorie razziali, delle idee di "sangue e suolo", di "comunità di destino di un popolo", e così via. È una prospettiva estrema quella proposta dall'autore-filosofo francese, ma rispetto a essa non è serio assumere posizioni pregiudiziali, pro o contro qualcosa (che spesso poi si definisce solo superficialmente). Per chi voglia invece sondare a fondo il tema, l'unica strada rimane l'attenta lettura del libro: conoscere in concreto le tesi di Faye per valutare criticamente, in senso positivo o negativo, i documenti-argomenti che egli porta a sostegno: il giudizio, quindi, potrà venire soltanto "alla fine".

In questo spazio proponiamo in primo luogo i documenti necessari per individuare le coordinate e l'attualità del libro in oggetto, l'Introduzione dell'Autore e la Nota della curatrice. Su questa base, l'obiettivo è rendere questo stesso spazio un "forum" di importanti interventi e/o recensioni provenienti dalla Rete o da chi voglia fornire direttamente un contributo: intanto pubblichiamo, dopo la scheda e i documenti, quelli di Maurizio Ferraris e Gianni Vattimo comparsi sulla stampa quotidiana.

 


Heidegger, l'introduzione del nazismo nella filosofia

a cura di Livia Profeti, L'Asino d'oro edizioni, Roma 2012

 NOTA DELLA CURATRICE

 INTRODUZIONE  DELL'AUTORE

Emmanuel Faye è professore di Filosofia moderna e contemporanea all’Università di Rouen e autore di diverse pubblicazioni sulla filosofia rinascimentale francese e su Cartesio. Per le sue ricerche critiche su Heidegger, nel 2011 è stato insignito dall’Accademia brasiliana di filosofia del dottorato honoris causa. Il suo volume Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie è stato premiato nel 2009 dalla rivista “ForeWord” come uno dei “Book of the Year” per la filosofia.

I rapporti di Heidegger con il nazionalsocialismo non sono riconducibili al temporaneo disorientamento di un uomo la cui opera filosofica continuerebbe a meritare ammirazione e rispetto – come molti ancora sostengono.
Emmanuel Faye, senza mai separare riflessione filosofica e indagine storica, propone una lettura degli scritti di Heidegger che rivela quanto egli si sia impegnato per introdurre i fondamenti del nazismo nella filosofia e nell’insegnamento.
Nel suo seminario hitleriano dell’inverno 1933-34, Heidegger identifica il popolo con la comunità di razza e sostiene che sia necessaria per il III Reich una nuova nobiltà, esaltando l’«eros» del popolo per il Führer. Successivamente, dopo il 1935, il suo nazismo invece di affievolirsi si radicalizza: nel giugno 1940 presenta la motorizzazione della Wehrmacht come «atto metafisico»; nel 1941 definisce la selezione razziale come «metafisicamente necessaria »; infine, dopo la disfatta del nazismo, le sue prese di posizione sul nazionalsocialismo e i campi di sterminio andranno a nutrire i discorsi dei movimenti revisionisti e negazionisti. Con questa opera, già pubblicata in molti paesi e finalmente anche in Italia, Faye rende evidente il fatto che Heidegger, partecipando all’elaborazione della dottrina hitleriana e ponendosi egli stesso come «guida spirituale» del nazismo, invece che arricchire la filosofia ha distrutto, attraverso essa, ogni forma di pensiero e di umanità.

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Faye, Heidegger non era razzista.
L'intento non riuscito di dimostrare che tutta la sua filosofia non è che la trascrizione del nazismo

Gianni VATTIMO

La Stampa 05/06/2012

Coloro che, come chi scrive, furono scossi e inquietati dal libro di Victor Farias su Heidegger e il nazismo (uscito nel 1987), troveranno in questo, ben più ampio testo di Emmanuel Faye, pubblicato in Francia ormai sette anni fa e ora messo a disposizione dei lettori italiani dall'accurata traduzione di Francesca Arra [a cura di Livia Profeti], molto più numerose ragioni di inquietarsi e interrogarsi. Anche perché Faye utilizza molto materiale documentario che non era ancora accessibile a Farias, specialmente i corsi di lezioni e le conferenze degli anni 1933-44 nel frattempo usciti nell'edizione delle opere complete , e lo integra con una quantità (spesso eccessiva e non esente da qualche rischio di confusione) di riferimenti testuali a opere di altri pensatori dell'epoca (Rothacker, Clauss, Schmitt). Ma soprattutto, la differenza del libro di Faye anche rispetto alle intenzioni di Farias è l'intento, esplicitamente enunciato fin dal titolo del libro, di mostrare che tutta la filosofia di Heidegger non è altro che una trascrizione del nazismo e della sua ideologia razzista e dis-umanista (se possiamo dire così).E' rispetto a questo intento che, al di là di ogni curiosità storica e di ogni interesse per un periodo così drammatico della storia della cultura europea, si deve valutare la riuscita del lavoro di Faye. Se diciamo che questo risultato per noi non è stato raggiunto dovremo sentirci colpevoli di neonazismo? E con noi la tanta filosofia della seconda metà del secolo ventesimo che ha letto e commentato Heidegger e ne ha fatto un punto di riferimento imprescindibile, un vero e proprio classico del pensiero della nostra epoca?Insomma, per Faye, soprattutto dopo il suo libro - ma supponiamo anche prima di esso, data la sostanziale vicinanza che egli vede nello Heidegger giovane alla mentalità e allo spirito dello hitlerismo - non si può professarsi heideggeriani senza essere almeno sospetti di nazismo. I concetti-chiave di Essere e tempo (l'opera fondamentale di Heidegger del 1927) sarebbero già infetti dall'ideologia del Führer, esposta in Mein Kampf (1925-26). Ma che dire dei corsi friburghesi di Heidegger degli anni precedenti, anzitutto quello di Introduzione alla fenomenologia della religione (1919-20) in cui sono delineati, in chiaro riferimento alla tradizione cristiana, i temi fondamentali dell'opera maggiore e anche dei successivi sviluppi della critica alla metafisica?
Tutto il discorso di Faye ruota intorno al tema del razzismo, non solo della distruzione del popolo ebraico ma anche della eliminazione nazista dei popoli considerati inferiori. Diciamo che la filosofia di Heidegger, in quanto ispirata al nazismo, è qui oggetto di una sorta di processo di Norimberga, in cui la si giudica in nome della stessa umanità riconoscendola, o cercando di mostrarla, come disumana e dunque impraticabile da chiunque voglia restare fedele alla propria natura. Se avvertiamo in questa impostazione un certo spirito affine a quello della «lotta al terrorismo internazionale» che è diventato il pensiero comune dell'Occidente dall'11 settembre in poi peccheremo di eccessivo politicismo?Il punto è che l'hitlerismo di Heidegger - innegabile dopo il 1933 e mai fatto oggetto da lui di un vero e proprio ripudio, di un atto di pubblico pentimento - non dà luogo a una filosofia razzista, tanto che i molti interpreti che hanno letto e utilizzato Heidegger anche «da sinistra», non lo hanno mai rilevato. Quel che Faye mette senz'altro sul conto del razzismo è l'antiumanismo di Heidegger, che ha ben altro spessore teorico, giacché si identifica con la sua critica - discutibile ma non certo da rigettare come «inumana» - della civiltà occidentale che ha dato luogo, fino al momento attuale, a un mondo dove progresso tecnologico, sfruttamento , dominio di classe, progressivo esaurimento delle risorse del pianeta appaiono indistricabilmente connessi.L'illusione di Heidegger nel 1933 è stata che la Germania (quella di Hölderlin, del Nietzsche «tragico», e da ultimo quella di Hitler) potesse rappresentare una alternativa valida (umanamente) sia all'industrialismo americano sia al totalitarismo sovietico. Si ricordi che negli stessi anni altri filosofi di tutto rispetto facevano scelte altrettanto radicali di segno opposto: Gentile fascista in Italia, Lukács e Bloch a favore della Russia di Stalin. Ma Heidegger in più era razzista, direbbe Faye. Le evidenze testuali che porta per dimostrare questa tesi sono per lo più indirette, come le analogie, su cui insiste tanto, fra l'analitica esistenziale di Essere e tempo e le idee di Hitler.
E quanto all'atteggiamento di Heidegger nel dopoguerra, quando ci si sarebbe aspettati da lui una pubblica «conversione» ai valori «umani» dell'Occidente vincitore - ai quali Faye si ispira senza alcuna incertezza critica - non crediamo che sia riconducibile, come lui pensa , alla volontà di nascondere le vergogne del suo nazismo passato, per il quale del resto subì un processo di epurazione che gli costò il divieto di insegnare.E' più ragionevole ritenere che Heidegger non pensò mai di potersi mettere dal punto di vista della verità assoluta: né quando scelse Hitler, né dopo, come avrebbe dovuto fare un filosofo disciplinatamente «democratico» e atlantico. Per lui il pensiero doveva rispondere a una chiamata non eterna come la metafisica, ma «storica», che, almeno dopo Essere e tempo, non gli parve più separabile da un impegno concretamente politico. Che egli credette di dover assumere appoggiando Hitler. Un errore che non pensò mai di poter condannare in nome della verità assoluta, ma che lo tenne lontano dalla politica per tutto il resto della sua carriera. E che forse gli ispirò l'amara considerazione: Wer gross denkt, muss gross irren: chi pensa in grande, deve per forza anche errare in grande.

 

NESSUNA SVOLTA PER HEIDEGGER
Un saggio eloquente sfata il mito che ha nutrito le favole postmoderne «Heidegger, l’introduzione al nazismo nella filosofia» di Emmanuel Faye

di MAURIZIO FERRARIS

il manifesto 8/7/2012

Equilibrismi ermeneutici per tenere separati nazismo e razzismo

«C’era una svolta». Così per noi, studenti di filosofia negli anni Settanta del secolo scorso, incominciava la favola di Heidegger. Raccontava di un filosofo che dopo essere stato il padre dell’esistenzialismo, a un certo punto, negli anni Trenta o subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, con una svolta (Kehre) speculativa, si sarebbe «posto all’ascolto del linguaggio e dell’essere», avrebbe inventato una nuova ontologia basata sulla passività. La fiaba racchiudeva, in un involucro mitico, una allusione al rapporto di Heidegger con il nazismo, ma questo lo abbiamo capito solo tempo dopo. Sulla fine degli anni Ottanta se ne seppe molto di più, in senso non mitico, attraverso due libri, di Victor Farias e di Hugo Ott. Qui si apprendeva che Heidegger non era stato nazista occasionalmente e per ingenuità, durante il breve periodo del rettorato nel 1933, ma era stato precocemente antisemita, e poi organicamente nazista, sino alla fine della guerra, e dopo non aveva mai ammesso le proprie colpe, impegnandosi piuttosto nella stesura di testi di autodifesa che erano stati presi per oro colato dai suoi esegeti. La svolta, in parole povere, veniva a significare: prima una filosofia dell’impegno e dell’urto, della comunità nazionale; poi, dopo la guerra, una filosofia dell’abbandono e della pazienza (Abbandono, uno dei testi chiave della svolta, è stato scritto nel 1944, dopo una conversazione con Ernst Jünger in cui Heidegger capì che la guerra era perduta). È in questo clima di nuova consapevolezza che, nel 1944, uscì Heidegger e il suo tempo di Rüdiger Safranski, il cui titolo in italiano è anodino, mentre nell’originale tedesco (così come in molte traduzioni in altre lingue) è ben più eloquente, ossia Un maestro tedesco, con riferimento ai versi di Fuga di morte di Paul Celan: «la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro ti colpisce con palla di piombo». Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, il monumentale libro di Emmanuel Faye (la cui edizione ampliata risale al 2007, e che viene ora proposta in italiano dall’Asino d’oro con l’eccellente cura e introduzione di Livia Profeti e una ricca prefazione dell’autore per l’edizione italiana, pp. 544 € 30) compie un ulteriore e decisivo passo in avanti per l’uscita dal mito, mostrandoci come Heidegger non solo fosse personalmente e convintamente nazista, ma come tutta la sua filosofia sia radicalmente inseparabile dal nazismo, e abbia realizzato – come una sorta di Lili Marlene speculativa – la singolare operazione di traghettare nella sinistra postmoderna parole d’ordine, termini e concetti che appartenevano alla visione del mondo nazista. Come si spiega che il massimo successo di quella che un contemporaneo, Lévinas, definiva «la filosofia dell’hitlerismo» abbia avuto luogo a sinistra e non a destra, e dopo la guerra? L’arcano si svela abbastanza facilmente. Da una parte, parlare nel dopoguerra, a destra e in Germania, di autori nazisti come Heidegger, Jünger, Schmitt (e di un loro riferimento comune, Nietzsche) sembrava implausibile, ne momento in cui la cultura tedesca era, comprensibilmente, interessata a voltare pagina. Diversamente andavano le cose in Francia e in Italia, ed è così che si spiega l'edizione di Nietzsche di Colli e Montanari, come pure il rilancio di Heidegger, prima in Francia (spesso in funzione anti-satriana, a partire dalla Lettera sull'umanismo), poi in Italia. Questo sdoganamento (è il caso di dirlo, visto che comporta un passaggio di frontiere, e poi un ritorno in Germania attraverso la Francia e gli Stati Uniti) suscitava le ironie di un uomo di spirito come Junger, che osservava di aver trovato tutte le sue opere nella biblioteca di Mitterand, ma che del resto c'erano già tutte nella biblioteca di Hitler. Tuttavia, a mio parere, c'è un secondo motivo più determinante. Nel dopoguerra, è come se la sinistra avesse avocato a sé il monopolio del politico. Politica e sinistra erano coestensive, dunque ogni pensatore del politico, fosse pure il giurista di Hitler, come Schmitt, diventava fruibile a sinistra. E quello che l'analisi di Faye ha il merito di illustrare con chiarezza e profondità è l’intima struttura politica del pensiero di Heidegger, che lo rendeva particolarmente riciclabile in un’epoca iper-politica come il Sessantotto. La storia e la decisione sono l’unica realtà (cosa che era in sintonia con quel funesto antirealista che è stato Hitler, ma anche con quegli antirealisti più benintenzionati che proclamavano la necessità della immaginazione al potere), si tratta di combattere l’oggettività in nome della solidarietà, il freddo intellettualismo in nome del radicamento in una comunità di popolo: «Questo interrogare, attraverso cui il nostro popolo sopporta il proprio essere storico, lo patisce nel pericolo, lo conduce sino alla grandezza del suo compito, questo interrogare è il suo filosofare, la sua filosofia».

Un movimentismo filosofico che appare molto evidente nel seminario del ’34 omesso dalla «Opera completa» (che dunque, osserva giustamente Faye, è tale solo di nome) così come in un seminario su Hegel del medesimo periodo, dove l’intento fondamentale di Heidegger è politicizzare in massimo grado l’argomento, per cui, per illustrare la tesi della identità di razionale e reale, decreta che il Trattato di Versailles non è reale. L’insistenza sulla storicità, intesa come quel divenire che può giustificare qualunque cosa, è la chiave di volta del costruzionismo heideggeriano, che si traduce, in sostanza, in un trionfo della volontà di potenza. Quando i postmoderni hanno sostenuto che qualunque tesi e qualunque verità devono essere indicizzate alla loro epoca lo hanno fatto con intenti emancipativi, ma ripetevano l’argomento di Heidegger in difesa del Führerprinzip. Desideroso di trasferirsi a Monaco per stare più vicino a Hitler (come si legge nella corrispondenza con la Blochmann), forse almeno in una occasione ghost writer del Führer, Heidegger opera una continua trasposizione del presente nell’eterno, del politico nel metafisico, e viceversa.

E il fatto che nella seconda metà degli anni Trenta i riferimenti politici si diradino non va interpretato come una presa di distanza ma, proprio al contrario, come l’ottemperanza a una direttiva dall’alto. Il Ministero, preoccupato di una università in cui la fedeltà politica sembrava contare più del merito e in cui si improvvisavano corsi iper-politici (è per l’appunto il caso del seminario di Heidegger su Hegel, di cui gli studenti si erano lamentati) aveva chiesto argomenti più accademici. Il che non impedì a Heidegger incresciose allusioni. Come quando, commentando Nietzsche nel 1940, Heidegger si infiammò per l’avanzata dei carri armati di Guderian nella Francia arresa che dimostravano l’indigenza metafisica della patria di Cartesio. O quando, durante l’operazione Barbarossa, l’attacco all’est, scelse di commentare Hölderlin, che racconta il movimento dei tedeschi verso il Danubio e dice che «lo spirito ama la colonia».

Ma l’esempio più clamoroso di cortocircuito tra l’eterno e il presente è la circostanza, segnalata da Faye, per cui il tempio greco di cui Heidegger parla in L’origine dell’opera d’arte sembra sia stato, nelle prime versioni pubbliche della conferenza, lo Zeppelinfeld di Norimberga, allestito in stile classicheggiante (si ispirava all’altare di Pergamo) per accogliere il discorso di Hitler, che evidentemente Heidegger identificava con il divino. Il che – sia detto di passaggio – getta una luce inquietante sulla sua dichiarazione del 1966 secondo cui «ormai solo un Dio ci può salvare». La denazificazione di Heidegger ha avuto tante vie. Anzitutto quella storicogrammaticale, per cui a leggerlo bene, a capirlo e a metterlo in contesto, si scioglierebbero tutti gli equivoci. Così François Fédier, che negli Scritti politici di Heidegger postilla la chiusa della allocuzione del 17 maggio 1933 in cui Heidegger scrive: «Alla nostra grande guida, Adolf Hitler, un Sieg Heil tedesco» con parole che sembrano uno scherzo di cattivo gusto: «Ancora oggi l’espressione ‘Ski Heil’ – senza la minima connotazione politica – viene impiegata, tra sciatori, per augurarsi una buona discesa» (p. 329 della traduzione italiana, Casale Monferrato, Piemme 1998). Ma c’è anche stata – e continua a esserci, per strano che possa apparire – una via mistico-allegorica, che traducendo in modo incomprensibile il gergo heideggeriano produce una denazificazione per confusione. Come ad esempio nel caso del brano riportato più sopra, che è stato reso non trent’anni fa, bensì l’anno scorso, come segue:«Questo interrogare, nel quale il nostro popolo aderge il suo geniturale adessere, ossia lo tiene erto per entro la tentazione e fa sì che esso si erga nell’extraneum della nobiltà del suo incarico, questo interrogare è il suo filosofare, la sua filosofia» (Che cos'è la verità? edizione italiana a cura di Carlo Gotz, Milano, Christian Marinotti edizioni, 2011). Con questa ermeneutica anche gli ordini di un Sonderkommando sul fronte orientale possono esser trasformati in poemi simbolisti o in ricette di cucina. A rompere le uova nel paniere fu però proprio Heidegger, che – come dimostra Faye con analisi rigorose e pazienti – reinserì brani compromettenti nell’edizione delle sue opere che incominciarono a uscire nel 1975, un anno prima della morte. Malgrado questo Gianni Vattimo, recensendo il libro di Faye (Tuttolibri, 2/6/2012), sostiene che Heidegger era nazista ma non razzista. Vien quantomeno da chiedersi: ammesso e non concesso che si possa dare il caso di un nazista non razzista, non è già abbastanza grave essere stati nazisti e continuare a esserlo, come riconosce Vattimo quando con approvazione osserva che Heidegger non ha voluto essere un filosofo «democratico» (tra virgolette, e ci si chiede perché) e «disciplinatamente atlantico»? A occhio si direbbe che è grave, molto grave. A meno che non ci si ponga sulla stessa lunghezza d'onda di un volume citato da Faye, Revolutionary Saints. Heidegger, Noational Socialism and Antinomian Politics di Christopher Rickey (Pennsylvania, UP 2002), in cui legge: «Per quanto scioccante possa essere questa suggestione per la nostra sensibilità morale, la nostra integrità intellettuale ci obbliga a domandarci se il nazionalsocialismo non rappresenti la risposta autentica alla questione di come dovremmo vivere».

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