La pagina bianca

 

MICAELA LATINI

LA PAGINA BIANCA
Thomas Bernhard e il paradosso della scrittura


Mimesis Edizioni, Milano–Udine, 2010

 

 Roma, Urbino e Vienna. Attualmente insegnaIl possibile e il ginale. Studio su Ernst
Questo volume, ripercorrendo i luoghi nei quali Thomas Bernhard, attraverso i suoi personaggi, s’interroga sulla questione della scrittura e del suo “insuccesso”, intende gettare luce sulle potenzialità del “fallimento” stesso, che può essere considerato come un’occasione per ripensare la parola in tutto il suo spessore teoretico e come serbatoio di un senso possibile. Lo scacco nell’impresa di scrittura dell’opera della propria vita è la condizione di possibilità del darsi del successo, così come il silenzio è l’orizzonte della parola stessa, e non la sua negazione. All’interno di queste coordinate si colloca, nel pensiero narrativo di Bernhard, il tema centrale e ricorrente del compito della scrittura, che deve essere eseguito, pur essendo ineseguibile. Quel che gli antieroi bernhardiani si ritrovano di fronte è sempre la pagina bianca: un luogo che è assenza di parola, ma anche uno spazio d’interrogazione sulla propria origine. Se guardato in controluce e da una giusta angolazione prospettica, quel “foglio bianco” si profila come il punto di incontro (e di scontro) di una costellazione di temi: il rapporto tra esistenza e morte, tra compito e origine, tra verità e menzogna, tra partecipazione (alla vita) e rappresentazione (della vita), tra estinzione e produzione, tra memoria e oblio.


INTRODUZIONE

         Questo libro è dedicato ad analizzare il tema del fallimento della scrittura nell'opera letteraria di Thomas Bernhard (1931-1989), a partire da La Fornace (1970), attraverso Cemento (1982) fino a Estinzione (1986) e senza tralasciare testi meno noti ma significativi, romanzi brevi come Ja e Ungenach, o racconti come Die Mütze. Ripercorrendo i luoghi nei quali Bernhard attraverso i suoi personaggi si interroga sulla questione della scrittura e del suo insuccesso, si intende gettare luce sulle potenzialità del fallimento stesso, che non può essere considerato alla stregua di un’impotenza creatrice, quanto piuttosto come un’occasione per ripensare la parola in tutto il suo spessore teoretico, come serbatoio di senso possibile. L’inevitabile scacco nell’impresa della propria vita è la condizione di possibilità del darsi del successo, così come il silenzio è l'orizzonte della parola stessa, e non la sua negazione. Da questo punto di vista si spiega anche il dannarsi dei personaggi bernhardiani nel loro compito, ovvero nel tentativo di cogliere - come sostiene Garroni - un «senso irraggiungibile e tuttavia inevitabile, del senso che è immediatamente non-senso e del non-senso che è, deve essere in qualche modo immediatamente senso». È proprio il dualismo perenne tra questi due poli a restituire le coordinate entro le quali deve essere collocato, nel pensiero narrativo bernhardiano, il tema centrale e ricorrente del compito, che deve essere eseguito ma che di fatto si rivela ineseguibile. Il fallimento dell’opera si impone all’attenzione come il motivo cardine della poetica di Bernhard: “la più forte immagine di senso nei suoi romanzi privi di immagini”. Ecco allora che il rapporto tra opera e fallimento costituisce un referente esemplare rispetto ad alcune questioni di evidente risonanza e attualità: il rapporto tra parola e silenzio, tra arte e vita, e in primo luogo lo scambio di maschere tra senso e non-senso. Questi motivi si stringono intorno al nodo problematico della scrittura, che non riesce a darsi e che tuttavia deve darsi. Ciò che Bernhard intende focalizzare, attraverso la difficoltà della stesura di un testo, è l'impossibilità da arte dell'opera di redimere l'esistenza umana, destinata comunque a quel fallimento inevitabile che è la morte. In quella strategia dei contrari che Bernhard tratteggia, tra le conseguenze del successo e quelle del fallimento non sussiste un grande divario. Se, come nella Fornace, l'insuccesso ha per esito una serie di drammatici eventi, la riuscita in Estinzione - con la stesura della stessa Estinzione - non può che essere coronata dall’eclissarsi dell'autore dell'opera. Riuscire a portare a termine il proprio compito significa darsi scacco matto, proprio perché segnala il venire meno di quel tratto umano per eccellenza che è l'incompletezza, l'errore, il frammento. “È tutto ridicolo se si pensa alla morte”. E di fatto il processo del “minimo passaggio” dalla immagine interna alla immagine esterna è accompagnato, in tutta la sua tragicità, da un alone di commedia. Nonostante, e proprio in ragione dei continui ed estenuanti tentativi di mettere su carta un lavoro perfetto e totale, quel che i personaggi di Bernhard si ritrovano davanti agli occhi è sempre e comunque “qualcosa di ridicolo”, che merita solo di rifluire nel cestino della cartastraccia. La difficoltà della scrittura sta nel fatto che la grande idea che è nella loro mente recalcitra di fronte a ogni maldestro tentativo di un suo trasferimento in opera scritta. Quel che gli antieroi bernardiani si ritrovano di fronte è sempre la pagina bianca: un luogo che è assenza di parola, ma anche uno spazio d’interrogazione sulla propria origine e quindi teatro di una guerra ingaggiata tra il sé e il proprio orizzonte di appartenenza. Non è un caso se a fare problema in tutte e tre i casi è proprio l'incipit, ossia il punto di strappo dal silenzio alla parola. Il rischio del fallimento è sempre in agguato, una spada di Damocle che inevitabilmente incombe sull’umano pensare e agire.

Se guardato in controluce e da una giusta angolazione prospettica, quel “foglio bianco” che, a dispetto dei tanti sforzi, i personaggi bernhardiani si trovano costantemente davanti agli occhi, si profila come il punto di incontro (e di scontro) di una costellazione di temi: il rapporto tra esistenza e morte, tra compito e origine, tra verità e menzogna, tra partecipazione (alla vita) e rappresentazione (della vita), tra estinzione e produzione, tra memoria e oblio. Nei tre romanzi di Bernhard La Fornace, Cemento, Estinzione - presi in esame esemplarmente proprio all’interno di questa cornice e in un costante confronto con altri testi - il motivo del fallimento della scrittura si dispone proprio lungo un ideale filone che va dal fallimento alla realizzazione dell'opera. Ma come inevitabile in Bernhard, anche chi riesce, il protagonista di Estinzione, Murau, paga lo scotto del successo con la rinuncia alla propria vita. Rappresentare se stessi implica infatti una presa di distanze dal proprio sé, dalla propria origine, fino a quel gesto estremo di una “poetica della cancellazione” della eredità che è anche eclissi del sé. È tuttavia solo accettando le estreme conseguenze implicite nel processo della scrittura (il silenzio), che si fa possibile uscire dall'oblio, elaborare l'origine e restituire la voce a quanti sono stati ridotti al silenzio. La scrittura si profila per Bernhard come una poetica della resistenza: quell'horror vacui che è la paura della pagina bianca altro non è se non il timore ancestrale e reverenziale nei confronti della propria origine (da intendersi in senso ampio, come famiglia, come tradizione culturale, come istituzione, insomma come qualcosa che ci è così vicino da impedire il pensiero autonomo). Lo sforzo al quale i personaggi di Bernhard si sottomettono è chiaramente una metafora della fatica di vivere ala ricerca di un senso. Scrivere (in quanto compito della propria vita) significa, infatti, assumersi l'onere di levare la propria voce contro quell'imbavagliamento, quella riduzione al silenzio, che il vincolo all'orizzonte di appartenenza (il complesso dell'origine) può rappresentare. Per questa ragione la resa dei conti con i cosiddetti altri è in Bernhard sempre una “distruzione che edifica” e che, per darsi, deve necessariamente passare anche attraverso la scrittura del sé come “edificazione che distrugge”. Sono queste le coordinate interpretative offerte dal tracciato bernhardiano.

Nel primo capitolo, dedicato alla Fornace (1970), si affronta il tema del tentativo di stesura di un'opera totalizzante (il saggio su “l'Udito”). La volontà di afferrare l'assoluto comporta per il protagonista del romanzo, Konrad, una serie di condizioni disumane, incentrate sulla fuoriuscita della sua stessa persona dall'ambito dell'umano-contingente (dallo spazio, dal tempo, da ogni connotazione affettiva). Lo scacco al quale va inevitabilmente incontro attraverso la sua insensata sottomissione al saggio, è proprio dovuto all'eccessivo riguardo nei confronti della propria opera assoluta (e contrapposto all'assoluta spietatezza nei riguardi del contingente), in una sorta di “metafisica della tragedia” di lukácsiana memoria. Ciò che resta di questa opera ambiziosa è solo il resoconto degli atti del processo contro Konrad dopo che questi ha ucciso la moglie: un verbale approntato in modo lacunoso e frammentario attraverso le testimonianze (voci di voci, echi di echi) di alcuni conoscenti dell’aspirante scrittore, uxoricida. 

Con il secondo capitolo, incentrato sul romanzo breve (o racconto lungo) Cemento (1982), viene guadagnata una tappa importante in direzione dell'autonomia dell'opera. Anche in questo caso l'opera definitiva e totalizzante (su Mendelssohn Bartholdy) non viene scritta, ma della voce del protagonista restano una serie di appunti (riportati da un anonimo destinatario del messaggio di Rudolf) che testimoniano i deliranti tentativi di scrittura dell'opera. Sarà l'incontro con la morte - il cemento è anche riferito ai loculi del cimitero - attraverso la tragica vicenda di una giovane donna incontrata a Palma, a spingere Rudolf in direzione della scrittura come viatico per uscire dall'oblio (la cripta nella quale si era volontariamente rintanato nell'intento di realizzare l'opera definitiva). Non si tratta più di scrivere l’opera su Mendelssohn Bartholdy, quanto di testimoniare il paradosso della scrittura, che poi fa tutt’uno con l’affrontare il paradosso dell’esistenza stessa, da vivere in tutta la sua insensatezza. In questo senso, le pagine di Cemento (molto vicine alle posizioni di Beckett) presentano un processo di elaborazione del sé, che fuoriesce da sé, e si appella - per dirla con Gargani - al filtro creativo di un altro: l’anonimo portavoce delle parole di Rudolf. 

Al terzo e ultimo capitolo è affidata l’analisi del processo di scrittura radicale prospettato da Bernhard in Estinzione: un percorso estremo di smantellamento della propria origine attraverso la memoria. La penna assume qui il ruolo di un'ascia con la quale viene fatta a pezzi, svuotata di senso, la propria appartenenza (storia, famiglia, tradizione, cittadina di Wolfsegg). Al centro del romanzo si colloca, infatti, un “ritorno all’origine” che è anche un attacco all’origine attraverso la scrittura sull’origine. In Estinzione la definitiva resa dei conti del protagonista, Franz Josef Murau, con il proprio microcosmo individuale investe anche le questioni cruciali del macrocosmo storico. L’elaborazione del lutto familiare significa affrontare la barbarie nazista, fino ad estinguere, fibra dopo fibra, il legame con l’origine. Inevitabilmente, dalla disintegrazione di questo reticolato all'autoestinzione dell'autore, Franz Josef Murau, il passo è breve. Ma ciò che resta è la consapevolezza che dal vincolo con l'origine ci si può affrancare, almeno nella finzione letteraria (come ribadisce Schmidt-Dengler), solo al caro prezzo di una rinuncia del proprio sé. Non è forse un caso se Estinzione, pur non essendo l'ultima opera di Bernhard, sia stata l'ultima, per autonoma decisione: una sorta di opera summa, di pagine postume pubblicate in vita, che non solo racchiudono in sé i punti nevralgici degli altri scritti, ma si configurano anche come una riflessione sul rapporto tra il processo di scrittura di Bernhard e il suo ambivalente, sofferto legame con la propria patria.   

 Micaela Latini

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