Benjamin: la critica della violenza
Walter Benjamin Per la critica della violenza (1920-1921?)
(da Walter Benjamin Gesammelte Schriften, vol. II.1, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser,
Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1999, pp. 179-204)
Traduzione dal tedesco di Antonello Sciacchitano
Si può circoscrivere il compito della critica della violenza esponendo il rapporto tra violenza da una parte e giustizia e diritto dall’altra. Infatti, una causa effettiva diventa sempre violenta, nel senso pregnante della parola, solo quando incide sui rapporti morali. La sfera di questi rapporti è data dai concetti di diritto e giustizia. Per quanto riguarda il diritto è chiaro in primo luogo che ogni ordinamento giuridico si fonda sul rapporto più elementare tra fini e mezzi. In secondo luogo è altrettanto chiaro che la violenza può trovarsi solo nell’ambito dei mezzi e non dei fini. Già queste constatazioni rappresentano per la critica della violenza qualcosa di più e di diverso di quanto non sembri a prima vista. Infatti, ammesso che la violenza sia un mezzo, sembrerebbe che il criterio della sua critica sia già dato. Si pone il problema se in determinati casi la violenza sia sempre mezzo per fini giusti o ingiusti. In un sistema di fini giusti la sua critica sarebbe data implicitamente. Ma non è così. Infatti, anche ammettendo che sia al riparo da ogni dubbio, tale sistema conterrebbe non tanto un criterio della violenza stessa come principio quanto un criterio per i casi di applicazione.
Rimarrebbe aperto il problema se in generale e in linea di principio sia morale la violenza in sé come mezzo per realizzare fini giusti. Per decidere la questione occorre un criterio più stringente, una differenziazione all’interno della sfera dei mezzi, indipendentemente dai fini cui servono. L’esclusione di questa più esatta impostazione del problema caratterizza una grande corrente di filosofia del diritto, di cui costituisce forse il tratto distintivo più spiccato: il diritto naturale. Nell’impiego di mezzi violenti a fini giusti esso vede tanto poco un problema quanto l’uomo che si sente in “diritto” di muovere il proprio corpo verso la meta cui tende. Secondo tale concezione (che servì da base ideologica al terrorismo della rivoluzione francese) la violenza è un prodotto della natura, una sorta di materia prima, il cui uso non presenta problemi, finché non diventa un misuso per fini ingiusti. Se nella teoria giusnaturalistica dello Stato le persone rinunciano a tutto il loro potere a favore dello Stato, ciò avviene nel presupposto, esplicitamente stabilito per esempio da Spinoza nel Trattato teologico-politico [capp. XVI e XVII], che il singolo in sé e per sé e prima della conclusione di questo contratto adeguato alla ragione eserciti anche de jure ogni e qualsiasi potere che detenga de facto. Forse queste concezioni sono state successivamente fatte rivivere dalla biologia di Darwin, che in modo completamente dogmatico, secondo il principio della selezione naturale, considera la violenza solo come strumento originario e adeguato a tutti i fini vitali della natura.1 La volgarizzazione della filosofia darwiniana ha mostrato spesso quanto sia piccolo il passo che separa questo dogma naturalistico da quello ancora più rozzo della filosofia del diritto, secondo cui la violenza adeguata quasi esclusivamente a scopi naturali è anche giuridicamente legittima.
Diametralmente opposta alla tesi giusnaturalistica della violenza come dato naturale è quella del diritto positivo, che intende il potere come fatto che diviene nella storia. Come il diritto naturale può giudicare ogni diritto esistente criticando gli scopi, così il diritto positivo può giudicare ogni diritto in divenire criticando i suoi mezzi. Se la giustizia è il criterio dei fini, la legalità è il criterio dei mezzi. Ma, nonostante questo contrasto, le due scuole si ritrovano d’accordo sul comune dogma di base: fini giusti possono essere raggiunti con mezzi legittimi, mezzi legittimi possono essere applicati a fini giusti. Attraverso la giustizia dei fini il diritto naturale tende a “giustificare” i mezzi; attraverso la legittimità dei mezzi il diritto positivo tende a “garantire” la giustizia dei fini. L’antinomia si rivelerebbe insolubile qualora il comune presupposto dogmatico fosse falso e i mezzi legittimi, da una parte, e i fini giusti, dall’altra, stessero in inconciliabile contrasto. La comprensione sarebbe qui impossibile finché non si abbandoni il circolo vizioso e non si pongano principi reciprocamente indipendenti per fini giusti e mezzi legittimi.
Per ora da questa ricerca resta escluso il campo dei fini e, quindi, la questione del criterio di giustizia. Al centro si pone, invece, il problema della legittimità di certi mezzi che costituiscono violenza. I principi giusnaturalistici non possono decidere su questo problema ma solo spostarlo in una casistica senza fine. Infatti, mentre il diritto positivo è cieco per l’incondizionatezza dei fini, il diritto naturale è cieco per la condizionatezza dei mezzi. Per contro si può assumere come punto di partenza della ricerca la teoria positiva del diritto perché presuppone una differenziazione di fondo dei vari tipi di violenza, indipendentemente dai casi di applicazione. La distinzione ha luogo tra violenza riconosciuta storicamente, la cosiddetta violenza sancita [come potere], e violenza non sancita. Anche se le prossime meditazioni prendono le mosse da questa distinzione, naturalmente ciò non significa che le violenze date siano automaticamente classificate come sancite o non. Infatti, nella critica della violenza il criterio di diritto positivo non può subire una pura e semplice applicazione, ma molto di più un giudizio su di sé. Si tratta di vedere quali conseguenze per l’essenza della violenza derivino dalla possibilità di fissare in generale tale criterio o differenza, o in altri termini si tratta di stabilire quale sia il senso di tale distinzione di diritto positivo. Infatti, vedremo abbastanza presto che essa è sensata, perfettamente fondata in se stessa e non sostituibile da alcun altra, ma al tempo stesso sarà fatta luce su quella sfera in cui solamente essa può aver luogo. Insomma, se il criterio stabilito dal diritto positivo può essere analizzato solo essere analizzato solo secondo il suo senso, la sua sfera di applicazione va critica secondo il valore di tale distinzione. Per tale critica occorre quindi trovare un criterio esterno sia alla filosofia positiva del diritto sia al diritto naturale. Stabiliremo in che misura solo la trattazione del diritto dal punto di vista della filosofia della storia possa fornire tale criterio.
Il senso della distinzione tra violenza legittima e illegittima non è immediatamente a portata di mano. Bisogna decisamente guardarsi dall’equivoco giusnaturalista, che riconduce tutto il senso alla differenza tra violenza per scopi giusti e ingiusti. Piuttosto si era già accennato al fatto che il diritto positivo esige da ogni potere l’attestato della sua origine storica, da cui a certe condizioni ottiene la legittimità e la sanzione. Dato che il riconoscimento dei poteri giuridici si dimostra nel modo più tangibile nell’assoggettamento fondamentalmente senza resistenze ai loro fini, come base ipotetica per la suddivisione dei poteri si potrebbe porre la presenza o l’assenza del riconoscimento generale dei loro scopi. I fini che mancano di tale riconoscimento potranno esser detti di natura, gli altri fini di diritto. E la diversa funzione della violenza, a seconda che serva a fini di natura o di diritto, si può sviluppare nel modo più evidente sulla scorta di qualunque sistema di rapporti giuridici determinati. Per semplicità le considerazioni che seguono si riferiranno agli attuali rapporti europei.
Per quanto riguarda la singola persona come soggetto di diritto, tali rapporti giuridici si caratterizzano per la tendenza a non ammettere per la persona singola fini di natura in tutti i casi in cui potrebbero essere all’occasione perseguiti con la violenza. Vale a dire che, in tutti i campi in cui i fini delle singole persone potrebbero essere perseguiti coerentemente con la violenza, questo ordinamento giuridico sistema tende a imporre il perseguimento di fini giuridici che possono essere realizzati in questo modo solo dal potere giuridico. Anzi impone la riduzione a fini giuridici anche in quei campi, come nell’educazione, dove in linea di principio i fini naturali sono consentiti entro ampi limiti, non appena essi vengano perseguiti con un grado eccessivo di violenza, come nelle leggi sui limiti della punizione educativa. Per le legislazioni europee vigenti si può enunciare la seguente massima generale: quando vengano perseguiti con violenza più o meno grande, tutti i fini naturali delle singole persone devono necessariamente entrare in collisione con i fini giuridici. (La contraddizione del diritto alla legittima difesa dovrebbe spiegarsi da sé nel corso della trattazione seguente.) Dalla massima consegue che l’ordinamento giuridico considera pericoloso il diritto nelle mani della singola persona. Sarebbe il pericolo di vanificare i fini giuridici e l’esecutivo giuridico? Certo che no, perché allora non sarebbe condannata la violenza allo stato puro ma solo quella rivolta a fini contrari a quelli giuridici. Si dirà che un sistema di fini giuridici non potrebbe mantenersi, se in qualche punto i fini naturali potessero essere ancora perseguiti con la violenza. Ma per ora questo è solo un dogma. Per contro si dovrebbe forse prendere in considerazione la sorprendente possibilità che l’interesse del diritto a monopolizzare la violenza rispetto alla singola persona non si spieghi con l’intenzione di difendere i fini giuridici ma il diritto stesso. La violenza non in mano al diritto vigente lo minaccia non per i fini che essa persegue ma per la mera esistenza fuori del diritto. La stessa congettura si raccomanda ancora meglio ricordando quante volte già, per quanto ripugnanti abbiano potuto essere i suoi fini, la figura del “grande” delinquente ha suscitato la segreta ammirazione popolare. Non può essere per le sue azioni ma per la violenza di cui
testimoniano la possibilità. In questo caso la violenza, che il diritto tenta di sottrarre al singolo in
tutti i suoi campi di attività, insorge minacciosa e, pur soccombendo nel processo giudiziario, suscita la simpatia della folla contro il diritto. Per quale funzione la violenza possa – con valide ragioni – apparire al diritto tanto minacciosa da essere temuta, apparirà chiaro proprio nel caso in cui le è consentito di dispiegarsi anche nell’ordinamento giuridico attuale.
È questo il caso che si verifica nella lotta di classe nella forma di diritto di sciopero garantito ai lavoratori. L’organizzazione dei lavoratori è oggi accanto agli Stati praticamente l’unico soggetto giuridico cui spetti un diritto alla violenza. Contro questa concezione è naturalmente pronta l’obiezione che l’omissione dell’azione, il non agire, come lo sciopero ultimamente è, non dovrebbe essere definita violenza. Tale considerazione ha facilitato al potere statale la concessione del diritto di sciopero, quando era ormai inevitabile. Ma, non essendo incondizionata, tale concessione non vale illimitatamente. Certo, l’omissione di un’azione, o anche di un servizio, quando equivalga semplicemente a “rottura di rapporti”, può essere un puro mezzo, affatto privo di violenza. E come, secondo la concezione dello Stato (o del diritto), con il diritto di sciopero viene riconosciuto alle organizzazioni dei lavoratori non tanto un diritto alla violenza, quanto di sottrarvisi quando sia indirettamente esercitata dal datore di lavoro, così di quando in quando può naturalmente verificarsi un caso di sciopero che vi corrisponde e vuole solo mostrare “distacco” o “estraniamento” dal datore di lavoro. Ma in tale omissione il fattore di violenza interviene di necessità, precisamente come ricatto, solo quando si produce all’interno della disponibilità di principio a riprendere come prima l’esercizio dell’azione sospesa, a certe condizioni che o non hanno nulla a che fare con essa o la modificano solo esteriormente. In questo senso, secondo la concezione dell’organizzazione dei lavoratori, che si contrappone a quella dello Stato, il diritto di sciopero configura il diritto a usare la violenza per imporre certi scopi. La contrapposizione delle due concezioni è nettissima nello sciopero generale rivoluzionario. Là l’organizzazione dei lavoratori si richiamerà costantemente al
proprio diritto di sciopero. Lo Stato risponderà che tale richiamo è un abuso, perché il diritto allo
sciopero non va inteso “così”, ed emanerà i propri decreti speciali. Infatti, lo Stato è libero di dichiarare illegittimo lo sciopero contemporaneo in tutte le aziende, non avendo ognuna di loro la propria particolare occasione, presupposta dal legislatore. In questa differenza di interpretazione si esprime la contraddizione oggettiva della situazione giuridica per cui lo Stato riconosce una violenza, ai cui scopi, essendo naturali, è a volte indifferente, ma in situazioni serie, come nel caso dello sciopero generale rivoluzionario, è decisamente ostile. Infatti, per quanto possa apparire paradossale, in certe condizioni va considerato violento anche un comportamento assunto nell’esercizio di un diritto. I casi sono due. Se tale comportamento è attivo, lo si può chiamare violento, quando esercita un diritto, che gli compete, per rovesciare il sistema giuridico che pure gli conferisce tale diritto. Se tale comportamento è passivo, non sarà meno violento in quanto ricattatorio nel senso considerato sopra. Ciò testimonia solo una contraddizione di fatto nella situazione giuridica, non una contraddizione logica nel diritto di opporsi, a certe condizioni, con violenza agli scioperanti in quanto agenti di violenza. Infatti, nello sciopero lo Stato teme più di tutte le altre proprio quella violenza che la nostra indagine si propone di determinare come unico fondamento sicuro della sua critica. Infatti, se la violenza fosse, come parrebbe a prima vista, un mero mezzo per assicurarsi immediatamente ciò cui si tende, realizzerebbe il proprio scopo solo come violenza di rapina. Essa sarebbe pertanto del tutto inutilizzabile per fondare o modificare rapporti [sociali] in modo relativamente stabile. Ma lo sciopero mostra che essa lo può fare e che è in grado di fondare e modificare i rapporti giuridici, anche quando il sentimento di giustizia ne
risulti offeso. Si obbietterà che tale funzione è casuale e isolata. La trattazione della violenza di guerra sarà la sua controobiezione. La possibilità del diritto di guerra poggia esattamente sulla stessa contraddizione di fatto esistente nella situazione giuridica data dal diritto di sciopero, cioè dal fatto che i soggetti giuridici sanciscono poteri i cui fini restano per loro naturali ma in casi gravi possono entrare in conflitto con i fini naturali o giuridici. In ogni caso la violenza bellica si dirige verso i propri scopi in modo del tutto diretto e come violenza di rapina. Ma è quanto meno sorprendente che anche – o piuttosto
proprio – in comportamenti primitivi che conoscono appena gli inizi del diritto pubblico, addirittura
quando il vincitore ha acquisito un possesso inattaccabile, si esiga la cerimonia di pace. Anzi la parola “pace”, correlata al significato di “guerra” (perché esiste anche un significato del tutto diverso, non metaforico e politico, quello in cui Kant parla di “pace perpetua”), indica proprio la necessità a priori di sanzionare ciascuna singola vittoria, indipendentemente dal restante diritto. La sanzione consiste nel riconoscere i nuovi rapporti come nuovo “diritto”, indipendentemente dal fatto che abbisognino o no, de facto, di qualsiasi garanzia per la loro sussistenza. In ogni violenza del genere – ammesso di poter generalizzare dalla violenza bellica, in quanto originaria e archetipica, a ogni violenza per fini naturali – interviene un carattere di istituzione giuridica. In seguito dovremo tornare sulla portata di questa conoscenza, che spiega la citata tendenza del diritto moderno a togliere ogni violenza, anche solo se rivolta a fini naturali, alla persona singola come soggetto giuridico. Nel grande delinquente questa violenza si contrappone al diritto [vigente] con la minaccia di istituire un nuovo diritto, di fronte al quale ancora oggi come nei tempi andati il popolo, pur impotente, rabbrividisce. Ma lo Stato teme in modo assoluto questa violenza istitutrice di diritto, tanto quanto deve riconoscerla come tale quando le potenze esterne lo costringono a concedere il diritto di entrare in guerra o le classi il diritto di scioperare.
Nell’ultima guerra la critica della violenza militare è diventata punto di partenza per una critica
appassionata della violenza in generale, dimostrando se non altro che non è più né esercitata né
tollerata ingenuamente. Tuttavia, la violenza non è stata oggetto di critica in quanto istitutrice di
diritto, ma è stata giudicata forse in modo ancora più distruttivo rispetto ad un’altra funzione. Una
duplicità nella funzione della violenza è, infatti, tipica del militarismo, che ha potuto formarsi solo
con la generalizzazione del servizio militare obbligatorio. [Per definizione] il militarismo è la
l’applicazione coercitiva e generalizzata della violenza come mezzo per i fini dello Stato. L’uso
coatto della violenza è stato di recente giudicato con forza pari o maggiore dell’uso stesso della
violenza, [perchè] in esso la violenza appare in un’altra funzione, diversa dal suo semplice impiego
per fini naturali. Si tratta dell’uso della violenza per come mezzo per fini giuridici. Infatti, la
sottomissione dei cittadini alla legge – nel caso alla legge del servizio militare obbligatorio
generalizzato – è un fine giuridico. Se la prima funzione della violenza è istitutrice di diritto, la
seconda si può definire conservatrice del diritto. E, poiché il servizio militare obbligatorio non è in
linea di principio altro che un caso di violenza conservatrice del diritto, la critica decisiva non è
affatto facile come nelle loro declamazioni immaginano i pacifisti e gli attivisti. Coincide piuttosto
con la critica di tutto il potere giuridico, esecutivo e legislativo insieme, irrealizzabile con un
programma minore. Evidentemente, a meno di non proclamarsi degli anarchici infantili, non è
realizzabile neppure non riconoscendo alcuna coercizione personale e dichiarando che “è permesso
quel che piace”. Tale massima distoglie dal riflettere sulla sfera storico-morale e quindi sul senso di
ogni azione, fino in generale a quel senso della realtà, che non si costituisce se si strappa l’“azione”
dal suo ambito [simbolico]. Ancora più importante sarebbe [riconoscere] che il tentativo così
frequente di rifarsi all’imperativo categorico, pur completato dal suo programma minimale –
“Agisci in modo da trattare l’umanità che è in te e in ogni altra persona sempre come scopo e mai
come mezzo” – è in sé insufficiente a tale critica.2 Infatti, il diritto positivo, se consapevole delle
proprie radici, pretenderà senz’altro di riconoscere e di promuovere l’interesse dell’umanità in ogni
singola persona, scorgendo tale interesse nel presentare e nel conservare l’ordine del destino. Se è
vero che difficilmente quest’ordine (che a ragione il diritto afferma di conservare) può sfuggire alla
critica, è anche vero che nei suoi confronti resta tuttavia impotente ogni impugnazione che si muova
solo in nome di una “libertà” informe, senza riuscire a definire un ordine superiore di libertà. E
tanto più impotente se non impugna l’ordinamento giuridico stesso in toto e nelle sue parti, ma solo
le singole leggi e consuetudini giuridiche. Infatti, è naturale che il diritto ponga le singole leggi
sotto la custodia del suo potere, il quale consiste nell’esistenza di un solo e unico destino e
nell’irrevocabile appartenenza al proprio ordinamento dell’esistente e perfino di ciò che lo
minaccia. Infatti, il potere conservatore del diritto è anche potere che minaccia. E la sua minaccia
non ha il senso dell’intimidazione, come l’interpretano teorici liberali mal istruiti. All’intimidazione
in senso proprio appartiene una determinatezza che contraddice l’essenza della minaccia e che
nessuna legge raggiunge, dato che si spera sempre di farla franca. La legge appare tanto più
minacciosa quanto più assomiglia al destino, da cui ultimamente dipende se il delinquente incorre
nei suoi rigori. Il senso più profondo della minaccia giuridica si dischiude solo nella successiva
analisi della sfera del destino, da cui emerge. Un valido riferimento ad essa si trova nel campo delle
pene. Tra le quali, da quando è stato messo in questione il valore del diritto positivo, la pena di
morte è quella che ha più di ogni altra suscitato critiche. Gli argomenti apportati non sono stati nella
maggioranza dei casi così decisivi quanto di principio sono e sono stati i motivi. I suoi critici
avvertivano, senza poterlo giustificare e forse addirittura senza volerlo sentire, che la contestazione
della pena di morte non concerne la misura punitiva e neppure la legge ma il diritto stesso alla sua
origine. Infatti, se il diritto origina dalla violenza – dalla violenza coronata dal destino – è lecito
supporre che al livello massimo di potere, quella cioè sulla vita e sulla morte, là dove esso entra a
far parte dell’ordinamento giuridico, le sue origini affiorino ben rappresentate e si manifestino
paurosamente proprio nella realtà attuale. Con ciò concorda che la pena di morte, in condizioni
giuridiche primitive si applichi a delitti, come la violazione della proprietà, per cui appare
decisamente “fuori misura”. Il suo senso, allora, non è di punire l’infrazione giuridica, ma di
statuire il nuovo diritto. [Il senso della pena di morte non è nell’enunciato della legge ma nella
possibilità di enunciarla]. Infatti, l’esercizio del potere di vita o di morte rinforza il diritto stesso più
di qualsiasi altra messa in atto del diritto. Ma proprio lì alla sensibilità più raffinata si annuncia nel
modo più evidente qualcosa di guasto nel diritto, sapendo quanto questo sia infinitamente lontano
dalle condizioni in cui il destino si sarebbe mostrato in tutta la sua maestà in atto. Ma l’intelletto
deve tentare di avvicinarsi a tali condizioni e tanto più decisamente quanto più mira a criticare in
modo conclusivo non solo la violenza che conserva ma anche quella che instaura il diritto.
In modo ancora più innaturale che nella pena di morte, mescolate quasi in modo spettrale, queste
due forme di violenza sono presenti in un’altra istituzione dello Stato moderno: la polizia. La quale
è certo un potere a fini giuridici (con diritto di disporre), ma anche con la contemporanea
autorizzazione ad allargarli entro limiti molto ampi (con diritto di ordinare). Il colmo dell’ignominia
– che per altro viene avvertita solo da pochi, anche perché solo raramente essa si autorizza a
raggiungere i livelli di intervento più grossolani, potendo naturalmente operare tanto più alla cieca
nei settori più vulnerabili e contro le persone che sanno, di fronte alle quali le leggi non bastano a
difendere lo Stato – questa autorità lo raggiunge nel momento in cui sopprime la divisione tra i due
poteri di porre e di conservare il diritto. Se dal primo potere si esige di dimostrare di aver vinto, il
secondo deve limitarsi nel proporsi nuovi fini. Il potere poliziesco si emancipa da entrambe le
condizioni. Esso è potere che instaura il diritto – la cui funzione caratteristica non è promulgare le
leggi ma dispensarsene in ogni modo, con decreti emanati con forza di diritto – ed è potere che
conserva il diritto, posto a disposizione di quei fini. L’affermazione che i fini del potere poliziesco
siano sempre identici o anche solo connessi a quelli del restante diritto è completamente falsa. Anzi,
il “diritto” della polizia mostra fino a che punto lo Stato, vuoi per impotenza, vuoi per le
connessioni immanenti a ogni ordinamento giuridico, non riesca più a garantirsi con l’ordinamento
giuridico il raggiungimento dei propri fini empirici che pur intende raggiungere a ogni costo. Perciò
la polizia interviene “per ragioni di sicurezza” in numerosi casi in cui non sussiste una situazione
giuridica chiara, quando non accompagna il cittadino come brutale vessazione senza alcun rapporto
con fini giuridici attraverso una vita regolata da ordinanze o addirittura non lo sorveglia. Al
contrario del diritto, che riconosce nella “decisione” spaziotemporale precisamente determinata hic
et nunc una categoria metafisica, attraverso cui si espone alla critica, il trattamento dell’istituto
poliziesco non incontra nulla di sostanziale. Il suo potere è informe come la sua presenza spettrale,
inafferrabile e diffusa per ogni dove nella vita degli stati civilizzati. Anche se nei dettagli la polizia
sembra dappertutto uguale, non si può alla fine misconoscere che il suo spirito è meno devastante là
dove rappresenta, come nella monarchia assoluta, il potere del sovrano, dove confluiscono
pienamente il potere legislativo ed esecutivo, rispetto alle democrazie, dove la sua presenza, non
sostenuta da un simile rapporto, testimonia la massima degenerazione pensabile del potere.
In quanto mezzo [del potere] ogni violenza o instaura o conserva il diritto. Se rinuncia a
entrambi questi attributi, rinuncia da sé a ogni pretesa di validità. Ne consegue che, anche nei casi
più favorevoli, la violenza come mezzo rientra nella problematica del diritto in generale. E, anche
se a questo punto della ricerca non si intuisce ancora con certezza il significato di tale problematica,
da quanto detto il diritto appare in una luce morale tanto equivoca che sorge spontanea la domanda
se, per regolare i conflitti di interesse tra uomini, non vi siano altri mezzi che violenti. Essa ci
obbliga innanzitutto a costatare che una composizione affatto non violenta di un conflitto non può
mai sfociare in un contratto giuridico, perché per quanto affrontato pacificamente dai contraenti,
ogni contratto porta sempre in ultima istanza a una possibile violenza, nella misura in cui conferisce
alle parti il diritto di ricorrere a qualche forma di violenza contro l’altra, nel caso in cui questa
rompa il contratto. Non solo. Come l’uscita anche l’origine di ogni contratto rimanda alla violenza.
Non è necessario che essa sia immediatamente presente nel contratto come violenza che instaura il
diritto, ma vi è rappresentata nella misura in cui il potere che garantisce il contratto giuridico è per
parte sua di origine violenta, quando non si installi giuridicamente con la violenza nello stesso
contratto. Venendo meno la consapevolezza della presenza latente della violenza in un istituto
giuridico, esso decade. Di questi tempi un esempio è dato dai parlamenti, che presentano il noto e
desolante spettacolo, avendo perso coscienza delle forze rivoluzionarie, cui devono la loro
esistenza. In particolare in Germania anche le ultime manifestazioni di questa autorità è rimasta
senza effetti sui parlamenti. Manca loro il senso della violenza che instaura il diritto in essi
rappresentata. Non c’è da meravigliarsi che non arrivino a conclusioni degne di quell’autorità ma
curino in via compromissoria un modo di trattare gli affari politici supposto senza violenza. Ma,
“pur disdegnando la violenza aperta, il compromesso rimane un prodotto interno alla mentalità della
violenza, perché l’aspirazione al compromesso non è motivata da dentro ma da fuori, addiritura
dalla controaspirazione. Anche se liberamente accettato, ogni compromesso è impensabile senza
carattere coattivo. ‘Sarebbe meglio diversamente’ è il sentimento al fondo di ogni compromesso”.3
È significativo che la decadenza dei parlamenti abbia distolto dall’ideale della composizione non
violenta dei conflitti forse almento tante simpatie quante gliene aveva procurate la guerra. Ai
pacifisti si oppongono i bolscevichi e i sindacalisti, che hanno criticato gli odierni parlamenti in
modo micidiale ma sostanzialmente esatto. Per quanto auspicabile possa essere il confronto con un
parlamento prestigioso, è in linea di principio impossibile trattare del parlamentarismo discutendo
di mezzi non violenti di contratto politico. Infatti, ciò che in questioni vitali il parlamentarismo
ottiene non può essere altro che degli ordinamenti giuridici affetti da violenza dall’inizio alla fine.
È in generale possibile la composizione non violenta dei conflitti? Certo. I rapporti tra persone
private sono pieni di esempi. L’accordo non violento si realizza ovunque la cultura dei cuori metta a
disposizione degli uomini mezzi puri di intesa. Ai mezzi legittimi e illegittimi di ogni genere, che
pure tutti insieme sono violenti, possono contrapporsi come mezzi puri i mezzi non violenti.
Gentilezza d’animo, simpatia, amor di pace e quant’altro, sono la loro precondizione soggettiva. Ma
la loro manifastazione oggettiva è determinata dalla legge (la cui portata violenta non è qui in
discussione), non essendo mai i mezzi puri soluzioni immediate ma sempre e costantemente
mediate [dalla legge]. Non si riferiscono mai alla composizione immediata del conflitto tra uomo e
uomo ma solo alla via attraverso i dati di fatto. Nel riferimento più concreto ai conflitti umani sui
beni si apre il campo dei mezzi puri. Perciò il loro campo specifico è quello della tecnica nel senso
più ampio della parola. L’esempio più profondamente pertinente è forse la conversazione intesa
come tecnica della civile composizione. Infatti nella conversazione l’unificazione non solo è
possibile, ma la disattivazione in linea di principio della violenza è espressamente attestata da una
circostanza significativa: l’impunità della menzogna. Non c’è forse ordinamento legislativo sulla
terra che originariamente punisca la menzogna. Ciò significa che c’è una sfera a tal punto non
violenta di intesa umana affatto inaccessibile alla violenza: la vera e propria sfera dell’“intendersi”,
del linguaggio. Solo più tardi e in un tipico processo di decadenza la violenza giuridica penetra
anche in questa sfera, sottoponendo l’inganno a punizione. Infatti, mentre all’origine l’ordinamento
giuridico, confidando nella sua potenza vittoriosa, si limitava a colpire la violenza illegale, dove e
quando si mostra, e l’inganno, non avendo in sé nulla di violento, era considerato impunibile nel
diritto romano e nel tedesco antico, secondo il principio di base jus civile vigilantibus scriptum est,
rispettivamente occhio al denaro, il diritto dei tempi successivi, venuta meno la fiducia nella
propria forza, non si sentì come in precedenza in grado di confrontarsi con ogni violenza estranea. Il
timore di questa e la sfiducia in se stsso segnalano la sua crisi. Comincia con l’intenzione di
risparmiare le manifestazioni più forti della violenza che mantiene il diritto. Guarda all’inganno non
per considerazioni morali ma per timore di atti di violenza che potrebbe scatenare nell’ingannato.
Poiché tale timore contrasta con la natura originariamente violenta propria del diritto, finalità del
genere sono improprie per i mezzi legittimi del diritto. Esse annunciano il decadimento della loro
spfera propria, insieme a una riduzione dei mezzi puri. Infatti, vietando l’inganno, il diritto limita
l’uso di mezzi interamente non violenti, mettendo al loro posto mezzi che per reazione potrebbero
generare violenza. La suddetta tendenza del diritto ha anche contribuito alla concessione del diritto
di sciopero, che va contro gli interessi dello stato. Il diritto gli fa posto perché tiene a distanzi azioni
violenti che teme di affrontare. Prima infatti gli operai passavano subito al sabotaggio e all’incendio
delle fabbriche.
A prescindere da ogni virtù, per muovere gli uomini alla parificazione dei propri interessi al di
qua di ogni ordinamento giuridico c’è ultimamente un motivo efficace che anche alle volontà più
recalcitranti mette in mano i mezzi puri invece di quelli violenti per paura di svantaggi collettivi,
che minacciano di derivare dal confronto violento, qualunque sia il suo esito [cfr. principio
minimax della teoria dei giochi a somma zero secondo von Neumann: minimizzare la massima
perdita]. Che pure sono evidenti in numerosissimi casi di conflitto di interessi tra privati. Altrimenti,
quando confliggono classi e nazioni, cioè quando quegli ordinamenti superiori minacciano
[cadendo] di travolgere allo stesso modo il vincitore e il vinto, rimangono celati al sentimento dei
più e all’intelligenza di quasi tutti. In questo caso la ricerca di ordinamenti superiori e dei loro
corrispondenti interessi, che danno il motivo immediato di una politica dei mezzi puri, ci porterebbe
troppo lontano.4 Basti dunque accennare alla politica dei mezzi puri come all’analogo delle
transazioni pacifiche tra privati.
Per quanto concerne la lotta di classe, a certe condizioni, lo sciopero va considerato come mezzo
puro. Due forme essenzialmente diverse di sciopero, la cui possibilità è già stata presa in
considerazione, vanno esaminate più da vicino. A Sorel spetta il merito di averle distinte per primo,
sebbene più in termini politici che teorici, contrapponendo lo sciopero generale politico a quello
proletario, in quanto antitetici anche in rapporto alla violenza. – Per indurre gli uomini alla
composizione pacifica dei loro interessi al di qua di ogni ordinamento giuridico, c’è infine, a
prescindere da ogni virtù, una considerazione efficace che anche alla volontà più restia consiglia i
mezzi puri al posto di quelli violenti: il timore degli svantaggi comuni che potrebbero derivare dal
confronto violento, comunque vada a finire. Tali svantaggi sono evidenti in numerosi conflitti di
interessi tra privati ma, quando il conflitto è tra nazioni o classi, è diverso. In questo caso gli
ordinamenti superiori che minacciano di travolgere sia il vinto sia il vincitore rimangono nascosti al
sentimento dei più e all’intelligenza di quasi tutti. L’approfondimento di tali ordinamenti superiori e
dei loro corrispondenti interessi comuni, che rappresentano il motivo più valido per una politica dei
mezzi puri, ci porterebbe troppo lontano. Perciò basta l’accenno ai mezzi puri della politica come
l’analogo di quelli che governano i rapporti pacifici tra privati.
Per quanto riguarda le lotte di classe, lo sciopero va considerato, a certe condizione, come un
mezzo puro. Vanno altresì dettagliatamente distinti due tipi essenzialmente diversi di sciopero, la
cui possibilità abbiamo già ammesso. Sorel ha il merito di averli differenziati per primo più in base
a considerazioni politiche che teoriche, contrapponendo sciopero generale politico a sciopero
generale proletario, che sono antitetici anche in rapporto alla violenza. Dei partigiani del primo si
può dire che “a supporto delle loro concezioni sta il rafforzamento dell’autorità dello Stato. Nelle
loro attuali organizzazioni i politici, cioè i socialisti moderati, gettano le basi di un potere forte
centralizzato e disciplinato, che non si lascerà fuorviare dalle critiche dell’opposizione, saprà
imporre il silenzio ed emanare i propri decreti menzogneri…” “…Lo sciopero generale politico dimostra che lo Stato non perderebbe nulla della propria forza: il potere passerebbe da privilegiati a privilegiati e le masse dei produttori cambierebbero semplicemente padroni”. Di fronte a questo sciopero generale politico (la cui formula sembra, per altro, quella della passata rivoluzione tedesca) lo sciopero generale
proletario si pone come unico compito l’annientamento del potere statale. “Disinnesca tutte le
conseguenze ideologiche di ogni possibile politica sociale. I suoi partigiani considerano anche le
riforme più popolari come riforme borghesi”. “Lo sciopero generale proletario mostra chiaramente
la propria indifferenza nei confronti del guadagno materiale della conquista, dichiarando di voler
sopprimere lo Stato, che era la ragion d’essere dei gruppi dominanti, i quali traggono profitto da
imprese i cui oneri sono a carico della comunità nel suo complesso”. Mentre la forma borghese di
sospensione del lavoro è violenza, perché produce solo una modifica estrinseca delle condizioni di
lavoro, la forma proletaria, in quanto mezzo puro, è priva di violenza. Infatti, essa non avviene nella
disposizione a riprendere il lavoro di prima, dopo concessioni esteriori e qualche modifica delle
condizioni lavorative, ma nella decisione di riprendere un lavoro interamente mutato, non più
imposto dallo Stato. Questo tipo di sciopero non tanto scatena un capovolgimento ma lo porta a
termine. Di conseguenza la prima di queste intraprese pone in essere un diritto, mentre la seconda è
anarchica. Ricollegandosi ad affermazioni occasionali di Marx, Sorel respinge ogni sorta di
programmi, di utopie, in una parola, di istituzioni giuridiche per il movimento rivoluzionario: “Con
lo sciopero generale [proletario] spariscono tutte queste belle cose. La rivoluzione appare come una
pura e semplice rivolta. Non c’è più posto per sociologi e amatori delle riforme sociali o per
intellettuali che hanno scelto il mestiere di pensare per il proletariato”. A questa profonda, morale e
autenticamente rivoluzionaria concezione non si possono opporre considerazioni che stigmatizzino
questo tipo di sciopero come violenza per le possibili conseguenze catastrofiche. Anche se a ragione
si potrebbe dire che nel suo complesso l’economia moderna assomiglia meno a una macchina che si
ferma quando il fuochista l’abbandona che a una belva che si scatena appena il domatore le volta le
spalle, resta il fatto che è lecito giudicare della violenza di un’azione tanto poco dai suoi effetti
quanto dai suoi fini, ma solo secondo la legge dei suoi mezzi. Naturalmente il potere dello Stato,
che bada solo alle conseguenze, si oppone proprio a questo sciopero, piuttosto che agli scioperi
parziali, effettivamente ricattatori. Come, del resto, una concezione così rigorosa dello sciopero
generale sia di per sé adatta a ridurre il dispiegamento della violenza in rivoluzione, è quanto Sorel
ha esposto con argomenti anche spiritosi. – Per contro, un caso eminente di omissione violenta, più
rozzo e immorale dello sciopero generale politico, simile alla serrata, è lo sciopero dei medici, che
molte città tedesche hanno visto. Vi si mostra nel modo più ripugnante l’’applicazione senza
scrupoli della violenza, che pure è stato rigettato da una classe professionale che per anni senza il
minimo tentativo di resistenza “ha garantito alla morte la sua preda” e poi, alla prima occasione,
lascia la vita a pezzi. – Più chiaramente che nella recente lotta di classe nella millenaria storia degli
Stati si sono costituiti mezzi di accordo non violento. Solo occasionalmente nel loro reciproco
commercio ai diplomatici tocca il compito di modificare l’ordinamento giuridico. Essenzialmente,
in perfetta analogia con gli accordi tra privati devono comporre pacificamente e senza trattati caso
per caso in nome dei loro Stati i loro conflitti. Compito delicato, assolto in modi più risoluti dalle
corti d’arbitrato, ma anche metodo di soluzione fondamentalmente superiore a quello arbitrale,
perché al di là di ogni ordinamento giuridico e quindi di ogni violenza. Come il colloquio tra privati
anche quello tra diplomatici ha prodotto forme e virtù che, per essere divenute esteriori, non sono
sempre state tali.
In tutto l’ambito dei poteri previsti sia dal diritto naturale sia dal diritto positivo non se ne trova
uno scevro dalla pesante problematica di ogni potere giuridico. Ma, poiché ogni rappresentazione di
qualsiasi pensabile soluzione di compiti umani, per tacere della liberazione dalla cappa delle
condizioni di esistenza storico-mondane fino ad ora, rimane non esecutiva volendo eliminare
assolutamente e in linea di principio ogni violenza, si impone il problema dell’esistenza di altre
forme di violenza, diverse da quelle considerate dalla teoria giuridica. E insieme a quello il
problema della verità del dogma centrale, comune a quelle teorie: fini giusti possono essere
raggiunti con mezzi legittimi e mezzi legittimi possono essere usati per fini giusti. Come sarebbe se
ogni specie di violenza predestinata, in quanto impiega mezzi legittimi, cadesse in inconciliabile
contraddizione con fini giusti in sé, e se al tempo stesso si potesse individuare una violenza d’altro
genere, che non potrebbe essere né mezzo legittimo né mezzo illegittimo a quei fini,10 e non fosse
con essi nel rapporto di mezzo, ma in qualche altro rapporto? Si illuminerebbe così la singolare e a
prima vista scoraggiante esperienza dell’indecidibilità ultima di ogni problema giuridico (che per
assenza di prospettive si può forse paragonare all’impossibilità di decidere in via definitiva tra
“giusto” e “sbagliato” nelle lingue in divenire). Infatti, sulla legittimità dei mezzi e sulla giustizia
dei fini non è mai la ragione a decidere, ma su quelli la violenza predestinata e su questi Dio.
Intuizione questa tanto rara solo perché predomina l’ostinata abitudine di considerare i fini giusti
come fini di un possibile diritto, cioè non solo come universalmente validi (il che consegue
analiticamente dall’attributo della giustizia), ma suscettibili di essere pensati come generalizzabili,
il che contraddice l’attributo di giustizia, come si può dimostrare. Infatti, se certi fini, giusti per una
data situazione, sono universalmente riconoscibili e universalmente validi, allora non lo sono per
nessun altra situazione, per quanto simile per certi altri aspetti. – L’esperienza quotidiana ci mostra
una funzione non mediata della violenza, come quella di cui si discute qui. Tipicamente nell’uomo,
la collera lo conduce a scoppi manifesti di violenza, non riferita ad alcun fine prestabilito. La
violenza [della collera] non è mezzo ma manifestazione. E questa violenza conosce manifestazioni
oggettive in cui po’ essere sottoposta a critica. In modo altamente significativo ricorrono
innanzitutto nel mito.
Nella sua forma paradigmatica la violenza mitica è pura [bloße] manifestazione degli dei. Non
mezzo per i loro scopi, quasi neppure manifestazione della loro volontà, ma innanzitutto
manifestazione del loro esserci. La leggenda di Niobe ne è un esempio eminente. Potrebbe sembrare
che l’azione di Apollo e Artemide sia solo una punizione. Ma la loro violenza, più che punire la
trasgressione di un diritto preesistente, istituisce un diritto nuovo. L’orgoglio di Niobe le attira la
sventura, non già perché offenda il diritto, ma perché sfida il destino a una lotta in cui esso deve
necessariamente vincere – e solo nella vittoria, casomai, promuove la nascita di un diritto nuovo.
Quanto poco la violenza divina fosse, nel senso antico, quella che conserva il diritto attraverso la
punizione lo dimostrano le saghe in cui l’eroe, per esempio Prometeo, sfida il destino con notevole
coraggio, lotta con esso con alterne fortune mentre la saga non lo lascia senza speranze di apportare
un giorno un nuovo diritto agli uomini. Un eroe siffatto e la violenza giuridica del mito nato con lui
è quel che il popolo cerca ancora oggi di figurarsi ammirando il delinquente. Quindi la violenza
piomba su Niobe dall’incerta e ambigua sfera del destino. Essa non è propriamente distruttrice.
Benché rechi ai figli una morte nel sangue, si arresta davanti alla vita della madre, vita lasciata
sopravvivere ancora più colpevole di prima per la fine dei figli, muto ed eterno sostegno della colpa
nonché pietra di confine tra uomini e dei. Se questa violenza immediata [e afinalistica] delle
manifestazioni mitiche si potesse dimostrare strettamente affine o addirittura identica a quella
[finalistica] che istituisce il diritto, allora quella problematizzerebbe di riflesso questa, essendo la
violenza istitutrice di diritto caratterizzata unicamente come strumentale, per esempio nella
rappresentazione della violenza bellica di cui sopra. Al tempo stesso questa connessione promette di
gettar luce sul destino, che in ogni caso sta alla base del potere giuridico, nonché di allargarne e
portarne a grandi linee a termine la critica. La funzione della violenza nell’istituzione del diritto è,
infatti, duplice. Da una parte l’istituzione del diritto mira come a suo scopo, con la violenza come
mezzo, a ciò che viene instaurato come diritto, dall’altra parte, nell’atto di insediare come diritto lo
scopo perseguito, non licenzia (abdankt) la violenza, ma solo ora ne fa in senso stretto e immediato
una violenza istitutrice di diritto. Così facendo, con il nome di potere, essa insedia come diritto non
già uno scopo esente e indipendente da violenza, ma necessariamente e intimamente legato ad essa.
Istituzione di diritto è istituzione di potere e in questa misura atto che manifesta immediatamente la
violenza. Giustizia è il principio di ogni istituzione divina di scopi, potere è il principio di ogni
istituzione mitica di diritti.
L’applicazione mostruosa e gravida di conseguenze di tutto ciò si sperimenta nel diritto pubblico, nel cui ambito l’istituzione di confini – così come è attuata dalla “pace” di tutte le guerre di epoca mitica – è il paradigma di violenza istitutrice di diritto. Qui si evidenzia nel modo più chiaro che quanto la violenza istitutrice di diritto deve garantire non è il guadagno anche ingente di possedimenti ma il potere [in sé]. Dove si fissano confini, l’avversario non viene semplicemente annientato, anzi, se il vincitore è strapotente, gli sono riconosciuti anche dei diritti. E in modo demoniacamente ambiguo pari diritti. Entrambi i contraenti non devono superare la stessa linea.
Dove appare in tutta la sua temibile originarietà la stessa mitica ambiguità delle leggi che si non possono “trasgredire”. Anatole France ne parlava in senso satirico, dicendo che le leggi vietano allo stesso modo ai ricchi e ai poveri di pernottare sotto i ponti. Sembra che Sorel sfiori una verità non solo storico-culturale ma anche metafisica, congetturando che inizialmente tutti i diritti (Recht) siano stati privilegi (Vorrecht) dei re e dei nobili, insomma dei potenti. Infatti, mutatis mutandis, resterà così finché dura. Dal punto di vista della violenza, che sola può garantire il diritto, non c’è mai uguaglianza ma, nel migliore dei casi, poteri ugualmente grandi. Ma per l’intelligenza del diritto l’atto di istituzione di confini è importante anche da un altro punto di vista. Confini posti e delimitati rimangono, almeno nella
preistoria, leggi non scritte. L’uomo può superarli senza saperlo e così incorrere nel castigo (Sühne).
Infatti, ogni intervento del diritto, provocato dall’infrazione di leggi non scritte e ignote si chiama
castigo per differenziarlo dalla pena (Strafe). Ma per quanto crudelmente possa colpire l’ignaro, il
suo intervento non è frutto del caso ma del destino, che ancora una volta qui si mostra nella sua
ambiguità colma di progetto. Già Hermann Cohen, in una rapida trattazione della concezione antica,
ha definito il destino “un’intelligenza (Einsicht) cui non si sfugge”, tale che “sono i suoi stessi
ordinamenti che sembrano occasionare e produrre l’infrazione e la caduta”. Di questo spirito del
diritto testimonia ancora il moderno principio secondo cui l’ignoranza della legge non difende dalla
pena. Analogamente la lotta primordiale delle antiche comunità per il diritto scritto va letta come
rivolta contro lo spirito degli statuti mitici.
Lungi dall’aprire una sfera più pura, la manifestazione mitica della violenza immediata si rivela
di fondo identica a ogni potere giuridico, trasformando il sospetto che sia problematica in certezza
che la sua funzione storica sia perniciosa e perciò sia nostro compito annientarla. Ma proprio questo
compito ripropone in ultima istanza il problema di quale violenza pura immediata possa arrestare
quella mitica. Come in tutti i campi del mito Dio. Così alla violenza mitica si contrappone la divina,
che ovunque si mostra come la sua antitesi [cfr. sopra la contrapposizione tra scopi divini e diritti
mitici]. Se la violenza mitica istituisce il diritto, la divina lo annienta [come la polizia che sospende
le leggi arbitrariamente. cfr. sopra]. Se la violenza mitica pone limiti, la divina distrugge senza
limiti. Se la violenza mitica incolpa e al tempo stesso castiga, la divina purifica [nel senso che
discolpa, Entsühnung]. Se una incombe, l’altra è fulminea; se una è sanguinaria, l’altra è letale ma
senza spargimento di sangue. Alla leggenda di Niobe si può contrapporre come esempio di violenza
divina il giudizio di Dio sulla banda di Korah [cfr. Num. 16, 1-35]. I colpiti sono dei privilegiati, i
leviti. Sono colpiti senza preavviso, senza minaccia. Il giudizio di Dio colpisce e non si ferma prima
della distruzione totale. Ma proprio la distruzione è purificante. C’è una profonda connessione da
riconoscere tra, da una parte, il carattere non sanguinario della violenza divina e la purificazione,
dall’altra. Infatti, il sangue è il simbolo del mero [bloße] fatto di vivere. La dissoluzione della
violenza giuridica risale quindi – come qui non si può documentare precisamente – alla
colpevolezza [Verschuldung, lett. indebitamento] della mera [bloße] vita naturale. Tale
colpevolezza affida il vivente incolpevolmente e infelicemente al castigo, che “espia” la sua
colpevolezza – e purifica anche il colpevole, non da una colpa, ma dal diritto stesso. Infatti, con la
semplice vita cessa il dominio del diritto [positivo? naturale?] sul vivente. La violenza mitica è
violenza sanguinaria sulla mera [bloße] vita per se stessa, la pura [reine] violenza divina è violenza
su ogni vita in nome del vivente. La prima esige sacrifici, la seconda li ammette.
Questa violenza divina è attestata non solo dalla tradizione religiosa, ma si ritrova anche nella
vita attuale in almeno in una manifestazione consacrata. Uno dei suoi modi di manifestarsi è la
violenza educativa, che nella sua forma perfetta cade fuori dal diritto. Questi modi non si
definiscono per il fatto che Dio stesso eserciti direttamente la violenza, ma per il carattere non
sanguinario, fulmineo e purificante dell’esecuzione. Ultimamente per l’assenza di ogni istituzione
di diritto. Pertanto è giustificato chiamare annientante questa violenza, ma solo in senso relativo,
rispetto ai beni, al diritto, alla vita e simili e mai in senso assoluto rispetto all’anima del vivente [o
alla vita psichica]. – Tale estensione della violenza pura o divina è destinata a suscitare proprio oggi
i più violenti attacchi. Si obbietterà che, proprio in forza della sua deduzione logica, essa accorda
anche agli uomini la reciproca violenza letale, almeno a certe condizioni. Questo non è concesso.
Infatti, alla domanda: “Posso uccidere?” invariabilmente il comandamento risponde: “Non
uccidere”. Il comandamento precede l’azione come un “Dio ce ne scampi” che accada. Ma, tanto è
vero che non può essere il timore della pena a indurre a seguirlo, che il comandamento rimane
inapplicabile e incommensurabile rispetto all’atto compiuto. Dal comandamento non segue alcun
giudizio sull’atto. A priori, quindi, non si può prevedere né il giudizio di Dio su di esso né il suo
motivo. Perciò sbaglia chi basa sul comandamento la condanna di ogni uccisione violenta
dell’uomo da parte dell’uomo. Il comandamento non è un criterio di giudizio, ma una norma pratica
per la persona o la comunità agenti, le quali devono confrontarvisi in solitudine, assumendosi in
casi tremendi la responsabilità di prescinderne. Così l’intendeva anche il giudaismo che
espressamente si rifiutava di condannare l’omicidio per legittima difesa. – Ma quei pensatori
risalgono a un ulteriore teorema su cui forse contano di fondare il comandamento stesso. Si tratta
del principio della sacralità della vita, generalizzato a ogni vita, animale o addirittura vegetale, o
ristretto alla vita umana. Nel caso estremo esemplificato dall’uccisione dell’oppressore la loro
argomentazione suona così: “Non uccidendo non instaurerò mai il regno della giustizia … così
pensa il terrorista spirituale … Ma noi riconosciamo che ancora più in alto della felicità e della
giustizia di un’esistenza … ci sta l’esistenza in sé”. Per quanto questa tesi sia falsa, per non dire
ignobile, porta allo scoperto il dovere di cercare il motivo del comandamento non tanto in ciò che
l’atto fa all’assassinato, quanto in ciò che fa a Dio e all’agente stesso. Falsa e miserabile è poi la tesi
che l’esistenza sarebbe superiore all’esistenza giusta, se esistenza non significa altro che il puro
(bloßes) fatto di vivere – e questo è il suo significato nella riflessione citata. Ma contiene una
poderosa verità se esistenza (o meglio vita) – parole il cui doppio senso, in modo del tutto analogo
alla parola “pace”, va risolto in base al loro rapportarsi a due sfere ogni volta diverse – significa
l’inamovibile stato di aggregazione dell’“uomo”. Se la proposizione significa, cioè, che il non
esserci dell’uomo è qualcosa di più terribile del (peraltro: semplice) non esserci ancora dell’uomo
giusto. La frase suddetta deve l’apparenza di verità a questa ambiguità. A nessun costo l’uomo
coincide con la semplice vita dell’uomo. Tanto meno coincide l’uomo con la semplice vita in lui o
con qualcun altro dei suoi stati o proprietà, fosse pure l’unicità della sua persona fisica. Tanto sacro
è l’uomo (o quella vita in lui che rimane identica nella vita terrestre, nella morte e nella
sopravvivenza), quanto poco lo sono i suoi stati, quanto poco lo è la sua vita fisica, vulnerabile dal
prossimo. Che cosa, infatti, la distingue da quella degli animali e delle piante? E anche quando
piante e animali fossero sacri, non potrebbero pretendere di esserlo per il puro (bloßes) fatto di
vivere, né potrebbero esserlo in esso. Varrebbe la pena indagare sull’origine del dogma della
sacralità della vita. Forse, anzi probabilmente, è recente, aberrazione ultima dell’indebolita
tradizione occidentale, che cerca il sacro ormai perduto nel cosmologicamente impenetrabile.
(L’antichità di tutti i comandamenti religiosi contro l’omicidio non significa nulla in contrario,
perché si basano su idee diverse dal teorema moderno). Infine, dà da pensare che quel che qui si
dichiara sacra sia, secondo l’antico pensiero mitico, la portatrice designata della colpevolezza: il
puro (bloße) fatto di vivere.
La critica della violenza è la filosofia della sua storia, “filosofia” di questa storia in quanto solo
l’idea del suo esito apre una prospettiva decisiva e dirimente sui dati del proprio tempo. Lo sguardo
posato su ciò che sta più vicino consente al più di scorgere un’altalena dialettica tra le forme di
violenza che istituisce e di violenza che conserva il diritto. La legge di queste oscillazioni poggia
sul fatto che a lungo andare ogni violenza conservatrice di diritto indebolisce indirettamente la
stessa violenza creatrice di diritto attraverso la repressione delle controforze ostili. (Nel corso
dell’indagine si è già accennato ad alcuni sintomi di ciò). Questo dura sino a quando nuove forze o
forze precedentemente represse sopraffanno la violenza istitutrice di diritto e fondano così un nuovo
diritto destinato a sua volta a nuova decadenza. Sull’interruzione di questo ciclo che si svolge
all’interno della fascinazione delle forme mitiche del diritto, sulla destituzione del diritto insieme
alle forze cui esso si appoggia come esse su di lui, e cioè in definitiva sulla destituzione dello Stato,
si basa una nuova epoca storica. Se oggi qua e là il predominio del mito è scosso, quel nuovo non
sta in una lontananza tanto inimmaginabile che una parola contro il diritto debba condannarsi da sé.
Ma se alla violenza è assicurata consistenza anche al di là del diritto come violenza pura e
immediata, risulta con ciò dimostrato che e come sia possibile anche la violenza rivoluzionaria, che
è il nome da assegnare alla più alta manifestazione di violenza pura da parte dell’uomo. Ma non è
altrettanto possibile e neppure altrettanto urgente per gli uomini decidere se e quando in determinati
casi fosse all’opera la violenza pura, poiché solo la violenza mitica, non quella divina, si lascia
riconoscere con certezza come tale, salvo forse in effetti incomparabili, perché la forza purificante
della violenza non è alla luce del giorno per gli uomini. Di nuovo sono a disposizione della pura
violenza divina tutte le forme eterne che il mito ha imbastardito con il diritto. La violenza divina
può apparire nella vera guerra come nel giudizio di Dio della folla sul delinquente. Ma riprovevole
è ogni violenza mitica che istituisce il diritto e si potrebbe pertanto chiamare amministrante
(schaltende). Ma riprovevole è pure la violenza che conserva il diritto, la violenza amministrata, che
serve l’amministrante. La violenza divina, che è insegna e sigillo, non è mai strumento di sacra
esecuzione. Si potrebbe di che è la violenza che governa.
<Frammento teologico-politico>
Solo il Messia stesso compie tutto l’avvenire storico, nel senso che solo nel riferimento al
messianico stesso egli salva, compie, crea. Pertanto nulla di storico può pretendere di rapportarsi in
sé e per sé al messianico. Pertanto il regno di dio non è il telos della dinamica storica: non può
diventare il suo scopo. Dal punto di vista storico non è un fine ma la fine. Pertanto l’ordine del
profano non può essere costruito sul pensiero del regno di dio. Pertanto la teocrazia non ha senso
politico ma solo religioso. Il merito maggiore dello “Spirito dell’utopia” di Bloch è di aver negato
con tutta la forza possibile e immaginabile il significato politico della teocrazia.
L’ordine del profano va eretto sull’idea di felicità (Glück). Il riferimento di tale ordine al
messianico è un frammento teorico essenziale della filosofia della storia. In effetti, esso condiziona
la concezione mistica della storia, rappresentabile in un quadro. Se la direzione di una freccia indica
lo scopo verso cui la dynamis del profano agisce e quella di un’altra indica l’intensità del
messianico, allora naturalmente la ricerca della felicità dell’umanità libera tende ad allontanarsi
dalla direzione messianica. Ma come una forza può favorire lungo la sua traiettoria un’altra diretta
in senso opposto, così l’ordine profano del profano può favorire la venuta del regno del messia. Il
profano non è una categoria del regno, ma una categoria – e la più pertinente – del suo più
silenzioso approssimarsi. Infatti, nella felicità tutto ciò che vi è di terreno tende al proprio tramonto,
ma solo nell’ordine profano gli è garantito di trovarlo. – Mentre naturalmente l’immediata intensità
messianica attraversa per mezzo dell’infelicità, nel senso della sofferenza, il cuore, l’interno del
singolo uomo. Alla spirituale restitutio ad integrum, che introduce all’immortalità, ne corrisponde
una mondana che conduce all’eternità del tramonto. Il ritmo di questo mondano eternamente
trapassante, trapassante nella propria totalità, trapassante nella propria totalità nel tempo e nello
spazio, il ritmo della natura messianica è la felicità. Infatti, messianica è la natura nel suo eterno e
totale trapassare. Tendere a ciò, anche negli stadi dell’uomo che sono di natura, è compito della politica del mondo, il cui metodo va chiamato nichilismo.
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