Morte e potere_Introduzione

Louis-Vincent Thomas (1922-1994), Morte e potere

 


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Presentazione libro e autore

 

Louis-Vincent Thomas (1922-1994), Morte e potere
Edizioni Lindau, Torino, 2006
traduzione dal francese di Gianluca Perrini

Introduzione
La morte, oggetto di studio antropologico

«A quanto pare, il dibattito sulla morte è di grande attualità. Eppure si tratta di un tema prolisso e variegato, che ha in sé qualcosa di esasperante: l’oggetto-morte è talmente sfuggente e difficile da circoscrivere che, quando si insiste a volerne parlare, si finisce per confessare di non avere niente da dire. Non basta infatti raggruppare le conoscenze relative alla morte per imparare a convivere con essa. Può darsi che un saggio di argomento tanatologico non sia, in fin dei conti, altro che un gioco intellettuale fine a se stesso, un altro modo di tenere a distanza la morte, confinandola nel recinto delle analisi dotte.
In effetti esiste una dimensione paradossale della morte, e il morire che ognuno reca in sé turba l’affettività e aliena la ragione. Nessun percorso scientifico riesce a dominare questo Nulla, questo Quasi-Nulla che si sottrae a criteri e definizioni. Al contrario, più approfondiamo la conoscenza del processo biologico della morte, più ci riveliamo incapaci di precisare quando e come essa sopraggiunge. Tuttavia, è proprio su questo Nulla che si concentrano tutte le paure, che si mobilitano tutte le energie, per respingerla, oscurarne la presenza, sopprimerla.
Ritorneremo in seguito su questo strano potere della morte che, seminando il male di vivere, fa scattare nell’individuo e nel gruppo tutta una serie di meccanismi di difesa più o meno vani.
Dove si colloca quindi la morte? In nessun luogo in quanto essenza, perché la morte in sé non rientra in alcuna categoria: «Essa rappresenta l’evento “diverso” per eccellenza… senza rapporti con gli altri avvenimenti, i quali si inscrivono tutti nel tempo» (Vladimir Jankélévitch). Tuttavia, se non la si può isolare in uno specifico territorio, essa è comunque presente dappertutto sotto forma di processo, che comincia dalla nascita e si prolunga oltre la morte clinica e biologica. Se poi pensiamo al fatto che ogni rapporto con la morte, come ogni rapporto con il sesso, si trova a essere inserito nella pluralità delle relazioni sociali, si intuisce che la morte è presente a tutti i livelli della vita quotidiana. Visto che non è da nessuna parte, cessa di essere un oggetto empirico e non è altro che un punto inafferrabile del quale non si può dire niente se non che c’è un prima (il comportamento di fronte all’anziano, le cure al moribondo) e un dopo (i riti funebri, il lutto, il culto dei morti e degli antenati). Peraltro, per il fatto che si incontra ovunque nel corso dell’esistenza, essa occupa il centro della scena artistica, filosofica, religiosa, politica. Tuttavia, non si può dissertare sulla morte se non per sommi capi, in modo eterogeneo e mai esaustivo. Fare della morte l’oggetto di una ricerca significa considerarla una «cosa», ossia occultarla riducendola a una somma di statistiche, un insieme di dati psicochimici, un sistema di rappresentazioni o istituzioni. D’altra parte non possiamo parlare di ciò che sfugge al nostro controllo. E pretendere di controllare la morte non ha senso; va intesa in quest’ottica la riflessione disincantata di un antropologo: «Ebbene, la morte? La morte, un bel niente! Nei libri non è contenuta alcuna conoscenza relativa alla morte. I libri non ti dicono cosa sia la morte».
Allora, se «la morte ci parla con voce profonda per non dirci nulla» (Paul Valéry), quale potrà essere il destino della tanatologia, che pretende di essere la scienza della morte?

Dal momento che non ci può essere conoscenza senza oggetto, deve forse ridursi a un discorso che non è altro se non un metalinguaggio? Essa tuttavia, nella misura in cui definisce rigorosamente il proprio campo, può aspirare a essere una scienza del morire e delle pratiche riguardanti il moribondo, il cadavere, il defunto, coloro che sopravvivono, le credenze, i riti. Il suo scopo, quindi, dovrebbe essere limitato a inquadrare la morte dal di fuori, lasciando ai poeti e agli artisti il compito di immaginare ed esprimere cosa significhi vivere la morte, o almeno l’angoscia di morire, dal di dentro. Tuttavia, nell’impossibilità di afferrare il cuore del problema, ci si può chiedere quale interesse possa rivestire uno scritto sulla morte, che si tratti di una fredda riflessione su fatti ben determinati o di una creazione puramente estetica.

Per una riflessione sulla morte

Parlare della morte equivarrebbe quindi a impedire che se ne parli e, col pretesto che essa non dice nulla, a parlare d’altro in sua vece. Peraltro, nonostante l’incompletezza legata all’oggetto-morte, che è essenzialmente assente, lo studio della morte, rivelando e avvicinando numerosi orizzonti, dovrebbe portare a una riflessione feconda. Occorre demistificare la morte, i suoi fasti e le sue opere per aiutare a capire meglio il senso della vita. A questo proposito, una riflessione sul curriculum mortis si rivela senza dubbio più corroborante di un’esasperata preoccupazione per il curriculum vitae, che rende conto di successi sociali il cui perseguimento molto spesso ci rovina la vita. Infatti, ciò che dà un senso vero al destino di ogni uomo, incitandolo a fare il bilancio dei suoi desideri e delle sue paure, è proprio la coscienza della sua finitudine.
Se, trascurando l’ottica individuale o esistenziale, ci spostiamo in una dimensione collettiva, troviamo un nuovo pretesto per l’analisi sociologica della morte intesa come pratica. La morte, infatti, riguarda forse le strutture sociali ancor più degli individui che le compongono, di modo che, studiando quella, rischiamo di ritrovare queste, sia a livello di prassi che di ideologia. Così, nel quadro della società occidentale che ci interessa in modo particolare, tutto ciò che concerne la morte è in relazione con le sovrastrutture organizzative e giustificative di tale società. Quest’affermazione è sorretta da tre osservazioni derivanti l’una dall’altra.
Prima osservazione: ogni società vorrebbe essere immortale e ciò che chiamiamo cultura non è altro che un insieme organizzato di credenze e riti aventi lo scopo di lottare contro il potere di dissoluzione della morte individuale e collettiva. A questo proposito la lettura delle «società arcaiche», senza dubbio a causa della loro estrema vulnerabilità, si dimostra particolarmente rivelatrice. L’analisi dei grandi rituali funebri, in particolare, sottolinea bene l’effetto di mobilitazione collettiva che si propone di neutralizzare la perdita del morto. D’altronde tutti i rapporti sociali, siano essi di parentela, alleanza, sesso, età o proprietà, sono strettamente intrecciati in un vasto dramma liturgico intessuto di metafore e proiezioni simboliche, che viene recitato affinché il gruppo si perpetui illimitatamente. Nelle società moderne i miti e i riti di ieri si sgretolano davanti al controllo tecnico sulla morte, che, spinto all’estremo, permetterebbe di ottenere l’immortalità. Si tratta di una speranza enorme, che comporta però inquietanti paradossi: il crollo delle simbologie, che continua a ossessionare l’uomo del XX secolo alle prese con la propria paura della morte, tanto che oggi si assiste a un ritorno in forze dell’irrazionale (parapsicologia, filosofie orientali ecc); la paura di un’apocalisse, che costituirebbe il prezzo da pagare per aver messo il progresso scientifico nelle mani dell’apprendista stregone. Vedremo come le società moderne vengano a patti con il potere della morte, e cosa ciò comporti. Per rinnovarsi indefinitamente, il gruppo si incarna in un nuovo genere di mito: l’ideologia fascista, che esalta un’entità nazionale (o l’egemonia di una razza), l’ideologia capitalista, che si fonda sul profitto. In entrambi i casi, vi è la negazione dell’individuo come realtà singola e degna di rispetto, a meno che, detenendo una parte del potere, egli non partecipi attivamente alla sopravvivenza del gruppo.

Il secondo argomento sembra soltanto apparentemente in contraddizione col primo: la società, più ancora dell’individuo, esiste soltanto nella morte e attraverso la morte. Abbiamo appena visto che la ragion d’essere di ogni cultura è durare e continuare a esistere a dispetto del potere distruttivo della morte. Tuttavia, per pervenire a tale risultato non le basta «secretare quella formidabile neghentropia (=entropia negativa) immaginaria che le permette di affermarsi malgrado la morte e contro la morte». Inoltre, è necessario che il sistema disponga di strumenti efficaci per assicurare la propria sopravvivenza nel fluire delle generazioni. Edgard Morin ha insistito su questo processo di mantenimento del patrimonio collettivo che acquista un senso in funzione della morte. Anche chi scrive, in un precedente saggio, ha riflettuto sulla trasmissione del sapere e del potere nelle società arcaiche: l’iniziazione, i riti di condanna a morte simbolica, avevano essenzialmente lo scopo di garantire la continuità del gruppo. Approfondiremo tale analisi mostrando che non esiste alcuna organizzazione sociale che non comporti l’esercizio diretto o indiretto del potere, di cui la morte costituisce in qualche modo l’approdo finale. Infatti, il potere non può esistere senza ostacolare il corso spontaneo della vita. Sia che essa ne costituisca il motore, la conclusione o la conseguenza inevitabile, tra la morte e il potere esiste un’intima relazione le cui sfumature sono molteplici e complesse. Così, attraverso il controllo della vita e della morte, il Capo – o il Re, o il Principe, o il Padre in senso lacaniano – esercita e consolida il proprio potere; la morte (o la sicurezza) diventa quindi una formidabile arma di ricatto nelle mani della classe dominante, che ne fa uso per imporre la propria autorità. Da ciò consegue che la socio-tanatologia potrebbe, sotto molti punti di vista, diventare uno strumento essenziale della sociologia politica.

Questo ci porta direttamente alla terza ragione, che costituisce il prolungamento logico delle altre due: la morte, o almeno l’uso sociale che ne viene fatto, diventa uno dei grandi indicatori delle società e delle civiltà, quindi uno strumento per criticarle e per studiarle in profondità. Si dice che le civiltà possano essere definite sulla base del modo in cui trattano la vita, i morenti, i defunti. È nota la celebre frase di Gladstone: «Mostratemi in che modo una nazione o una società trattano i propri morti, e vi dirò con ragionevole certezza se si tratta di un popolo di nobili sentimenti e fedele a un alto ideale». In definitiva, infatti, la socio-tanatologia non è altro che una sociologia dei vivi (o dei sopravvissuti) che usa il pretesto dei morti e della morte per meglio indagare il contesto sociale. Senza dubbio, essa deve evitare facili concessioni a un «culturalismo eccessivamente onnicomprensivo». La morte rappresenta sì un indicatore privilegiato, ma non l’unico: nulla permette di dire che essa investe tutte le dimensioni del sociale: la socio-tanatologia avrà dunque un futuro solo se volge deliberatamente le spalle all’imperialismo intellettuale. Inoltre, bisogna fare attenzione a non banalizzare il contesto sociale al punto di parlare dell’uomo in generale, come succede fin troppo spesso. Accanto a frange oppresse della classe operaia, esistono altri gruppi sociali il cui atteggiamento di fronte alla morte è il segno della loro condizione nella società globale: le classi borghesi, le classi medie…; esse occupano un posto diverso nei rapporti di produzione, cioè nella dialettica dominante-dominato; nelle loro pratiche quotidiane, sono caratterizzate da legami specifici con gli apparati e le istituzioni che organizzano il loro immaginario e strutturano le loro abituali relazioni simboliche: la chiesa, la scuola, la medicina, la scienza, il potere centrale… È pur vero che esistono fenomeni che colpiscono tutte le classi sociali, e che ci stiamo orientando verso un tipo di struttura sociale nella quale si afferma l’istituzionalizzazione della morte: l’anziano, il malato, il moribondo, separati dalle loro famiglie, privati di qualunque potere decisionale, si trovano «affidati» all’ingranaggio di servizi specializzati. Ciò che conta è sapere come e perché si sia arrivati a ciò.

Verso una socio-tanatologia polemica

Senza dubbio non basta che si parli nuovamente dei problemi legati alla morte per denunciare le ingiustizie e rivendicare l’uguaglianza di fronte alla morte e nella morte. I limiti di questo percorso critico sono, ahimè, fin troppo evidenti. Nondimeno, l’impresa di demistificazione già in atto porterà a mettere in discussione una società ambigua, che si ostina curiosamente a distruggere e allo stesso tempo si preoccupa di conservare, e che mette la morte dappertutto per meglio sottrarla al nostro sguardo, sfruttando insidiosamente la paura della morte attraverso la manipolazione simbolica o la violenza reale, trasformando la morte in un business grazie all’infernale sistema delle vendite di armi. E che dire del terrificante potere della scienza e della tecnica? Con il pretesto di occuparsi della vita, esse conducono agli eccessi dell’accanimento terapeutico e dell’eutanasia, e forse presto porteranno alla manipolazione genetica, trascinando l’umanità – con la scusa di difenderla – in una spaventosa corsa agli armamenti. La lista dei temi d’attualità in cui all’esercizio del potere si accompagna l’odore della morte sarebbe lunga.

Comunque, non siamo animati dal proposito di suscitare sentimenti di nostalgia nei confronti di un passato idealizzato retrospettivamente, o di preconizzare un ritorno alle origini all’interno di qualche tribù esotica. L’obiettivo a lungo termine della nostra critica rimane la creazione, attraverso il superamento dei limiti di una società tecnico-burocratica e mercantile, di un nuovo sistema di valori i quali, probabilmente, non avranno nulla in comune con quelli propri delle civiltà del passato che abbiamo perduto. Togliendo il velo agli artifizi, alle divagazioni, alle illusioni e alle imposture, la socio-tanatologia può dunque aiutare a imparare di nuovo a vivere per meglio affrontare la morte.»

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