Le tesi “sul concetto di storia” di Walter Benjamin

Dario Gentili, Il tempo della storia. Le tesi “sul concetto di storia” di Walter Benjamin
Guida, Napoli, 2002
Michael Löwy, Segnalatore d’incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin
Bollati Boringhieri, Torino, 2004

di Massimo Palma

Negli ultimi anni, superando la demolizione pregiudiziale e la mimesi immedesimante che per decenni hanno segnato, con poche eccezioni, il mainstream della critica, ha ripreso vita una maniera più sobria di studiare Benjamin. Abbiamo di fronte due libri che, usciti in Francia e in Italia pressoché in contemporanea, oltre a contenere la stessa materia presentano anche la stessa caratteristica, innanzitutto formale, del commento, del seguire passo passo l’argomentazione di Benjamin. Ne tratteremo più a lungo solo uno, il migliore - ci sembra - per avvicinare davvero le Tesi “Sul concetto di storia”.
Come noto si tratta di un testo scritto sull’onda dell’emozione e della disperazione causata dalla firma del famigerato patto Molotov-Ribbentrop. Benjamin, in un generoso sforzo di concentrazione teorica, vi deposita in poche, complicate pagine una summa penetrante delle sue convinzioni nel campo filosofico-storico (diremmo con espressione generica e fuorviante, essendo proprio la ‘distruzione’ della filosofia della storia in senso tardo-ottocentesco l’obiettivo del testo). Più precisamente, le Tesi sono un’estrema sintesi di pensieri che incrociano la teologia come la teoria della storicità, l’attualità politica come la storiografia. La loro forma ellittica e paradossale, il tono profetico e insieme lucido hanno fatto la fortuna del Benjamin ‘romantico e mistico’ – opinione in via di estinzione sulla scorta delle edizioni critiche sempre più acribiche succedutesi negli anni, volte a restituire le Tesi al loro contesto, vale a dire alle riflessioni filosofiche sottese all’interminabile progetto di ricostruzione della Parigi del Secondo Impero, meglio noto come ‘Passagenwerk’. Testi preparatori, versioni alternative e confronti consentono di studiare le Tesi per quello che sono: un testo programmatico, non un testamento, una riflessione sulla storia, meglio, sul concetto di storia, dove lo stesso termine ‘concetto’ va assunto per il suo valore nella semantica benjaminiana.
E qui, con la chiarificazione del significato non neutro del titolo stesso, giungiamo ad uno dei meriti decisivi del libro di Dario Gentili, “Il tempo della storia. Le tesi “sul concetto di storia” di Walter Benjamin” (Guida, Napoli 2002, 14, 46 euro, pp. 259; per l’interpretazione del titolo si vedano le pp. 31-35) che si segnala nella recente, proliferante letteratura benjaminiana per una lettura tanto originale quanto equilibrata. Ma, viene da dire, soprattutto per la matrice filosofica della lettura che ne viene data e per la statura teorica che le Tesi vengono ad assumere. Già, perché a Gentili non sfugge che dietro le Tesi lavorano ‘tutti’ gli elementi della venticinquennale riflessione benjaminiana sul tempo della storia.. Mediante una sapiente operazione di raccordo tra i più disparati testi di Benjamin, dal breve ‘Rastelli erzählt’, interpretato nel modo più convincente come preannuncio della prima tesi, al commento-critica alle ‘Affinità elettive’ di Goethe, dal Franz Kafka alla fondamentale ‘Premessa gnoseologica’ del ‘Dramma barocco tedesco’, per finire coi testi più immediatamente imparentati con le Tesi (quello su Fuchs e su Parigi), il quadro del pensiero benjaminiano in materia riceve un profilo unitario e coerente. Ma non basta: Gentili, con intento ermeneutico e insieme con meritevole chiarezza, connette ogni singola tesi a un filosofo con cui Benjamin intrattiene un rapporto privilegiato, più o meno diretto, e grazie a questo metodo, non privo di riscontri filologicamente corretti, dove possibili (questo non può valere ovviamente per lo Hegel della ‘Scienza della Logica’ utilizzato da Gentili per spiegare la seconda tesi, essendo il nostro piuttosto avaro di letture nei confronti dell’uomo di Stoccarda: nonostante i ripetuti buoni propositi, ne rimase sempre deluso), enuclea i punti nodali dell’esposizione benjaminiana. Così dalle figure più note, il Lukács di ‘Storia e coscienza di classe’, il Nietzsche della ‘Seconda Inattuale’, lo Scholem, amico e insieme interprete, il Bloch dello ‘Spirito dell’Utopia’, si giunge alle fonti della filosofia classica tedesca che fanno parte della formazione di Benjamin e non possono essere in alcun modo eluse, dal romanticismo alla triade Kant, Hegel, Marx. Ora, che la lettura di Benjamin sia insieme personalissima ed elusiva di gran parte dei problemi posti dalle sue fonti, e segrete ed essoteriche, ciò va ascritto a quel che non si è mai negato all’autore, il suo tanto celebrato ‘genio’. Ma che tali fonti siano mediate, all’interno dello stesso pensiero benjaminiano, da numerosi altri elementi, in coerenza con quell’ansia sistematica, invisibile nella forma, ma ben presente nella sostanza, riconosciuta da Scholem in “Walter Benjamin e il suo angelo”, questo lo vediamo ben evidenziato dal libro di Gentili.
Ma siamo tuttora fermi alla scorza esteriore di un testo frutto di autentica passione filosofica. Vediamo, tra i tanti elementi su cui varrebbe la pena soffermarsi (dalla bella analisi dell’acedia alla distinzione tra Vorstellung e Darstellung che rileva una decisiva incertezza nella traduzione italiana, fino alla interpretazione del nesso lavoro-natura in Benjamin attraverso i ‘Manoscritti’ marxiani), un punto che ci sembra decisivo, sotto il profilo teorico, che apre la via di una ricerca su Benjamin finora inedita e che merita un seguito. Si tratta del nesso tra il concetto di storia e quello di spazio. Potrebbe sembrar strano, per un libro che si chiama il ‘tempo della storia’. Ma proprio la realtà di questo tempo è in gioco, dato che l’aporetico rapporto tra storia e verità passa per la concettualizzazione dei modi in cui il vero ‘si rappresenta’, vale a dire passa per lo spazio che “accede alla verità non immediatamente” (p. 32), ma “per mezzo della conoscenza che definisce attraverso concetti”. E quindi (p. 34) “è la conoscenza, mediante i concetti, a realizzare la salvazione che le idee rendono possibile”. Cosa significa? Che nel momento in cui esalta la possibilità del non realizzato Benjamin non rinuncia al polo – veramente antiheideggeriano – della realtà, di una realtà che Gentili, a ragione, ribadisce come strutturata attraverso i concetti, una realtà che non è il contingente puro e semplice, ma un contingente soggetto alle operazioni gnoseologiche che gli impongono una particolare forma di ‘mediazione’ del pensiero. La politica della memoria, il tempo della storia, come storiografia e come azione, hanno bisogno di spazio. Di spazio per pensare, prima ancora che per agire. I morti sono davvero morti, per riprendere un rimprovero mosso da Horkheimer a Benjamin, se nell’intervento che lo storico fa sul passato non si dà un’integrazione, certamente ‘politica’, ma insieme ‘conoscitiva’ nell’ambito di un atteggiamento teorico che sappia pensare l’azione in un contesto di relazioni non arbitrarie, ovvero storicamente determinate (vedi a proposito la ‘Conclusione politica’ del libro). Questo significa la celebre ‘costellazione’ benjaminiana. E di cos’altro parlano le Tesi se non di un necessario e non procrastinabile interesse per la storia, di una ‘decisione’ di cui tanti allora, nella Parigi di Benjamin (pensiamo ad Aron e Weil), andavano sottolineando la necessità? (e si vedano le precise distinzioni di Gentili a p. 229-230 sulla nozione di ‘fatto storico’ di cui si deve dare ‘struttura filosofica’). È proprio la nozione di costellazione che leggiamo nel rapporto tra concetto, idea e verità ricostruito da Gentili (pp. 88-94), che mostra il nesso tra l’intenzione conoscitiva e la sua attualizzazione politico-storiografica, in breve quella specialissima forma di ‘rappresentazione’ del vero cui guarda Benjamin (si veda il complesso rapporto rilevato tra ‘Vergangenheit’ e ‘Gewesen’, pp. 42-50, dove la prima è la totalità del passato mentre il secondo è quel passato spazializzato, reso conoscibile nel presente, da cui dipendono – in ragione della sua forza attuale di determinazione – le stesse deformazioni che alludono al non ancora realizzato). Questioni problematiche, ma ben organizzate e ‘complicate’, nel senso migliore del termine, dall’esposizione.
Non si può dire lo stesso dell’altro studio cui si è sopra accennato (Michael Löwy, “Segnalatore d’incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin”, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 146, euro 18) - stesso argomento, stessa forma, stesso periodo di concepimento. Si tratta di certo di un buon libro, utile nel commento e nella ricostruzione di alcuni contesti delle tesi (quello della storia del marxismo in particolare), attento a rivelare sfumature e variazioni della traduzione francese delle Tesi per mano dello stesso Benjamin. Ma alcuni punti lasciano perplessi.
Un primo appunto può esser mosso verso la tesi di Löwy, secondo cui in “quel periodo sperimentale, tra il 1933 e il 1936, l’epoca del secondo piano quinquennale” i lavori di Benjamin sembrano “vicini al ‘produttivismo’ sovietico”, e rappresentano “un’adesione poco critica alle promesse del progresso tecnologico” (p. 21): la metà degli anni Trenta, quindi, come un erramento del pensiero. Che dire se, come Löwy sa e riconosce, il testo su Bachofen, e ancor più quello su Kafka, sono esattamente di quel periodo? Non convince la tesi che Benjamin sia ‘abbastanza contraddittorio’, e che si tratti di una “parentesi progressista”. Forse la storia degli intellettuali europei di quegli anni, e la stessa genealogia delle Tesi, si costruisce a partire da quelle contraddizioni e non escludendo a priori testi e pensieri che, a meno di una schizofrenia tutta da provare, hanno la stessa origine. Perché, in fondo, questa strategia argomentativa ha l’effetto di presentare le Tesi come risveglio dal sonno dogmatico progressista, individuato come male radicale della sinistra, con un Benjamin rinsavito sull’orlo del precipizio, suo e dell’Europa. È una bella immagine, ma riduttiva. Operazione di riduzione delle complessità corroborata da un altro elemento che merita un breve cenno: sulle fonti di Benjamin vige infatti una sorta di paradigma indiziario per cui capita a volte di trovar citati testi “che forse aveva letto” (pp. 34, 73, 96, 115, 119). Un criterio di ricostruzione della biblioteca ideale del nostro autore, che non si confà poi tanto alla sua ossessione bibliofila, quella che lo spinge a tutto annotare e al profluvio di citazioni. Un criterio debole, appunto, che unito ad altre caratteristiche espositive, come la spiegazione delle tesi per accostamento suggestivo con figure del tutto estranee a Benjamin – anche se, certo, non ‘idealmente’ –, ha il difetto di mostrare senza dire, mescolando un po’ le carte al momento dell’interpretazione. Questa interpretazione (un Benjamin anarchico che fonde messianismo ebraico e utopia libertaria e si fa attivista per la causa dei vinti), già sedimentata, e meglio, nel precedente ‘Redenzione e utopia’ (tr. it. 1992), sembra poter fare a meno di ciò che Gentili giustamente definisce “essenziale per legittimare ogni tentativo di interpretazione dell’opera di Benjamin” (p. 32), vale a dire l’apparato teorico della Premessa gnoseologica, che Löwy non si preoccupa di trattare. Tutto sommato questo potrebbe porre qualche problema alle sue stesse conclusioni, dato che il ruolo della dialettica materialista è filtrato in Benjamin dalla sua teoria delle idee e lo stesso rapporto col marxismo riproduce sul terreno storico e politico un’istanza già presente nella sua filosofia (di qui il problema della sua ‘svolta’ marxista e la difficoltà di una definizione).
Intesi, il testo di Löwy, pur ripetendo la strada già battuta anni prima, spazia su molti temi e prende anch’esso una posizione equilibrata tra le fonti del pensiero di Benjamin - romanticismo, marxismo e messianismo - ma soprattutto, benché ancorato ad una retorica del suggestivo, delinea nuovi percorsi della ricerca, avvicinando Benjamin a correnti come la filosofia di genere, suggerendo contaminazioni interessanti. A quest’orientamento produttivo fa da contraltare una marcata tendenza alla semplificazione, nata forse dalle esigenze della comunicazione orale – il libro nasce anche da un seminario: in conclusione di commento, al lettore vengono presentati sovente fatti della storia più o meno attuale (sappiamo dell’impegno di Löwy in America Latina, dov’è nato, di qui i vari esempi) a titolo di conferma o incarnazione delle teorie di Benjamin. Oltre a schiacciare le Tesi sul loro versante politico, il procedimento mostra una volta di più l’arbitrarietà di certi accostamenti tra empirico e ideale, da cui il critico, almeno per iscritto, dovrebbe rifuggire. Se la differenza tra ‘Wirklichkeit’ e ‘Dasein’, tra effettualità pensata ed esistenza accidentale, ha ancora un senso, bisogna ripartire da cosa significhi ‘citare’ per Benjamin, da cosa significhi ‘idea’ (compresa l’‘idea’ di ‘progresso’, che non è esattamente un monolite nel suo pensiero, si pensi alla dialettica col mito o con la moda – e si veda bene Gentili, pp. 191-195, sulla “cattiva attualità” di questa), perché di questi ‘esempi’, un filosofo come Benjamin, se appunto lo si vuol leggere come filosofo, non ha di certo bisogno. L’incrocio tra motivazioni militanti e divulgazione culturale ha talora l’effetto prodigioso di rendere tutto semplice. Il che con Benjamin - parentesi pessimista - raramente può funzionare.
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