La lingua e le lingue di Machiavelli

AA. VV., La lingua e le lingue di Machiavelli, atti del Convegno internazionale di studi
Torino, 2-4 dicembre 1999, a cura di Alessandro Pontremoli
L. S. Olschki, Firenze, 2001

di Andrea Guidi

Il convegno, svoltosi a Torino nel dicembre del 1999, ci ha mostrato un Machiavelli unitario e poliedrico assieme, uno “scrittore” colto e raffigurato in tutte le sue mutevoli espressioni di politica, di teatro, di storia, ecc., ma sempre e costantemente involto in un’unica grande costruzione unificatrice determinata dalla sua straordinaria vitalità intellettuale e dalla sua eccezionale abilità letteraria.
Già il tema proposto era, in questo senso, indicativo: il titolo «La lingua e le lingue di Machiavelli», ben riassume, infatti, quel concetto di “poliedricità” del lessico machiavelliano che alcuni degli oratori intervenuti hanno voluto mettere in rilievo. Sia Jean-Claude Zancarini sia Jean-Louis Fournel, difatti, hanno tratto dalla loro esperienza di traduttori francesi dell’opera machiavelliana la concezione della lingua dello scrittore fiorentino come in continua evoluzione, alla ricerca di un nuovo rapporto con la realtà effettuale definita dalla crisi della politica tradizionale in quel primo Cinquecento italiano. Proprio la rottura operata da Machiavelli degli schemi fin allora seguiti in politica necessitava di una parallela evoluzione della lingua della politica, mutamento ben colto dai due studiosi nell’opera stessa del Segretario fiorentino. Questa nuova lingua della politica «molto meno definita di quanto non si pensi spesso» (p. 74), si sostanziava nel variabile uso di alcuni “termini chiave” del lessico machiavelliano individuati da Fournel principalmente nei vocaboli «popolo» e «plebe», la cui definizione, appunto, non è mai univoca ma bensì sempre sottoposta alla prova della storia, costantemente verificata mediante l’esame dei fatti (p. 62), alla ricerca di una piena rispondenza della lingua alle nuove esigenze della politica, sempre meno fossilizzata nelle formule rituali – individuate già da Gilbert in suo celebre articolo di tanti anni fa – tipiche di una dimensione ancora scissa tra la componente cristiana e quella umanistico-comunale, e sempre più aperta alle nuove dinamiche che il periodo successivo alle cosiddette “guerre d’Italia” – che sfocerà appunto nella conseguente rivoluzione machiavelliana della politica – aveva portato.
Mettere in luce le diverse facce di Machiavelli, le sue diverse valenze di scrittore, commediografo, storico e teorico della politica, è, d’altronde, una ben marcata tendenza della moderna critica machiavelliana (si pensi ad un altro convegno svoltosi a Losanna nel 1995 cui parteciparono alcuni degli studiosi presenti anche a Torino, come Jean-Jacques Marchand e Denis Fachard), costantemente alla ricerca di una visione unitaria ma rispettosa delle diverse sfaccettature del messaggio machiavelliano.
Proprio questi ultimi due, tra i più autorevoli studiosi del Segretario fiorentino curatori e coordinatori di alcune sezioni dell’Edizione Nazionale delle Opere di Machiavelli, nei loro rispettivi interventi hanno voluto mettere in rilievo altri due aspetti della lingua machiavelliana: quello teatrale e quello amministrativo. Denis Fachard è infatti uno degli studiosi più attivi nella ricerca relativa al periodo cancelleresco di Machiavelli, e il quadro che esce dal suo intervento al convegno è quello di un uomo interamente calato nella realtà del suo tempo, totalmente impegnato nel suo lavoro quotidiano di segretario della Seconda Cancelleria, uno dei punti nevralgici della Repubblica fiorentina. La «lingua di Machiavelli Segretario» in questo caso sarà necessariamente confezionata con «vari toni e registri linguistici» che egli «era indotto a modulare a seconda dell’evoluzione costante della ‘qualità dei tempi’» (p. 90). Il Segretario fiorentino nel redigere gli scritti cancellereschi – di cui Fachard ci offre qualche saggio in appendice – doveva dunque adeguare la propria scrittura al destinatario, all’occasione della scrittura, alla contingenza, insomma, del variare degli interlocutori e delle circostanze. In sintesi, questi «scritti di governo», come li ebbe a definire Fredi Chiappelli, riassumono quindi in loro il tema stesso del convegno e mettono ancora in luce la poliedricità di Machiavelli sin dal periodo giovanile. Le «lingue di Machiavelli» le troviamo in nuce e in potenza condensate nella lingua di Machiavelli Segretario di Cancelleria.
La versatilità di Machiavelli e la sua capacità letteraria si miscela nelle sue opere tanto che perfino nelle lettere di legazione possiamo rintracciare un procedere tipico di generi letterari molto differenti da quello della scrittura epistolare diplomatica del tempo. In particolare, della legazione in Francia del 1500 – tanto cruciale per le sorti della Repubblica fiorentina – Jean-Jacques Marchand ha limpidamente disvelato il procedere narrativo tipicamente teatrale; fin dall’inizio l’incontro con i personaggi della corte e con il re stesso è calato «in un’atmosfera avventurosa, con le allusioni alla distanza percorsa e ai pericoli di epidemia affrontati per raggiungere la corte», viene subito delineato «un quadro della precarietà e del carattere inconsueto del luogo dell’udienza: una cittadina con pochi palazzi, che non può accogliere tutto il seguito del re...». Insomma, Marchand comprende immediatamente come i toni linguistici di Machiavelli non si limitino a quello ufficiale della relazione diplomatica, ma si confondano immediatamente con quelli della narrazione teatrale ove una sorta di «regia» nell’esposizione del Segretario fiorentino tende a mettere «in scena» l’incontro diplomatico (p. 128). Il miscelarsi di diversi registri linguistici completa l’opera di caratterizzazione dei diversi personaggi incontrati da Machiavelli nel procedere della sua legazione: dal tono alto riservato al re di Francia, passando alle preoccupazioni più concrete e al conseguente adeguamento dello stile ad un valore meno aulico dei resoconti delle discussioni con il cardinale Rouen (p. 131). Le varie «lingue di Machiavelli», dunque, si ipostatizzano ancora una volta in una, in questo caso quella diplomatica.
La relazione diplomatica è, d’altronde, una delle manifestazioni più chiare di quella «esperienza delle cose moderne» che Machiavelli si vantò di avere avuto. E proprio il carattere di radicale trasformazione dell’esperienza diplomatica si può percepire nelle lettere di legazione di Machiavelli. Il confronto operato da Corrado Vivanti fra le parallele e coeve esperienze di ambasciatori sia veneziani sia concittadini del Segretario fiorentino e quelle di quest’ultimo rivela la profondità dell’analisi politica da lui inserita nella relazione diplomatica. L’ambasciatore veneziano Contarini che nei suoi resoconti diplomatici offre minuziosi resoconti relativi alla Francia di Carlo VIII, non difettando certo di dettagli nella descrizione del paese, dei suoi eserciti e via dicendo, risulterà in conclusione incapace di dare una corretta analisi politica della situazione andando «decisamente fuori strada a proposito del contenzioso territoriale che oppone il Re di Francia ai tre maggiori potentati del tempo, Massimiliano d’Asburgo, Ferdinando d’Aragona ed Enrico VII Tudor. In nessuno dei tre casi – riguardanti rispettivamente la Franca Contea, il Rossiglione e la Normandia – vede la possibilità di soluzione e giudica probabile il ricorso alle armi. Non arriva a prevedere che due anni dopo Carlo VIII, preso dal miraggio della spedizione contro Napoli [...] avrebbe accettato condizioni gravose» da tutti i personaggi citati (p. 26). Machiavelli, invece, non solo offre valutazioni di ben altra levatura politica e non si limita al «ruolo di informatore», ma assume quello di «collaboratore politico» implicitamente indirizzando la politica fiorentina (p. 45). Rivoluziona, dunque, il ruolo dell’ambasciatore dandogli maggiore autonomia: laddove un altro ambasciatore veneziano, coevo di Machiavelli, Vincenzo Quirini «non mira a proporre un indirizzo politico da seguire», egli invece ha come ultimo scopo proprio questo tentativo di indirizzare la politica del suo governo.
Poiché di linguaggi si sono occupati i relatori del convegno, Marziano Guglieminetti ha fornito alcune indicazioni che ci restituiscono un Machiavelli erede della «civiltà fiorentina», lettore non solo di Boccaccio, ma anche di Passavanti (p. 151). «Belfagor» discepolo ideale di una cultura fiorentina rappresentata soprattutto dalla novellistica. Quello che emerge è dunque un Machiavelli radicato nell’ambiente cittadino, ma, allo stesso tempo, lontano dalla cultura ellenizzante dei tempi di Lorenzo il magnifico; come aveva indicato già il Dionisotti in un suo celebre saggio egli guarda più alla tradizione della novellistica toscana, è lontano dai fasti laurenziani e vicino alla lingua dei Boccaccio e dei Sacchetti, alla cultura del “motto arguto” e della beffa. Guglielminetti si pone sulla stessa linea marcata dal Dionisotti, mettendo in risalto anche la posizione del Machiavelli del «Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua» – nonostante le controversie probabilmente attribuibile allo scrittore fiorentino – nettamente orientata ad un «elogio del fiorentino parlato [...] ma anche quale risulta dalla ‘Commedia’», nonché della lingua del Boccaccio: «Machiavelli fa presente che egli ‘afferma nel «Centonovelle» di scrivere in vulgar fiorentino’» (p. 153). Machiavelli, dunque, debitore della «laicizzazione, o secolarizzazione, del linguaggio narrativo» ereditato dalla lezione di Boccaccio, ma anche della grande tradizione linguistica fiorentina che ebbe il suo maestro indiscusso in Dante.
Non è però, come ho detto, solo il Machiavelli letterato quello che emerge dalle pagine del libro. Sara Mamone, ad esempio, ci porta alla scoperta della «Mandragola» come commedia destinata a rivoluzionare il teatro mediante l’irruzione in esso della «scena di città». Il «definirsi della scena di città come luogo dell’azione scenica» (p. 191) fu un processo che a partire dalle nuove scoperte prospettiche della fine del Quattrocento porterà alla compiuta sintesi tra quest’ultima e la drammaturgia. La «Mandragola» nel suo allestimento del 1518 innovò profondamente sulla base di questo assunto la storia degli allestimenti teatrali (p. 194). Grazie alla collaborazione di architetti scenografi come Bastiano da Sangallo quindi Machiavelli diviene innovatore anche del linguaggio drammaturgico, anche se egli privilegerà sempre il momento testuale rispetto a quello prettamente teatrale, «rifugiandosi in esso» per evitare le «trappole drammaturgiche» e supplire alle sue «eventuali mancanze» (p. 191), come fa notare Sara Mamone.
La dimensione cittadina della «Mandragola» è, d’altronde, elemento centrale dell’opera machiavelliana e viene posta in rilievo anche dall’intervento di Roberto Alonge, il quale apre la sua relazione facendo notare come il «tema della ricchezza» predominante nel personaggio di Callimaco sia «contrassegno di classe della borghesia fiorentina» (p. 244). Il tema borghese cittadino tuttavia non si esaurisce certo nel personaggio di Callimaco; Alonge delinea alcuni tratti della personalità di messer Nicia che lo inserirebbero di fatto in quella medesima categoria e addirittura lo porrebbero in rilievo come personaggio chiave nella determinazione della commedia come «cittadina» (p. 247). Certo Alonge ha ragione nell’affermare l’appartenenza di questo ed altri personaggi della «Mandragola» al mondo cittadino, ma esagera nel porre in rilievo la centralità di Nicia, secondo lui vero e proprio «motore della commedia»; in particolare, un po’ strana appare la sua presunta ossessione di paternità, rilevata dal relatore come tratto tipico dell’appartenenza alla borghesia fiorentina, il «luogo degli affetti», la «radice del clan familiare» (p. 251) espressione tipica di quel ceto cittadino.
Non meno atipica la figura di Lucrezia che si ricava dall’intervento di Roberto Alonge. Madonna Lucrezia è difatti nelle pagine di Alonge un personaggio il cui «senso etico» è forte e nitido (p. 252), il cui vantaggio nel triangolo che si viene delineando al termine della commedia machiavelliana non sarebbe, insiste lo studioso nella sua relazione, sul «piano sessuale» (p. 256), ma, al contrario, vi sarebbe anche in lei una voglia di maternità, il desiderio di avere quei figli che sa che non potrebbe mai avere da Nicia.
Come che sia di ciò, sicuramente il gruppo sociale borghese cittadino, è raffigurato dal grande scrittore fiorentino nelle sue più interne contraddizioni, fatte di falsi moralismi, e di modalità omogeneizzanti come la ricerca dell’utile.
Il linguaggio di Machiavelli, nel suo teatro – mostrano correttamente gli interventi dei vari oratori del convegno – è quindi un ennesimo lato di quel cubo costituito dalla grande versatilità del Segretario fiorentino. La lingua di città è, nelle sue commedie, «la lingua di Machiavelli», ed assieme una delle «lingue di Machiavelli».
Non manca l’analisi dei legami del Segretario fiorentino con il mondo dell’arte e della musica. Abbastanza numerosi furono, come si evince dalla relazione di Alessandro Cecchi, i contatti di Machiavelli con gli artisti fiorentini dell’epoca. Nelle lettere di legazione e nelle commissarie appaiono citati infatti i nomi di famosi artisti del Rinascimento quali ad esempio Leonardo il cui progetto di deviazione del corso dell’Arno, allo scopo di fiaccare la resistenza pisana all’assedio fiorentino, fu personalmente seguito da Machiavelli (p. 268); anche se in realtà finì in un clamoroso fallimento. Ma nelle lettere di legazione vediamo anche un Machiavelli tutto intento a procurarsi disegni o quadri per conto di amici o colleghi di Cancelleria, come quando nel 1499 cerca di procurarsi un ritratto di Caterina Sforza da portare al suo collega e confidente Biagio Buonaccorsi (p. 270). Certo, in Cancelleria trovò secondo la tradizione fiorentina molti colleghi umanisti, in primo luogo Marcello di Virgilio Adriani – del quale però non si può consentire col Cecchi che avesse maggiore «consuetudine coi testi» rispetto a Machiavelli (p. 267) –, nei quali trovare terreno fertile per questo tipo di richieste.
Ma, come ho detto, anche l’interesse di Machiavelli per la musica ci rivela un lato inedito della sua personalità letterario-artistica. Le musiche scritte da Verdelot per le sue commedie, infatti, «rappresentano il punto di partenza per un nuovo modo di concepire gli intermedi» verso il «nascente universo del madrigale» (p. 320), la cui importanza non va affatto trascurata, come ci spiega Cristina Santarelli nel suo intervento.
Dalle pagine degli atti di questo importante convegno di Torino del 1999 emerge insomma un Machiavelli, a volte parzialmente inedito, colto in tutte le sfaccettature del suo grande talento letterario, storico e politico. Uno scrittore rappresentato in un melange di «lingue» di volta in volta dedicate al teatro, alla politica, alla storia, ecc., che si ipostatizzano nell’opera del Segretario fiorentino avendo ognuna il tratto comune del genio e della profondità letteraria.
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