John Toland, Opere

John Toland, Opere, a cura di Chiara Giuntini
Utet, Torino, 2002

di Massimiliano Biscuso

Va senz’altro elogiata la scelta della casa editrice Utet di pubblicare nella prestigiosa collana “Classici della filosofia” la traduzione italiana delle principali opere di Sean Eoghain – nome che in seguito verrà anglicizzato in John Toland (1670-1722) –, autore considerato a torto “minore” e ri-dotto al ruolo di esponente, sia pure il più importante, dei deisti e dei liberi pensatori di lingua in-glese. Il volume, curato da Chiara Giuntini, che ha una lunga confidenza con il pensiero tolandiano (ricordiamo la bella monografia, pubblicata nel 1979, Panteismo e ideologia repubblicana), com-prende le seguenti opere: Il cristianesimo senza misteri, Lettere a Serena, Adeisidaemon, Le origini degli Ebrei, Nazareno, Pantheisticon.
In realtà il filosofo irlandese, che era un interlocutore di personaggi del calibro di Locke, Leibniz e Bayle, è stato uno dei principali protagonisti della cultura europea fra Sei e Settecento. I suoi principali contributi alla formazione di una corrente radicale nell’illuminismo europeo vanno colti almeno in due diversi campi: nel dibattito sulla razionalità del cristianesimo, che si incrocia con quello sugli effetti socio-politici della religione, e nell’affermazione del materialismo. Si tratta, è bene chiarirlo subito, di due aspetti niente affatto indipendenti l’uno dall’altro, che si intrecciano e si sostengono vicendevolmente, ma che appare opportuno distinguere in una breve presentazione delle sue opere.
Già il Cristianesimo senza misteri – scrive opportunamente la curatrice nell’ampia ed equi-librata introduzione al volume, dalla quale d’ora innanzi cito – mostra come la proposta di Toland non possa essere ridotta alle posizioni classiche del deismo: se questo sosteneva verità universali re-lative a Dio e ai principi morali, Toland non ne faceva cenno, sostenendo piuttosto «l’ideale di “un cristianesimo senza Chiesa” il cui messaggio era affidato alla coscienza e al giudizio dei singoli credenti» (p. 20). Il significato della prima opera del filosofo irlandese va colta piuttosto nei molte-plici riferimenti ai dibattiti dell’epoca sul rapporto fra ragione e rivelazione e sul ruolo delle istitu-zioni ecclesiastiche, e quindi alle posizioni dei latitudinari e dei sociniani, di Locke e Spinoza, senza identificarsi con nessuna di esse; e appare come un testo programmatico di diversi possibili svilup-pi. «In effetti il testo di Toland presenta molteplici aspetti e prospettive di lettura: si può considerare contemporaneamente come un manifesto politico, un discorso sul metodo, un saggio d’interpretazione storica, una professione di fede laica nei poteri della ragione, che nonostante le sue limitazioni strutturali resta il solo strumento disponibile per utilizzare l’esperienza e accertare la verità delle testimonianze» (p. 26).
A problemi che, in senso lato, potremmo definire di filosofia della religione Toland dedicò diverse altre opere, in particolare Adeisidaemon (1708), Le origini degli Ebrei (1708) e Nazareno (1718). L’Adeisidaemon (“l’uomo privo di superstizioni”), studiando per mezzo di Tito Livio le isti-tuzioni e le tradizioni religiose dalla fondazione di Roma all’inizio dell’età imperiale, indaga il pro-blema delle superstizioni religiose, che è inseparabile dall’esame delle condizioni politiche più pro-pizie a favorirne o a contrastarne la diffusione. Qui Toland mostra ancora una volta le sue convin-zione repubblicane. Con Le origini degli Ebrei, invece, Toland ritorna alla storia sacra: pur ripren-dendo spunti da Spinoza, dal libertinismo erudito e dalla critica deistica e scettica alle tradizioni re-ligiose, «la sua ricostruzione presenta motivi originali rispetto a tali fonti e soprattutto riesce a farle confluire in un’interpretazione unitaria. Si può dire anzi – continua Giuntini – che proprio su questo terreno Toland riesce a far convergere in modo particolarmente efficace i risultati dell’indagine sto-rico-filologica e le conclusioni di carattere teorico, che investono specialmente il tema dei rapporti fra politica e religione e il problema della tolleranza» (p. 51). Nel Nazareno, infine, Toland si pone il problema del rapporto fra le tre religioni monoteiste, mostrando come «le reciproche ostilità che hanno segnato così profondamente gli sviluppi della civiltà orientale e occidentale siano legate sia a fraintedimenti e condanne indiscriminate delle rispettive posizioni, sia alla mancata distinzione fra precetti “noaici” della religione naturale e gli obblighi imposti ai diversi popoli da esigenze partico-lari di natura culturale, civile e politica» (p. 59). Anche in quest’opera emerge, da un lato, sia l’importanza della religione per la coesione sociale e civile, sia la riproposizione di un «modello di cristianesimo “interiore” astratto e perenne, adattabile ad ogni costesto perché privo di contenuto» (p. 63), dall’altro la lotta contro l’intolleranza e la pretesa di controllo delle coscienze e del potere politico da parte di minoranze che pretendono di essere in possesso della verità.
L’altro aspetto, l’affermazione del materialismo, è contenuto soprattutto nelle altre opere to-landiane, le Lettere a Serena (1704) e il Pantheisticon (1720). È nota la critica che Toland muove a Spinoza nella quarta lettera: non ammettendo come essenziale alla materia il movimento, «Spinoza avrebbe lasciato aperto un varco ai sostenitori della necessità di spiegare il movimento ricorrendo a un principio trascendente e avrebbe così vanificato il senso delle sue rivendicazioni dell’unità e in-finità del Tutto» (p. 42). Al contrario, la tradizione stratonica (che invece Bayle aveva accostato allo spinozismo) e Bruno, che Toland ben conosceva e di cui possedeva una rara copia dei dialoghi ita-liani probabilmente appartenuta alla regina Elisabetta, attribuendo alla materia oltre l’estensione an-che il movimento e la vita, come suoi attributi essenziali, escludeva radicalmente ogni possibile dualismo. Che sia questa la conclusione positiva condivisa da Toland non è possibile affermare; va-le qui piuttosto la critica ai dualismi Dio-mondo, spirito-materia. Nel Pantheisticon, invece, opera singolare e di difficile interpretazione a causa del suo presentarsi sotto diversi registri, in parte litur-gia filosofica, in parte trattato naturalistico, è possibile intravedere una sorta di materialismo stoi-cheggiante, in cui il mondo “infinito, eterno e dotato di inesauribile energia divina”, è formato di particelle indivisibili qualitativamente differenti tra loro; corpi inorganici non esistono. Ribadendo le tesi sostenute contro Leibniz, secondo le quali il pensiero e il movimento del corpo dipendono dal cervello e dal sistema nervoso, «Toland attribuisce ora tali manifestazioni all’attività del “fuoco ete-reo” evocato da Ippocrate, Orazio e Virgilio» (p. 69).
Quindi, se si assume come termine di confronto il materialismo e l’ateismo del Settecento, «si può forse parlare di Toland come di un deista in quanto, pur rifiutando una provvidenza partico-lare, egli ammette un principio d’ordine inalterabile nell’universo. Bisogna tuttavia ricordare che, com’è stato sottolineato di recente, il tipo di “deismo” che identificava il principio di vita nella na-tura con l’energia inesauribile della materia ed escludeva l’esistenza di una divinità trascendente non poteva essere definito, nei termini delle teologie sei-settecentesche, se non come una forma di vero e proprio ateismo» (p. 47).
Ma, al di là delle etichette con cui può essere qualificato il pensiero di Toland, rimane l’importanza di una filosofia che, all’inizio del secolo dei Lumi, pone l’esigenza di una radicale ra-zionalizzazione della religione e di una interpretazione naturalistica della realtà in vista di un’esistenza umana più libera.
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