Il fantasma dell’opera

Fabrizio Desideri, Il fantasma dell’opera. Benjamin, Adorno e le aporie dell’arte contemporanea
Il Melangolo, Genova, 2002

di Massimo Palma

“Den Geist habilitiert man nicht” (“non si abilita lo spirito”): con questa celebre formula l’Università di Francoforte suggellò nel 1925 la stroncatura del lavoro di abilitazione di Walter Benjamin, “Il dramma barocco tedesco”. Dal concetto fondamentale di quel testo, l’origine, possiamo partire per individuare qualche linea di lettura del libro di Fabrizio Desideri (“Il fantasma dell’opera. Benjamin, Adorno e le aporie dell’arte contemporanea”, Il Melangolo, pp. 182, 16 euro), una raccolta di saggi niente affatto rapsodica, ma intimamente coesa, la cui ricchezza teorica è difficilmente sintetizzabile in poche battute. L’origine, dicevamo, quell’Ursprung, secondo Benjamin categoria storica e non logica, che raccorda in sé la donatività eventuale e il moto di ripristino, un novum dal portato creativo e una tendenza alla ripetizione-riproduzione di sé. Su questa base concettuale si orienta l’interpretazione del celebre saggio sull’“Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (e della sua seconda versione: da decenni quest’opera aspetta un’edizione italiana simile a quella che è spettata alle tesi “Sul concetto di storia”), presente in filigrana – insieme a “Sulla facoltà mimetica” e alla “Teoria estetica” di Adorno – in tutto il volume, come orizzonte privilegiato delle problematiche attorno a cui si snodano le riflessioni del libro. Che non è un libro ‘su Benjamin e Adorno’, ma ‘a partire da Benjamin e Adorno’: alcuni tra gli elementi più complessi della speculazione dei due pensatori vengono usati come reagenti per ridefinire lo spazio estetico dell’arte contemporanea. Già, perché un fattore decisivo in gioco è proprio quel rapporto tra produzione e ricezione, kantianamente tra gusto e genio, che definisce la dimensione estetica come un ambito in cui qualcosa come la ‘coscienza’ entra in relazione necessaria con l’opera, quel segno, copia di un’origine, che resta fenomeno presente, apparente. In cui la relazione tra il segno e l’intelligenza del segno passa per l’eco provocata dall’urto della sensazione: il ‘fantasma dell’opera’. L’ambito tecnico-produttivo dà infatti origine – imitando la potenza generativa della natura – ad immagini; nel far questo rimette l’apparenza alla sua costitutiva ambiguità, la rende fenomeno da salvare. In questa scintilla si apre uno spazio, quello tra l’atto mimetico, la ‘facoltà mimetica’, e la sua condizione ideale, icasticamente definita ‘l’inattingibile somiglianza’, ossia l’origine irriducibile, sovraessenziale (da Platone a Plotino), che nel suo effetto nostalgico sull’arte consente il lavoro propriamente critico, da elaborare ancora una volta sulle apparenze. Di qui, dal nesso tra nostalgia e critica, viene illuminato il lutto che vibra nell’arte contemporanea come ‘espressione della negatività di qualsiasi volontà espressiva’, dove il Kunstwollen rimane il tratto dirimente, e segna così il destino della bellezza, legato alla produzione e alla morte delle apparenze. Riprendendo la digressione benjaminiana sulla qualità simbolica della bellezza di Ottilia nelle “Affinità elettive”, una bellezza che si libera nello svanire dell’apparenza, perimetrando una distanza da sé, Desideri vede nel bello una modalità di manifestazione del vero “quasi senza violenza”: la verità, la sua donatività aintenzionale, paradossale, nell’agire poietico ‘si concede’, ma secondo una misura terribile, seppur sopportabile. Tratto decisamente rilevante dell’argomentare di Desideri, poiché rimarca l’oscillazione costitutiva tra la dimensione ‘esotica’ dell’arte (elemento presente già nel primo Levinas) come esibizione di un’alterità che nella sua presenza vìola in qualche modo l’identità soggettiva del fruitore e del produttore (non c’è divaricazione tra le due figure), e l’altra sfumatura, ‘piacevole’, dove l’arte, nel fare segno, nel significare, riproduce un progetto. Si fa arte non producendo il bello, ma ‘nel bello’, nella morte delle apparenze. E allora è importante tematizzare questa sfera d’immagini che si apre tra il segno e la sua idea: per prendere sul serio il segno, l’opera, bisogna ricordare la sua idea e pensare il fantasma dell’opera nella memoria. Motivo da cui trae vigore anche il primo capitolo.
Prendiamo la dialettica interna tra Duchamp, emulo del gesto idealizzante di Mallarmé, e Bacon, alla ricerca di un’esibizione puntuale, choccante del segno, quasi un ‘questo qui’ della certezza sensibile, che sfugge a qualsiasi identificazione: nel campo di tensione istituito tra i due, tra la forza esibita della sensazione che nella sua materialità sfugge alla logica identitaria, onnifunzionale della tecnica, e la qualità puramente noetica del Grande Vetro duchampiano, Desideri individua, a dispetto di qualsiasi morte dell’arte, il carattere performativo comunque assegnato alla presenza dell’opera. È segno di una capacità della dimensione artistica, interna all’orizzonte tecnico, di tener ferma la ferita da cui prende avvio, ‘mimando’ un improducibile: il segno lasciato all’aisthesis è proprio il fantasma della dimensione mnemonica cui l’arte fa cenno. Ma la memoria non fa che rinviare a sua volta alla potenza generativa della natura. La conservazione del tratto irriducibilmente critico del fare artistico sta tutta nel margine offerto dal segno alla memoria. In questo senso l’opera d’arte è platonicamente il ‘metaxy’, mediazione partecipativa tra diverse sfere, costitutivamente esposta (resta forte l’eco hölderliniana di molte pagine) nell’abisso tra figura e idea, offerta, nel momento della sua presenza, all’ascolto della coscienza, che la ‘ricorda’ esposta alla virtualità dal suo carattere fenomenico. Riprodotta, è vero, ma in una mimesi performativa.
Sul tema della memoria, nella sua relazione con l’oblio, si incentrano alcune delle divergenze rilevate nell’ampia riflessione dedicata nel terzo capitolo al carteggio Benjamin-Adorno: dall’“Hornberger Brief” di Adorno (in cui paventa il rischio per l’immagine dialettica benjaminiana di sprofondare in un’immagine collettiva à la Jung invece di presentare l’autoesposizione della società), al disaccordo sul “Baudelaire”, passando per le diverse letture di Kafka, Desideri instaura un confronto serrato che intende in qualche modo restituire fecondità al ‘divergente accordo’ tra i due. Da un lato Adorno – trattato approfonditamente nel sesto capitolo – nella sua ostilità all’origine come ‘Primo evidente’, noeticamente afferrabile (nell’intuizione categoriale di Husserl egli avverte la feticizzazione di un essere indeterminato), spinge la crisi dell’eidetico fin quasi ad assorbire la dimensione estetica in un’intenzione allegorica, e affida così un ruolo soterico alla memoria della natura nel soggetto. E l’opera d’arte, pur di mantenere il brivido della sensazione e non far precipitare la coscienza nell’orizzonte delle res, si dissolve, rendendosi interna all’aisthesis: lo spazio dell’alterità è custodito nell’affinità mimetica. Dall’altro Benjamin, cui l’autore attribuisce un decisivo ascendente platonico, costruisce una dialettica tra gioco e apparenza capace di sfruttare la dinamica conflittuale del fenomenico: ne scaturisce così il concetto di ‘seconda natura’, atto a preservare la produzione artistica dalla deriva riflessiva di una dialettica soltanto negativa.
Rovesciata di segno, l’origine come scissione è ancora il polo di riferimento dell’articolata analisi del quarto capitolo sul feticismo connaturato a moda e modernità. Esercitata sull’apparenza, la negazione feticistica della consistenza generativa dell’origine include la stessa capacità di sguardo. E non è verso una filosofia della storia riduttiva di un giovane Caillois, né verso la beatitudine assegnata all’‘acedia’, che si orienta il Benjamin del “Passagenwerk”: il suo impulso illuministico schiva il rischio di fermarsi a quella suprema passività sospirata da qualche membro del Collège de Sociologie degli anni Trenta come risorsa contrapposta al declino del sacro. L’inversione tra cosa e coscienza, caratteristica del feticismo ed esemplificata nella merce, viene letta, secondo lo schema della ‘teologia inversa’ di cui parla Adorno nel carteggio su Kafka, come possibilità negativa del ricordo. La merce si fa esibizione simbolica della forma dell’oblio: in essa, proprio mentre smarrisce la propria autonoma consistenza di cosa apparente, resta aperta la promessa di una conciliazione anamnestica tra la conoscenza e la materia, la coscienza e il segno.
La posta in gioco, anche politica, è la tenuta di una figura coscienziale che sappia ‘lasciare il segno’ (come recita l’ultimo capitolo del libro, una messa a punto dei temi trattati in forma di commiato ai lettori): il nesso tra l’utilità tecnica e la gratuità artistica si rinviene nella progettualità, non tanto istituzione di un mondo – è netta l’antitesi con la ‘Eigenwüchsigkeit’ heideggeriana, la possibilità per l’arte di essere origine di se stessa –, quanto medium di un rapporto fecondo, di impronta né storicistica né naturalistica, tra mente e mondo. In questo quadro si saldano due considerazioni, svolte in luoghi diversi del testo: se nella conclusione il gesto di Duchamp viene reinterpretato come un’interrogazione ‘ironica’, ‘distaccata’, rivolta al nucleo contemplativo antecedente l’agire pratico, nel quinto capitolo (p. 145) viene ricordata la violenza che presiede a ogni gioco: nella coappartenenza tra i due poli scorgiamo la forza, e insieme la consapevole fragilità, della domanda sulla possibilità di una ‘techne politikè’. La risposta, affermativa solo in parte, conosce la doppia dipendenza di ogni tecnica (e quindi tanto dell’arte quanto della politica) dalla legge e dal caso, dalla necessità e dalla contingenza. La memoria deve installarsi nell’agire come elemento costitutivo di quella “pausa contemplativa” che lo anticipa: si fa garante di una violenza che fa parte del gioco. Ma allora, potremmo dire – forse ancora con Hegel – che un’altra forma di vita sarà passata. Nella memoria.
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