An der Zeitmauer

 

 

Ernst Jünger, An der Zeitmauer
Ernst Klett, Stuttgart, 1981

trad. It. Al muro del tempo
Adelphi, Milano, 2000

di Nicola Zippel

Ricca di immagini e suggestioni, la prosa jüngeriana svolge un’acuta riflessione sul tema della temporalità, attraverso un percorso che procede nelle due forme, talvolta parallele, più spesso convergenti, della considerazione metafisica e del racconto mitologico. Jünger, qui come in altri luoghi della sua produzione, conduce il lettore dinanzi all’abisso di un pensiero tragico privo di consolazione e, nel medesimo gesto, ne dirige lo sguardo verso una visione più complessa e illuminante del reale. Dotato di una filosofia estremamente colta, lontana da qualsiasi forma di sterile erudizione, lo scrittore tedesco riesce a parlare delle cifre fondamentali caratterizzanti la propria epoca, connettendole in maniera esemplare, sebbene a volte troppo oscura fino ad apparire quasi oracolare, alla totalità metastorica del tempo nel quale hanno svolgimento e significato.
Lo scritto “Al muro del tempo”, che dà il titolo all’intera opera, è preceduto da un altro testo, il quale funge come una sorta di introduzione, “Tempo misurabile e tempo del destino. Riflessioni di un non astrologo sull’astrologia”. Esso può dirsi un’introduzione, dal momento che lo stesso l’autore ne riconosce il carattere propedeutico e funzionale alla seconda e più corposa parte del libro. Quel che dell’astrologia interessa Jünger, il non astrologo, non è tanto il fenomeno della sua diffusione come tale, quanto ciò a cui questo fenomeno rinvia e di cui esso è solo una manifestazione superficiale. Il diffondersi dell’astrologia segnala, agli occhi attenti di Jünger, l’esigenza da parte dell’individuo di rapportarsi ad un linguaggio che non usi i segni della misurazione e della scientificità, bensì quelli del destino e del gioco. A differenza della scienza, l’astrologia non ha la pretesa di spiegare in quale modo le cose debbano andare né come andranno di necessità; né l’astrologia deve mai avere una tale pretesa: «L’astrologo che si dà pena affinché la sua visione sia riconosciuta come scientifica si muove quindi nella direzione opposta; il successo a lui gioverebbe tanto poco quanto agli scacchisti la scoperta dell’automa che gioca a scacchi» (p. 34). Il valore del carattere mantico dell’astrologia non sta, infatti, nella sua possibile veridicità, ma si fonda in primo luogo nel ricollocare al centro del discorso l’uomo, ogni singolo uomo nel suo relazionarsi all’ordine cosmico. «Se l’astrologia servisse anche solo ad affinare lo sguardo nei confronti dell’insopprimibile peculiarità dell’uomo, ciò sarebbe già molto in un’epoca in cui tale peculiarità viene cancellata, occultata, degradata come non mai» (p. 35). La dimensione aperta dallo sguardo astrologico conduce l’individuo dinanzi alla propria singolarità, la quale dev’essere osservata sotto una nuova luce, che disveli come il modo della condizione tecnico-scientifica privi il vivere di ciò che gli è più intimo: il destino personale. Con la nascita di ogni uomo avviene ogni volta il sorgere di un nuovo mondo, la cui singolarità è, nel profondo, irriducibile a qualsiasi assorbimento da parte di una realtà comunitaria e statuale, che inevitabilmente si aggiunge a posteriori e perciò non riveste alcun carattere essenziale. «Qualsiasi dottrina affermi che l’uomo “a priori” nasce per lo Stato o per la società è una falsa dottrina. L’uomo nasce per vivere il proprio destino» (p. 62). Vivere il proprio destino significa altresì essere consapevoli di esistere in un tempo differente da quello misurabile mediante le determinazioni scientifiche, un tempo che ogni individuo si trova ad avere con la propria nascita e di cui può disporre per dare un senso e una profondità al vivere: «Il tempo non dà solo la cornice della vita, è altresì l’abito assegnatole dal destino. Non pone semplicemente dei limiti alla vita, ne è anche il patrimonio» (p. 38). L’astrologia non rivela, però, qualcosa di nuovo, ma rappresenta il sintomo del ritorno alla coscienza dell’uomo della presenza di un “fondo originario”, radicato in un tempo antico, ormai occultato dallo sviluppo scientifico, ma non per questo cancellato. Per il tramite del discorso astrologico «vengono rianimate forze rimaste a lungo sopite» (p. 37), che appartengono all’essenza dell’essere umano, pur trascendendola; ed ogni uomo ha il sentimento insopprimibile «che vi sia qualcosa d’altro, di infinitamente grande» (p. 56), che l’astrologia non rivela per la prima volta, ma che consente di manifestarsi nella dimensione temporale, non quella scientifica, bensì dello spirito. Non ci troviamo, però, di fronte ad una ripetizione, che abbia sede nella storia e sia calcolabile, ma ad un ritorno, al ricongiungimento di ogni uomo con la propria individualità e il proprio destino. Non da solo, però, l’uomo riesce a cogliere la possibilità di un tale ricongiungimento e a leggerne le modalità di realizzazione; ha, perciò, bisogno dell’astrologo, che assume le sembianze di “colui che si aggiunge”. L’astrologo, in virtù della sua caratteristica di muoversi al di fuori della scienza e della storia e per la sua facoltà di rapportarsi al senso dei grandi cicli cosmici, «non perde mai di vista l’innata dignità dell’uomo» assegnando «all’individuo un rango superiore rispetto a quello che gli possono accordare il pensiero astratto, un’astratta regola distributiva» (p. 65).
Nella seconda e più complessa parte del libro, intitolata propriamente “Al muro del tempo”, la figura dell’astrologo passa in secondo piano, lasciando spazio al discorso generale di cui esso rappresenta un elemento particolare seppur significativo. La riflessione jüngeriana, tuttavia, ha inizio con un’ulteriore osservazione sulla natura dell’oroscopo, in special modo sul suo carattere ciclico, dove il tempo non è un’evoluzione lineare storico-biologica che va descritta secondo modelli scientifici, ma è bensì il tempo del destino, il quale dev’essere interpretato da uno sguardo che sia in grado di porsi al di fuori e alle spalle della storia. Tale è lo sguardo dello spirito, che ci parla dalle profondità della terra, dove la realtà non è ancora illuminata dalla luce della coscienza storica; luce che, tuttavia, non è sinonimo di chiarezza, giacché non nella storia, bensì nel mito rifulge l’origine primordiale della spiritualità del mondo. E’ nel racconto mitico e non nella descrizione storica che, per l’uomo, è possibile ritrovare la consapevolezza di appartenere alla realtà indivisa dell’universo. Cosa appare, chiede Jünger, «con maggior chiarezza ai nostri occhi: la città di Troia fatta vivere dagli inni omerici o quella ricostruita dallo spirito storico con il suo metodo? (…) E quale Cristo è più vitale, quello storico o quello dei Vangeli?» (p. 101). L’astrologia, come la fiaba ancor più originariamente, parlano ancora di uomo indiviso, non separato dal contesto universale, un uomo che vive in contatto diretto e immediato con il mondo, con le sue cose, le sue piante e suoi animali. Questo perché astrologia e fiaba, ogni volta di nuovo, nell’atto vivo della loro comunicazione, si collocano su un piano metastorico, perché parlano di ciò che è prima e al di fuori della storia. Esse sono più originarie del mito stesso, poiché in questo compare già l’eroe con la propria genealogia e quindi legato ad una storia. «Sul conto del re della fiaba – scrive Jünger – non si possono nutrire dubbi; il suo rango si fonda totalmente sull’essere. Il re del mito, invece, è già sorretto dall’ordine (…) L’eroe della fiaba comprende la terra, possiede un intuito naturale (…) Egli è caro alla terra e mai ci viene raccontata la sua fine» (p. 135). Il mito ha già in sé i germi del proprio indebolimento, perché in esso l’uomo agisce insieme agli dèi contro i figli della Madre Terra e, senza l’aiuto di Eracle, gli dèi non possono imprigionare i Titani, i quali, tuttavia, non sono con ciò distrutti. D’altra parte, Eracle stesso, simbolo dell’uomo, è figlio prediletto della terra e, come tale, non esita a partecipare alla rivolta dei Titani contro gli dèi, manifestando la tendenza eterna della propria natura combattuta tra la sfida e il continuo ritorno alla madre. I Titani abitano l’età dell’oro che, simile a quella di un bambino, non vive nell’impoverimento della lotta contro la terra guidata dalla paura e diretta verso l’ordine economico; lo stile dell’oro non è la storia né la scienza, ma la poesia, la quale «riesce ancora a creare attingendo all’indiviso» (p. 128).
L’indiviso, materia e forma del poeta, dell’astrologo, dell’eroe fiabesco, benché imprigionato insieme ai figli della terra, non è, al pari di essi, distrutto, ma è sempre prossimo al ritorno ogni volta che la storia dell’uomo attraversa svolte epocali e pone l’individuo alle soglie del muro del tempo. L’età della tecnica, figlia della lavorazione degli utensili, rappresenta un momento storico in cui la spiritualità indivisa dell’universo sembra risalire dalle profondità stratificate della Terra, perché la tecnica imita forze spirituali andate perdute, configurandosi essa stessa come una proiezione dello spirito. D’altra parte, gli strati della Terra non vanno considerati solo secondo la loro realtà meramente fisica, ma anche per quel che li caratterizza nella loro cronologia la quale, tuttavia, non indica evoluzione biologica né successione storica, ma il modo d’essere indiviso del mondo e dello spirito che lo abita nel solco di una temporalità circolare. La storia del mondo non è soltanto la storia dell’uomo, perché non è qualcosa di inquadrabile nell’ordine rassicurante, e insieme limitato, della visione storica. Il mondo rinvia a ciò che oltrepassa sempre e ogni volta la storia, rinvia al mito e ancor più alla fiaba, «che ancora non conosce l’eroe mitico, e men che meno la personalità storica» (p. 134). Mito e fiaba non sono momenti prima della storia, ma al di fuori di essa e non riguardano solo l’uomo, ma insieme la natura e l’universo tutto. Occorre, perciò, che «abbandoniamo il piano della storia del mondo, in quanto storia dell’uomo, per volgerci a punti di vista eccentrici» (p. 83); dobbiamo così affidarci alla poesia e non alla storia, perché solo il poeta può dare scacco all’addomesticamento dell’individuo iniziato con l’azione di Eracle contro i Titani, e consolidatosi con lo sviluppo della tecnica e, prima ancora, con la nascita dello Stato platonico, dove la libertà del poeta non trova alcun posto. Là dove ha luogo l’insufficienza del pensiero, fa il suo ingresso la poesia; essa, però, è messa in crisi dall’avanzamento della tecnica, la quale priva l’uomo di un’istanza trascendentale, di un punto archimedico, sul cui fondamento l’uomo possa liberarsi dal giogo del progresso storico-tecnico e volgersi a sé, alla propria inalienabile individualità. Solo ritornando alla sua irriducibile singolarità, l’uomo incontra bensì la propria finitezza, ma con il medesimo atto disvela il luogo dove agisce ancora la sostanza indivisa. Il ritorno alla sostanza indivisa si attua nel movimento dell’uomo verso l’autocoscienza, perché in tale movimento il singolo è in grado di agire negli strati della storia della terra nel pieno della propria libertà e responsabilità. Con accenti stirneriani, Jünger descrive in poche intensissime righe l’evento poetico in cui si dà l’incontro del singolo con il proprio essere: «Né dèi né animali ne sono partecipi (…) nel trionfo del singolo si libera una potenza che non conosce misura, una libertà nel senso più profondo, che sfida ogni numero. E’ il Monte degli Ulivi, è la cella di Socrate. Essi sempre ci accompagnano» (p. 154). Il tema della libertà è decisivo in queste pagine del libro e, tanto più significativamente, esso si accompagna alla descrizione impietosa dell’affermarsi del dominio della tecnica sulle azioni umane. Emblema di un percorso verso un abisso sconosciuto, la tecnica viola, mediante la teorizzazione e la possibile applicazione del processo di fecondazione artificiale, persino il tabù del diritto ad avere un padre, ponendosi così al muro del tempo, dove spira il vento inquietante delle svolte epocali. «E’ il principio stesso che anima questo nuovo tipo di riproduzione e non la sua estensione – avverte Jünger – a essere più gravido di conseguenze, per il nostro destino, di quanto non lo siano state due guerre mondiali» (p. 231). Ma, d’altra parte, l’uomo è destinato comunque a trasformarsi e, in quanto individuo, si erge come essere libero pur nella determinazione del fenomeno della tecnica il quale, per i suoi risvolti epocali, solo superficialmente interessa il corso storico, intrecciandosi dal profondo con il tempo della terra. In questo ha luogo la stessa libertà umana, la quale consiste nel non poter altro che agire, un agire che, espressione di un singolo autocosciente, è, da una parte, un agire verso le profondità della terra, come avviene nell’esecuzione degli scavi archeologici, dove «non solo l’uomo crea uno strato, ma lo compenetra di spirito» (p. 190); dall’altra parte, esso è un agire che sfida le forze contrarie alla terra, come è testimoniato dalla costruzione del parafulmine, «un primo segnale della rivolta dei Titani, una nuova protesta dell’antica Madre contro il dio dell’universo», l’antica Madre che si serve «dell’intelligenza del suo potente figlio» (p. 197). Tutto ciò, spiega Jünger, deve farci comprendere che «il piano dell’uomo agisce all’interno del piano della creazione (…) l’agire all’interno, da parte del piano dell’uomo, è propriamente un agire oltre» (p. 180) e, dunque, un porsi volontario e libero al di fuori della storia e dello Stato, giacchè «nello Stato non può esservi, né è lecito vi sia, pieno libero arbitrio. Colui che vuole pronunciarsi sulle cose ultime deve porsi al di fuori dello Stato. Questo è il suo segno distintivo, il suo destino e, quando gli astri lo impongano, la sua fine» (p. 253).
Il fuoriuscire da parte dell’uomo–singolo dai confini della dimensione storico–statuale, non si compie in uno sprofondare nichilistico ma, al contrario, si svolge come una risalita dell’individuo libero e consapevole verso una nuova configurazione di senso. «Attraverso rapide e cateratte – scrive Jünger adoperando un’immagine che esemplifichi le difficoltà del percorso da compiere – il salmone risale le acque fino ai laghi montani. Perde di peso, perde anche il suo colore smagliante, ma lassù ad attenderlo vi è un nuovo senso» (p. 194). L’agire umano, dunque, si muove nell’alveo di un divenire, cui conferisce senso guidato dalla propria attitudine libertaria e in cui, nello stesso momento, ritrova il luogo originario dove attuare il ritorno al proprio essere. L’uomo è l’affascinante figura dell’immanenza portata costantemente alla trascendenza, figlio privilegiato della Madre Terra, dal momento della sua comparsa, in primo luogo nel racconto mitologico, egli ha decretato la fine dell’età dell’oro e, insieme, non ha mai smesso di ricercarla attraverso gli strati della corrente metastorica del tempo cosmico. Come avvenne all’origine, anche nell’epoca moderna l’uomo sfida nuovamente gli dèi sino a rovesciarli, sino a decretarne la morte, ponendosi con ciò la muro del tempo. Con la morte di Dio, si intravede quella «connessione teologica fra catastrofe planetaria e immenso dispiegamento della potenza umana, che è ai suoi inizi» (p. 256), connessione colta acutamente dal genio nietzschiano. La fine degli dèi, tuttavia, non comporta quella delle Chiese le quali, al contrario, restano ancor più significativamente le dimore in cui è possibile per il singolo ridestare la coscienza del valore irriducibile della propria esistenza. La teologia è, dunque, indipendente dalla fine toccata in sorte agli dèi, in virtù del suo avvicinamento alla metafisica, la quale, a sua volta, «resta in ogni caso, anche indipendentemente dalla teologia, un possibile ponte verso la trascendenza» (p. 260). Solo una visione di carattere metafisico permette di volgere uno sguardo sinottico al corso delle cose, uno sguardo che saldi la frattura creatasi tra la prospettiva teologica e quella fisica e sia in grado di cogliere lo scontro svolgentesi al fondo del reale, tra i vincoli del diritto paterno che conducono al nichilismo del Lavoratore e quelli del diritto materno, cui fa riferimento l’individualità anarchica dell’uomo–singolo. Egli è destinato, pur fra tragiche sofferenze, a prevalere, «per il semplice fatto che la madre incarna di per sé il fondo originario, e da esso genera» (p. 271).
Coniugando fede e coscienza, con l’ausilio del culto e di “colui che si aggiunge”, sia esso astrologo o sacerdote, l’uomo può andare ancora oltre la fedeltà all’antica Madre e cogliere la sintesi che unifica padre e madre in una visione puramente spirituale, dove la personalità si muta in abnegazione e il figlio ritorna consapevolmente nel grembo originario. Mai, però, v’è in Jünger annullamento dell’individuo, perché l’essere del singolo si completa nella trascendenza e si compie nel tempo.

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