Metafisica degli accidenti

 

 

Guido Traversa, Metafisica degli accidenti. Dalla logica alla spiritualità: il tessuto delle cose
Manifestolibri, Roma, 2004

di Massimiliano Biscuso

Il panorama filosofico italiano (e non solo esso) sembra essere caratterizzato in questi ultimi anni da una vera e propria rinascita dell’ontologia, cioè dalla restituzione di legittimità alle indagini che non si limitano a riflettere sul linguaggio o le modalità di conoscenza – le quali danno per scontato il fatto che “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”, cioè che la realtà extra-linguistica ed extra-mentale è inattingibile –, per riproporre la necessità di parlare delle cose. Lasciata alle spalle la noiosa (e falsa) alternativa “analitici o continentali”, si è intrapresa una ricerca intorno all’essere, destituito di ogni aura profetica di sapore heideggeriano, perché essere-delle-cose, per riformulare domande quali: che cos’è una singola cosa? cosa significa fare esperienza? Domande che appaiono inutili, perché le risposte sembrano scontate, e che invece sono le domande fondamentali della filosofia, perché impongono un ripensamento radicale del senso comune, dando luogo a soluzioni impreviste e feconde nelle applicazioni.
Il breve ma denso libro di Guido Traversa si iscrive in questo mutato panorama. Come indica lo stesso titolo, nell’indagine si intrecciano due distinte istanze: da un lato la ricerca ontologica sulla “cosa”, sui “fili” di cui è intessuta ogni singola cosa (ente naturale o evento storico o atto umano), ricerca che si articola su diversi piani con un grado crescente di complessità dovuto all’oggetto stesso indagato; dall’altro una meditazione sull’esperienza umana, che conduce dall’indagine onto-logica al riconoscimento del valore spirituale di ogni esperienza. È l’intreccio di queste due istanze a dare il tono al libro, che, pur volendo essere “un libro di filosofia”, con i suoi tecnicismi e l’aridità loro connessa – anzi, va detto che una delle caratteristiche del pensiero di Traversa è quella di utilizzare un vocabolario decisamente classico, con il recupero addirittura di alcune locuzioni tomiste –, è insieme anche una riflessione personale, teoreticamente stilizzata, sul proprio itinerario esistenziale, che si condensa in alcune massime dal sapore quasi sapienziale (mi riferisco in particolare alle Nove tesi di antropologia filosofica).
Dunque: che cos’è una cosa? Se noi pensiamo una singola cosa, non possiamo pensarla come una pura identità, le cui diverse caratteristiche appartengono necessariamente ad essa, tanto che potrebbero essere analiticamente dedotte dalla sua definizione, perché in questo caso tutti quegli enti che possono essere identicamente definiti sarebbero tra loro indistinguibili: se Socrate, Callia e Simmia sono uomini, allora Socrate, Callia e Simmia sono identici tra loro, perché identicamente uomini. Ma noi li distinguiamo: perché? Perché essi si differenziano tra loro per delle caratteristiche che possono essere dette, in senso ampio, “accidentali”, in quanto “accadono” agli enti senza che le loro caratteristiche essenziali (e quindi comuni) vengano meno. Fin qui, si dirà, nulla di nuovo: si tratta in sostanza della lezione della filosofia classica antica. L’originalità (e la difficoltà) della indagine di Traversa sta nel tracciare le linee di una metafisica, cioè di un’ontologia fondamentale (da distinguersi dall’ontologia applicata, cioè dall’indagine su singoli campi dell’essere), non delle essenze, del tratto comune e identitario degli enti, ma degli “accidenti”, cioè di ciò che accade agli enti e li fa tra loro diversi e in se stessi delle unità non monolitiche, plurali e articolate (delle “identità in sé distinte”). Insomma: la singola cosa è quello che è non solo per ciò che le è essenziale (per Socrate, che è uomo, il suo essere un vivente dotato di razionalità), ma altrettanto per ciò che le accade di essere (la propensione di Socrate ad essere filosofo, la proprietà di essere maschio, libero, ateniese, ma anche aspetti del tutto casuali, accidentali in senso proprio, come l’ essere camuso, calvo, marito di Santippe ecc.), cioè le condizioni della sua concreta esistenza. Dalla prima alla seconda c’è uno scarto, che rende indeducibile l’esistenza dall’essenza. Facendo un passo innanzi si potrebbe dire: la singola cosa è quello che è divenuta, la sua “identità in sé distinta” è un’identità che non è già da sempre così, ma che si è fatta così.
Da ciò tuttavia non deriva alcuna forma di esistenzialismo: il problema non è infatti quello di narrare un’esistenza (raccontare gli accidenti) ma quello di coglierne la logica senza rendere i diversi aspetti della cosa note necessarie, e quindi analiticamente deducibili, della sua essenza; ovvero capire fin dove è opportuno spingere l’oggetto della conoscenza verso l’individualità, senza per questo perderne luote oggettività e quindi la commisurabilità con gli altri oggetti: questo è il significato da attribuire alla “metafisica degli accidenti”. È la scommessa adorniana di pensare un concetto che possa penetrare l’aconcettuale senza renderlo a sé simile, un “concetto che sia discussione di se stesso”, per usare le parole del filosofo italiano Luigi Scaravelli, di cui Traversa riprende chiaramente la lezione.
Siamo nelle più astruse e inutili speculazioni filosofiche? No. Capire in generale cosa sia in sé la cosa, di quali “fili” debba essere intessuta, permette di comprendere più adeguatamente le cose che si danno nella concreta esperienza. L’esempio della medicina (di cui Traversa si è spesso occupato, per esempio come principale ispiratore del volume collettaneo Filosofia della medicina. La medicina che si cura di s 33é, manifestolibri, 2001) mostra immediatamente le ricadute che una tale ontologia generale ha per la comprensione di realtà che si offrono all’esperienza di tutti. Chiediamoci che cosa è la malattia e che cosa è il malato. Il senso comune ci suggerirebbe di rispondere che la malattia è una qualche realtà che colpisce il malato, e che il malato è colui che è portatore della malattia: quindi la malattia è una “cosa” del tutto indipendente dal malato, una realtà naturale che può essere classificata secondo criteri non arbitrari, come le specie botaniche. Eppure non esiste la malattia al di fuori del malato: in questo caso esisterebbe solo il malato, non la malattia. E allora come classificare le malattie, farne esperienze generalizzabili e utilizzabili per altri casi che pure appaiono affini? La metafisica degli accidenti ci insegna, al contrario del senso comune e delle sue aporie, che la malattia non è una realtà separata dal malato, ma un evento biografico, che si iscrive cioè nel vissuto del malato e le cui cause si intrecciano fino quasi a confondersi con la sua stessa esistenza. E tuttavia il malato non si identifica neppure con la malattia, la sua essenza non si identifica con la sua condizione di malato, altrimenti non sarebbe possibile alcuna terapia, cioè un mutamento profondo della sua condizione: la possibilità di cambiare sta innanzi tutto nella “molteplicità non omogenea degli accidenti”, o, detto più semplicemente, nelle diverse potenzialità insite nel malato che non è solo un malato. La possibilità di una medicina scientifica e della stessa cura efficace, dunque, non risiede solo nelle conoscenze obiettive delle cause delle malattie, dei meccanismi patogenetici e nelle terapie conseguenti, ma ha la sua condizione di possibilità ontologica nella “identità in sé distinta” del malato.
Quello che viene detto per la medicina vale a maggior ragione per le attività propriamente umane, per l’agire nella storia, tra gli altri uomini. Ogni azione umana non è semplicemente deducibile dalla natura dell’agente, da quello che egli “è”, ma neppure è a lui estranea e indifferente: si tratta di cogliere la “giusta misura” per valutare un atto – che non si iscrive in una biografia già totalmente data, ma la va a costituire e quindi anche a modificare – secondo una logica che è solo e sempre ricostruttiva, mai puramente predittiva. Dunque per conoscere la singola cosa, e a maggior ragione l’uomo e il suo agire, non solo si deve conoscere la sua essenza, ma anche le sue propensioni reali e i suoi accidenti (qui intesi in senso proprio), e la relazione tra propensioni e accidenti, che viene definita con la formula “ciò che manca”: “‘Manca’ solo ciò che è avvertito appunto come un qualcosa che deve esserci e che tuttavia pure non ci sarà mai completamente”. Il compito è dunque quello di cercare di comprendere qualcosa non per quello che essa è, ma per ciò che non è e a cui pure tende: “Ciò che ci manca veramente non può essere per noi inessenziale: ci manca ciò che sentiamo che ci costituisce intimamente ma non completamente, altrimenti non ci mancherebbe”.
Giunta a questo risultato, l’indagine non si allarga, come ci si potrebbe legittimamente aspettare, alla dimensione ontologica del bisogno, ma “ciò che manca” viene indagato nella dimensione logica delle forme di opposizione: dall’analisi emerge il primato della contraddittorietà sulle altre forme di opposizione (contrarietà, correlatività, possesso e privazione) e conseguentemente la libera inclinazione dell’ente, che tende per propria propensione a ciò che gli manca (necessità), ma non per questo è determinato da quella, altrimenti “ciò che manca” gli sarebbe essenziale e non gli mancherebbe (libertà). È di questa libera necessità che nel nostro agire facciamo esperienza, e fare esperienza significa innanzi tutto misurarsi con ciò che ci manca e insieme ci costituisce.
Perciò ogni atto umano ha un intrinseco valore insieme etico e politico, perché costitutivamente trascendente la situazione data, teso non a realizzare la propria essenza (a “diventare ciò che si è”, diceva Nietzsche citando Pindaro), ma a colmare la carenza della propria esistenza, a creare quell’ordine e quella misura che costituisce la “redenzione” delle cose. Le cose e quindi il mondo possono essere “redenti” solo se l’agire umano non è determinato ma è costantemente aperto, capace cioè di cogliere le novità e di trasformare il già-dato in qualcosa che ancora non c’è; con tutt’altro linguaggio si potrebbe dire: solo se il mondo non è assimilato all’ambiente in cui si muove con sicurezza l’animale determinato dai suoi istinti, ma rimane plasticamente aperto all’attività trasformatrice umana.
Le ultime pagine del libro, però, si soffermano a mio avviso troppo sbrigativamente sull’apertura del mondo e sull’attività trascendente dell’agire umano, che Traversa chiama “spiritualità”. Ma appare chiaro come tale spiritualità non sia esperienza totalmente altra dal mondo dell’uomo, accesso a una realtà separata di un’anima disincarnata: lo testimonia l’ultimo capitolo, che sottolinea con una breve raccolta di citazioni la possibilità di commisurare l’esperienza quotidiana con l’esperienza mistica, di cui si tracciano le linee essenziali di una fenomenologia che ne individua gli elementi costanti. Come dire: nell’esperienza mistica viene alla luce non la “fuga” verso il Totalmente Altro, ma il vero carattere dell’esperienza umana (spiritualità), che si apre a quello che non è perché è ciò di cui ha sempre bisogno.
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