Coscienza infelice" e "anima bella"

Paolo Vinci, "Coscienza infelice" e "anima bella". Commentario della Fenomenologia dello Spirito di Hegel
Guerini e Associati, Milano, 1999

Recensione


Recensione di Carlo Marino

Non è facile accostarsi a un'opera come la Fenomenologia dello Spirito hegeliana. Essa presenta numerose difficoltà, legate sia alla complessa circolarità che caratterizza la struttura generale dell'opera, sia alla comprensione dettagliata del testo e del suo linguaggio, noto per essere tra i più "criptici" nella vasta produzione filosofica di Hegel.
Per chi si accosta per la prima volta al pensiero hegeliano e alla Fenomenologia dello Spirito, ma anche per chi ha già familiarità con quel pensiero e con quel linguaggio, questo commentario di Paolo Vinci racchiude un valore didattico, diremmo, insostituibile.
Il lavoro si concentra su alcune parti dell'opera: innanzitutto l'Introduzione, in cui lo stesso Hegel descrive la dialettica immanente allo sviluppo delle figure della coscienza, poi la fine del terzo capitolo (il superamento del sapere intellettuale), l'intero quarto capitolo (l'Autocoscienza), con particolare riguardo alla trattazione della Coscienza infelice, e la terza e conclusiva parte del sesto capitolo della Fenomenologia (lo spirito) fino al compimento di ciò che Hegel chiama lo "spirito assoluto".
Il commentario al testo hegeliano si intreccia felicemente con le parti più generali: le introduzioni critiche, che forniscono un orientamento preliminare, nonché le conclusioni relative, successive al commento testuale, che problematizzano i nodi concettuali che il lettore della Fenomenologia ha incontrato nella comprensione del testo. La circolarità di questo intreccio tra commento letterale e parti più generali ha il doppio merito di orientare il lettore nelle coordinate di fondo del pensiero hegeliano, senza però mai portarlo alla superficie da quel profondo ritmo che caratterizza l'opera hegeliana, senza distoglierci cioè da quella "corrente fluida" delle vicende fenomenologiche che ci trascina nella lettura e a cui, per poter comprendere, è necessario abbandonarsi completamente.
L'autore interpreta in generale la Fenomenologia dello Spirito - questo cammino della coscienza che, attraverso una serie successiva di "figure", giunge fino ad autosuperarsi e a scoprirsi spirito, arriva cioè al superamento del dualismo, tipico della storia della cultura occidentale, fra soggetto e oggetto - come la risposta hegeliana al problema principale del suo tempo : "la necessità di trovare un punto di equilibrio fra l'instaurarsi di un fondamento unitario, di una sostanza comune, e il diritto degli individui all'affermazione della loro singolarità." (p.13)
Sotto questo angolo visuale, l'opera hegeliana possiede un doppio significato; si mantiene così, nello svilupparsi delle vicende fenomenologiche, come un doppio livello di interpretazione, due piani al tempo stesso sovrapposti e coincidenti.
Il primo è costituito dal problema, tipico nei pensatori dell'idealismo tedesco, della scientificità della filosofia ; problema non da poco, dal momento che una filosofia scientifica ha come condizione della sua esistenza la totale convergenza del sapere e della realtà. Dimensione scientifica della filosofia significa dunque, in altre parole, comprendere il proprio tempo, il senso che esso esprime, col pensiero. A questo problema il filosofo tedesco ritiene di aver trovato risposta proprio con la Fenomenologia.
Il secondo livello di lettura consiste nella soluzione proposta da Hegel al contrasto, caratterizzante la complessità moderna, tra affermazione dell'individualità e affermazione dell'intero. La Fenomenologia dello Spirito viene così letta anche come un modello filosofico di relazione tra gli individui e l'intero, ed esprime innanzitutto il ritmo del percorso storico di questa relazione : dal mondo greco dell'armonia fra individuo e comunità, alla libertà assoluta della Rivoluzione francese, tradotta in filosofia da Kant e sviluppata dall'idealismo tedesco. Si tratta, perciò, del percorso di formazione del soggetto moderno : la soggettività singolare emerge in questo lento processo e, da un punto di vista filosofico, arriva a costituirsi come risultato nella piena conciliazione tra piano dell'Universalità e piano della Particolarità. Con l'emergere del soggetto moderno si ha il superamento, per Hegel, della scissione intervenuta con la rottura del mondo etico degli antichi greci : quella scissione, tra sostanza comune e singolarità degli individui, che si presenta nel mondo romano imperiale e che si svilupperà nel mondo cristiano e nel mondo moderno.
Ora, la chiave per comprendere una tale soluzione la si trova, secondo l'A., proprio attraverso l'individuazione del ruolo e della struttura dell'autocoscienza . Da qui possiamo afferrare la centralità delle figure fenomenologiche della coscienza infelice e dell'anima bella, e l'importanza del loro segreto legame: esse rappresentano proprio la problematicità di tali nessi.
La coscienza infelice rappresenta e incarna precisamente l'intima contraddittorietà connaturata a quella che è la struttura generale dell'autocoscienza: autocoincidenza con sé che si forma attraverso la negazione dell'alterità. Si tratta di una sorta di unità di Universale e Singolare, unità che l'autocoscienza appunto realizza. La coscienza infelice, però, proietta fuori di sé, in un'essenza intrasmutabile quell'unità di universale e singolare che invece la caratterizza in quanto autocoscienza. "Attribuendo l'unità di universale e singolare, di uguaglianza e diversità solo a Dio, la coscienza infelice, proietta, invece, l'essenza dell'autocoscienza in un al di là irraggiungibile nel quale non può riconoscersi. In questo modo, essa si condanna alla singolarità, ad una identità 'colpevole' in quanto frutto di una separazione da quell'unità ormai saputa come essenziale, ma non riconosciuta come propria." (p. 14)
Questo è il dolore della coscienza infelice, il destino tragico di un "cristianesimo incentrato sulla singolarità, di una condizione in cui la certezza di se stessi, in assenza di una conciliazione con la sostanzialità del divino viene a rovesciarsi nella totale perdita di sé." (ibidem)
Dunque quell'infinito, o infinità, che sta a fondamento della singolarità individuale autocosciente, costituisce anche la possibilità della lacerazione tra essa e l'intero, e cioè il rischio della deriva nella propria unilateralità.
Così l'A. individua un segreto nesso tra la coscienza infelice, momento conclusivo della figura fenomenologica dell'Autocoscienza (IV capitolo), e l'anima bella, che incontriamo nel VI capitolo della Fenomenologia, subito prima del processo di riconoscimento che porta al sorgere dello spirito assoluto.
Dunque l'anima bella ha tutte le caratteristiche e i limiti dell'autocoscienza, ma posta in una sfera più alta, quella del VI cap. della Fenomenologia. Essa costituisce allora la possibilità di un'ultima, potremmo dire, suprema deriva all'interno del cammino che porta all'autorivelazione dello spirito assoluto. Questo perché l'anima bella si inserisce in quel processo che, attraverso la dialettica fra autocoscienza agente e autocoscienza giudicante e attraverso il riconosciemto, il reciproco rispecchiarsi di queste due autocoscienze, porterà infine al perdono del "male" (indissolubilmente legato proprio alla particolarità dell'agire individuale) : a quella conciliazione tra sapere e agire che costituisce l'elemento proprio dello spirito, riassunto nella nota formula hegeliana "Io che è Noi e Noi che è Io".
Lo spirito si caratterizza così, secondo questa visione della Fenomenologia, come un insieme unitario in cui però gli individui affermano la loro libertà e indipendenza nel reciproco rispecchiamento e riconoscimento. Ma questa soluzione hegeliana - il riconoscimento delle autocoscienze - si può leggere anche nell'altro livello, quello del sapere e della scientificità della filosofia: altro non è, dunque, che quell'unità tra pensiero e essere, quell'adeguazione tra realtà e pensiero che avviene quando la realtà, la "cosa" diviene un Sé, quando "nel riconoscimento, il soggetto ha ormai difronte un altro soggetto che è insieme uguale e distinto." (p. 18)
Nel momento in cui il sapere conquista la sua forma assoluta, esso si rispecchia nell'agire, ma l'agire mantiene sempre tuttavia un elemento che si potrebbe definire oracolare, è cioè connesso all'imprevedibilità dei risultati dell'azione stessa. Vi è dunque, ci dice l'A., una caratterizzazione prettamente coscienziale anche al più alto livello del percorso fenomenologico : nel superamento del dualismo tra sapere e oggetto, nell'autosuperamento della coscienza che diviene spirito, il livello coscienziale viene al tempo stesso mantenuto.
Ecco quindi come l'A., in questa particolare prospettiva dalla quale considera l'opera hegeliana (e cioè l'emergere della libertà della soggettività individuale), può definire la Fenomenologia dello spirito un'opera "aperta" : aperta verso l'alto, dal momento che il sapere assoluto - ultima tappa del cammino fenomenologico - fonda la possibilità dello sviluppo sistematico della filosofia nell'elemento puro del pensiero - la Scienza della logica - ; ma aperta anche verso il basso, nel momento in cui lo spirito, superato il dualismo della dimensione coscienziale, si scopre immanentemente legato a essa, scopre cioè quel legame d'essenza con la coscienza che costituisce la possibilità del suo sviluppo e della propria autorivelazione.
"Trova così conferma quanto Hegel dichiara nell'Introduzione : lo spirito come sapere assoluto non consiste nella semplice negazione della coscienza, nel superamento del suo dualismo fra il sapere e l'oggetto, ma, per realizzarsi, deve divenire consapevole di essere legato in modo immanente ad essa. Nel rischiararsi a spirito la coscienza viene meno, ma lo spirito continua ad aver bisogno di lei se vuole, secondo l'intento della Fenomenologia, calarsi nella propria 'esistenza mondana'." (p.18)
Il merito dell'A. consiste dunque in questa profonda lettura del famoso testo hegeliano. Leggere la Fenomenologia dello spirito in questa prospettiva ci mostra chiaramente il carattere di unicità che quest'opera ha nel complesso della produzione filosofica hegeliana, e ci svela interni e nessi che, forse, a una lettura non così approfondita dell'opera di Hegel, potrebbero non apparirci.


Intervista all'autore


Intervista a Paolo Vinci
di Carlo Marino


1) Lei ha scelto per il suo libro la forma di un commento letterale di alcune parti della Fenomenologia dello spirito, precedute e intervallate di volta in volta da introduzioni critiche, cioè da parti più generali che comunque seguono sempre la "corrente" delle vicende fenomenologiche.
L'intento dichiarato di tale forma è quello di fornire una guida per il superamento delle difficoltà legate alla comprensione e all'interpretazione del testo per chi si accosta al pensiero hegeliano.
Ma vorremmo sapere da Lei se questo approccio didattico a Hegel, e in particolare alla Fenomenologia, abbia semplicemente un valore strumentale - di utilità appunto per la comprensione -, oppure se non racchiuda in sé anche un valore schiettamente filosofico, ovvero se non rappresenti il miglior modo per accostarsi alla filosofia del pensatore tedesco.


P.V. - Sono convinto dell'esistenza di una "forza centripeta" dei testi hegeliani, per cui ogni discorso interpretativo non può, pena un rischio di esteriorità, non calarsi in essi per seguirne l'andamento. E' Hegel stesso a chiedere al lettore di abbandonarsi al ritmo della "cosa stessa", di seguirne direttamente lo sviluppo concettuale. In questo modo si ubbidisce allo spirito stesso della filosofia hegeliana, alla sua esigenza di immanenza, al suo rifiuto di considerazioni estrinseche. Ciò vale in particolare per la Fenomenologia che ci presenta un cammino della coscienza e in qualche modo ci impone di seguirne il percorso, quasi a riprodurne lo stesso itinerario di esperienza. Si tratta di non ridurre unilateralmente quella che Hegel chiama "la via del dubbio e della disperazione" soltanto al suo risultato, al suo esito finale. Si ottiene così una valorizzazione dell'intento pedagogico dell'opera, rivolta alla gioventù intellettuale, la cui formazione era sentita particolarmente urgente davanti alla radicalità del venir meno della vecchia situazione storica e culturale.

2) Veniamo ora alla scelta di incentrare l'attenzione su due momenti della Fenomenologia dello spirito - la coscienza infelice e l'anima bella - e sul nesso che li lega, scelta motivata, come ci pare di capire, dall'esigenza di far comprendere la centralità e il ruolo della struttura dell'autocoscienza all'interno di quel cammino fenomenologico che porta la coscienza ad autosuperarsi nello spirito e nel sapere assoluto. Questa struttura, l'unità di Universalità e Singolarità, caratterizza sia la coscienza infelice, in quanto momento dell'Autocoscienza, sia l'anima bella, ma in entrambe le esperienze si manifesta in maniera inadeguata, mostrando piuttosto le disavventure di tale unificazione.
Volevamo sapere da Lei semplicemente le ragioni di questa scelta, e cioè quali sono le caratteristiche e i limiti che accomunano queste due figure fenomenologiche ovvero quale esperienza dello spirito esse rappresentano.

P.V. - La centralità dell'autocoscienza sta, a mio giudizio, nel rappresentare la cellula germinale del dispiegarsi dello spirito. L'autocoscienza ha una struttura intrinsecamente contraddittoria e costituisce per lo spirito una ineludibile richiesta di soluzione, di riconciliazione. Lo spirito è tale nell'assolvimento di questo compito. L'autocoscienza è autocoincidenza raggiunta attraverso la negazione dell'alterità, così che nell'autoriferirsi non può prescindere dal riferimento all'altro. In quanto ha a suo principio l'"infinità", vale a dire la compresenza di identità e differenza, l'autocoscienza è se stessa solo nel rispecchiarsi in un'altra autocoscienza, da essa distinta, ma anche uguale. Per arrivare alla realizzazione di questa sua essenza, l'autocoscienza dovrà percorrere un lungo cammino, fino al riconoscimento fra autocoscienza giudicante e autocoscienza agente con cui si conclude lo spirito.
Per quanto riguarda la coscienza infelice, quello che le manca è proprio la capacità di riconoscersi in un altro uguale. Essa proietta la sua essenza in Dio e vive drammaticamente la sproporzione fra la propria vita finita, "trasmutabile" e l'in trasmutabile realtà divina. La coscienza infelice ha sì una corretta visione della propria essenza, come unità di universale e particolare, di identità e differenza, ma finisce col relegare questa essenza in un al di là irraggiungibile. Attraverso la presentazione di questa figura Hegel prende le distanze dalle forme di religiosità che considera inadeguate, quali l'ebraismo e il cristianesimo medievale, forme di devozione segnate da una inesorabile trascendenza e inaccessibilità del divino.
Nei confronti dell'anima bella, mi sono preoccupato innanzitutto di smentire che essa possa venir considerata, in virtù della sua armonia e autosufficienza, come la soluzione della contraddizione e della lacerazione della coscienza infelice. Da parte sua l'anima bella, pur nella consapevolezza della propria unità con la sostanzialità, mostra una totale incapacità di alienazione e di riferimento all'altro, che la conduce ad un inesorabile venir meno.
Se vi è una complementarità fra l'anima bella e la coscienza infelice è da individuare nell'essere entrambe queste figure l'incarnazione di una forma inadeguata di soggettività che è compito dello spirito pienamente dispiegato superare.

3) Nel passaggio fenomenologico dall'ultimo momento della coscienza infelice alla nuova figura della ragione, Lei vede un intervento del "per noi", di quel puro sguardo filosofico-speculativo che è già giunto alla meta (il Sapere assoluto) e vede come questa unificazione tra Universale e Singolare venga compiuta in sé, con la mediazione della chiesa universale attraverso la disciplina da essa imposta e accettata dal credente, ma non per la coscienza stessa.
In altre parole, se pure al sacrificio della singolarità autocosciente non corrisponde un movimento simmetrico dell'intrasmutabile, cosicché la stessa coscienza devota ancora non sa di essere "indiata" e rimane sempre sul piano della rappresentazione del divino, partecipando a un movimento che non è il suo, tuttavia il "per noi" coglie in questo movimento un contenuto che permette il passaggio alla Ragione, cioè all'unità di pensiero ed essere, perché in fondo la chiesa non fa che anticipare lo Stato moderno.
Ma se leggiamo tale passaggio alla Ragione come un movimento compiuto dal "per noi" hegeliano, allora in un certo senso tutti (o comunque molti) passaggi da una figura all'altra della Fenomenologia potrebbero essere così interpretati: come una serie di "forzature" compiute dal per noi hegeliano.


P.V. - La sua ricostruzione del passaggio dall'autocoscienza alla ragione ripercorre fedelmente l'interpretazione che ho cercato di dare a questa articolazione decisiva della Fenomenologia. L'intervento del per noi non deve costituire uno scandalo o visto come una forzatura. Mi sembra che in tutti i passaggi da un "momento" ad un altro l'intervento del per noi risulti determinante. Sappiamo che i momenti sono costituiti dalla coscienza, dall'autocoscienza, dalla ragione, dallo spirito e dalla religione. Al loro interno si dispiegano le figure, legate a significativi punti di condensazione dell'itinerario della coscienza ed espressione di sue specifiche posizioni. I "momenti", dal canto loro sono articolazioni logico-sistematiche dell'intero e richiedono l'essersi innalzati al suo punto di vista, quello della meta del processo. Potrei ricordare l'intervento del per noi anche nel passaggio dalla coscienza all'autocoscienza, dove l'intelletto, che costituisce l'ultima figura della coscienza, appare incapace di togliere la distinzione fra sé e l'oggetto e quindi innalzarsi ad autocoscienza.
Vorrei però dire di più. Il ruolo del per noi mi sembra legato al modo specifico di funzionare della dialettica nella Fenomenologia. Hegel stabilisce un'esplicita connessione fra la dialettica e l'andamento dell'esperienza della coscienza, intesa come movimento negativo. Sappiamo che si tratta di una negazione che produce ogni volta un risultato positivo, un nuovo oggetto con cui la coscienza dovrà di nuovo confrontarsi, così da essere definita "negazione determinata". Questo è un elemento genuinamente dialettico che Hegel manterrà anche nelle successive trattazioni del suo "metodo". Tuttavia la coscienza mostra un limite intrinseco, essa è priva di memoria, ritiene nel corso della sua esperienza di cominciare sempre di nuovo e non è consapevole della crescita, dello sviluppo che il nuovo oggetto rappresenta nei confronti di quello precedente. Non può quindi non essere accompagnata dallo sguardo del per noi, che individua i nessi e quindi la necessità del processo.
Tutto ciò, a mio parere, non costituisce un limite, ma dà un particolare valore alla Fenomenologia. Si mostra così infatti come quest'opera esibisca un dialogo fra lo spirito che costituisce l'essenza e la meta della coscienza e quest'ultima, un dialogo in cui entrambi gli interlocutori sono e permangono necessari. Il rischiararsi della coscienza a spirito non deve cioè essere inteso come un definitivo superamento della coscienza, ma solo la raggiunta consapevolezza del loro "bisogno" reciproco. Lo spirito è tale solo se abbandona la propria inerte solitudine, solo se si fa mondo, realtà storica, sapere finito. La dimensione della coscienza da parte sua, rappresenta un'apertura ad un'alterità incontrollata e inesauribile che fa sì che il confronto fra la filosofia e la realtà sia un compito inesauribile per quanto condotto a partire dalla consapevolezza della loro unità. Il compimento hegeliano, il sapere assoluto che viene assicurato dal cammino fenomenologico non vale per quest'ultimo che resta segnato fino alla sua meta dai tratti costitutivi della coscienza. Una volta raggiunto, il concetto di sapere assoluto potrà dispiegarsi in una dimensione di "etere puro" vale a dire di totale autocoincidenza e immanenza del sapere. Ciò varrà per le altre opere sistematiche di Hegel. La Fenomenologia resta però al di qua, di questa autoesposizione del sapere: essa può essere intesa come il laboratorio, il cantiere sempre aperto, nel quale la filosofia hegeliana si misura con la realtà, per giustificare la sua pretesa di esporre in termini speculativi i suoi ambiti decisivi: il pensiero stesso, la natura, la dimensione spirituale.

4) Un'ultima domanda sull'anima bella. Il suo limite consiste nel costituirsi a totalità solamente individuale: una soggettività che non agisce per non contaminarsi, e così resta dentro di sé, consumandosi in se stessa e finendo per autodissolversi. L'affermazione dell'individualità (anche in questa forma "alta"), senza il tratto essenziale dell'intersoggettività e del riconoscimento, non può mai - sembra dirci Hegel - arrivare a costituire l'elemento propriamente spirituale.
Ma qual'è allora, secondo Lei, il significato dell'inserimento da parte di Hegel di questa figura proprio in un momento precedente alla dialettica tra autocoscienza agente e autocoscienza giudicante, che porterà al perdono del male e al riconoscimento spirituale ? Si tratta di una sorta di ramo morto dello spirito, un ultimo ostacolo da superare ?


P.V. - Nell'anima bella è racchiuso un nodo decisivo per la comprensione dell'intera Fenomenologia. Questa figura costituisce contemporaneamente la premessa indispensabile e l'ultimo ostacolo per il compimento dello spirito. Non direi quindi un "ramo morto". La denuncia dell'autosufficienza dell'anima bella racchiude non solo la critica a una forma di soggettività unilaterale, a un'individualità che si sente portatrice di una "creatività divina", ma anche la resa dei conti con quella forma di sapere che Hegel considera come il prodotto più alto dei tempi nuovi. Un sapere che unifica pensiero ed essere, ma lo fa nella chiusura dell'autoriferimento. Si tratta di una posizione filosofica che successivamente sarà considerata propria di Hegel ed è quindi tanto più significativo che nella Fenomenologia compaiano pagine memorabili per sottolinearne i limiti.
Nello stabilire una corrispondenza fra l'anima bella e la coscienza giudicante Hegel sottolinea la necessità che il sapere non si arresti mai all'autocoincidenza, ma si misuri con il suo opposto più radicale, l'agire umano. Questo è il significato del riconoscimento fra la coscienza giudicante e la coscienza agente. Il fatto più significativo sta nel "sacrificio" richiesto alla coscienza giudicante, che si emanciperà dalla "pervicacia" dell'anima bella solo nel perdono, nel riconoscimento dell'altro come costitutivo della propria stessa essenza. Lo spessore antropologico di queste affascinanti argomentazioni hegeliane non deve farci dimenticare il loro valore epistemologico: la denuncia di ogni filosofia chiusa nel cerchio della propria totalizzazione e la fondazione di un sapere che senza abdicare all'autoriferimento, sappia confrontarsi con l'alterità di una realtà permeata dall'operare umano e quindi in perenne mutamento.

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