La Gloria
Emanuele Severino, La Gloria
Adelphi, Milano, 2001
di Lino Santoro
"Assa ouk èlpontai ". Cose che essi non sperano, così recita il frammento di Eraclito. Da qualche mese è in libreria il voluminoso libro di Emanuele Severino La Gloria il cui titolo completo include il frammento eracliteo già citato. Libro che, come lo stesso autore dichiara, rappresenta un debito nei confronti di chi, estimatori del suo pensiero, da anni, attendono risposte a domande lasciate in sospeso in quello che è certamente una delle sue opere più indicative eimportanti, cioè il Destino della necessità (1980), da cui si traevano le inevitabili conclusioni di un discorso che impegnava il filosofo sin dal 1964. Ma come accade spesso, in ogni autentico filosofare, le conclusioni non sono mai definitive, molte sono le sorprese che s'incontrano lungo il cammino a volte estenuante. E quello che l'autore ci offre in questo libro, in quasi seicento pagine, è una chiarificazione che nulla concede al lettore ma tutto alla tesi in questione. Nel consueto modo di argomentare, Severino, ci conduce verso le asperità del suo pensiero prendendo in considerazione, sotto una luce diversa, temi oggi al centro del dibattito filosofico quali, il dolore, l'intersoggettività e il problema connesso dell'alterità. Il tutto attraverso una prosa di non sempre facile lettura, che non mancherà, soprattutto su alcune importanti questioni, di regalare momenti di gioia, ma anche di pena, a tutti i cultori di un pensiero argomentato con rigore.
Il 1964 segna un'importante svolta nella filosofia di Severino. È l'anno della pubblicazione di un suo celebre articolo Ritornare a Parmenide (1964), che farà molto discutere, nel quale si stabiliva la necessità di rimeditare il senso delle parole: l'essere è e il non essere non è. Sono gli anni in cui Heidegger interveniva in una serie di seminari, dedicati a Parmenide, in cui sosteneva che, per allontanarsi definitivamente dal giogo della soggettività moderna, era auspicabile un ritorno all'inizio, precisando, però, che tale ritorno non sarebbe dovuto consistere in un ritorno a Parmenide. Severino stesso ci riferisce, in La legna e la cenere (Rizzoli, 2000), l'opinione di Gennaro Sasso secondo cui le parole di Heidegger sarebbero forse un'allusione alla tesi contenuta nel suo articolo. Ma cosa si deve intendere con ritornare a Parmenide? Come Severino preciserà in più di un'occasione si trattava di porre l'attenzione su queste semplici e pur inquietanti parole al fine di ripetere il parricidio platonico, che è il maggior responsabile del nichilismo d'occidente, ormai penetrato sin nelle più intime fibre della nostra cultura, che si è posto alla guida di tutto il mondo. L'età della tecnica, nella quale noi viviamo, esprime, più di ogni altra epoca del passato, la volontà di potenza, la volontà di poter produrre ogni cosa, persino l'uomo. Il nichilismo è pensare che ogni cosa proviene dal niente ed è destinata al niente. La cosa, priva d'ogni legame necessario con l'essere, può essere modificata a piacimento. Ma si tratta di comprendere che ciò è un'illusione: perché è impossibile che l'essere possa non essere. Tutto il passato e il futuro sono, nulla proviene da nulla, essi non sono né il semplice ricordo né la palpitante attesa. Il passato, così come il futuro, sono eternamente in salvo dal niente anche se di questo non abbiamo coscienza. Ogni cosa, compresi noi stessi, siamo e non potremo mai morire veramente, poiché, al pari degli dèi, siamo eterni.
Questo pensiero, qui semplificato, costituisce il tema cardine che, come in un poema sinfonico, ricorre nelle sue variazioni fino alla sua più autentica celebrazione espressa in questo libro. Da qui il frammento eracliteo, l'eternità è ciò che noi non speriamo. La Gloria è lo splendore incontrovertibile dell'eternità.
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