Ernesto De Martino fra religione e filosofia

Gennaro Sasso, Ernesto De Martino fra religione e filosofia
Bibliopolis, Napoli, 2001

di Marcello Mustè

Il volume che Gennaro Sasso ha dedicato alla figura di Ernesto De Martino si caratterizza per la critica, argomentata e convincente, di due luoghi comuni, che hanno segnato in profondità le interpretazioni più tradizionali del grande etnologo italiano, impedendone una comprensione adeguata. Il primo di questi luoghi comuni consiste nell'idea che la vasta ricerca di De Martino possa essere intesa senza confrontarsi con i problemi filosofici che, a ogni passo, ne sorreggono l'impianto, e che, a ben vedere, costituirono il centro stesso della sua riflessione. Il secondo luogo comune, che d'altronde non è estraneo al primo, riguarda la falsa opinione, che a mano a mano si è diffusa nella nostra cultura, secondo cui De Martino avrebbe "superato", e quindi "abbandonato", "avversato", se non proprio "demolito", l'idealismo di Benedetto Croce, proponendo una più "moderna" e aggiornata visione teorica, largamente penetrata dalle correnti del marxismo e dell'esistenzialismo. Il libro di Sasso fa giustizia di ambedue questi pregiudizi, restituendoci così, in tutta la sua articolazione e nel suo travaglio, la cifra del pensiero, al tempo stesso etnologico e filosofico (ma non per questo coerente nella tentata "sintesi" dei due momenti), di Ernesto De Martino.
Lo studio delle fonti e delle frequentazioni culturali è affrontato, soprattutto nei primi capitoli, con una puntualità estrema, e documentato anche con l'esame di numerosi testi inediti, conservati nell'Archivio demartiniano. La stessa biografia intellettuale è ricostruita in tutti i suoi passaggi, dal giovanile fascismo all'adesione al Partito comunista. I diversi autori che, in questa analisi, vengono evocati, da Macchioro a Buonaiuti, da Omodeo a Croce, da Cantoni a Banfi, da Lévy-Bruhl a Cassirer, fino a Enzo Paci e Nicola Abbagnano, costituiscono spesso l'oggetto di considerazioni specifiche, che illuminano non solo sui loro rapporti con De Martino, ma anche su un'epoca della storia culturale europea.
Al centro della ricostruzione, comunque, rimane il confronto di De Martino con la filosofia di Croce: un confronto tutt'altro che pacifico e scontato, vissuto sempre sulla linea di confine tra l'adesione e la critica; ma che, tuttavia, non venne mai meno, neanche nelle estreme, e incompiute, meditazioni sulle apocalissi culturali, di cui ci rimane soprattutto il ponderoso corpus de La fine del mondo. In questo senso può dirsi che quello di Croce rappresentò, dall'inizio alla fine, l'orizzonte filosofico entro cui De Martino volle inserire la propria originale elaborazione teorica. In effetti, dopo che, nel 1941, aveva pubblicati i saggi di Naturalismo e storicismo nell'etnologia, De Martino avanzò ne Il mondo magico (1948) una tematica sostanzialmente eversiva rispetto alla filosofia dello Spirito di Croce. In quel libro, analizzando la "crisi della presenza" della comunità primitiva, e descrivendola nei termini di una "coinonia" e di una indistinzione della coscienza con la natura, arrivò a indicare, nell'opera demiurgica dello sciamano, l'atto costitutivo e inaugurale del mondo colto. E Croce, letto il libro, ne scrisse per due volte nei "Quaderni della Critica", sollevando la famosa questione della "storicizzazione delle categorie"; ossia segnalando il rischio che, così interpretata, l'etnologia presupponesse un'epoca in cui lo spirito non fosse lo spirito, in cui le categorie non fossero le categorie, e da cui tuttavia, attraverso la mediazione magica, tanto lo spirito che le categorie avrebbero dovuto sorgere e affermarsi.
Come Sasso mostra, la successiva autocritica di De Martino, quale si legge nella Postilla per la ristampa de Il mondo magico e in Morte e pianto rituale, non risultò affatto risolutiva. E quando, alcuni anni dopo, prese a occuparsi delle apocalissi culturali, il medesimo problema della "storicizzazione" si ripropose, trasformandosi, e, anzi, si acuì. Ora, infatti, la "crisi della presenza" diveniva un rischio immanente e permanente nella vita dello spirito; e questa posizione si accompagnava all'obiezione per cui Croce, anche nei suoi ultimi scritti, aveva confuso la "vitalità" e il principio "economico", invece di considerare questo come lo sforzo perenne e inesausto di vincere e addomesticare, attraverso un'energia etica e "trascendentale", la forza bruta di quella.
Se il negativo, in tale contesto, tendeva ad acquistare, al di fuori del nesso categoriale, un proprio statuto ontologico, accadeva poi che De Martino (criticando non solo Croce, ma anche Marx) delineasse il fatto religioso in una maniera assai diversa da quella dell'idealismo: e lo intendesse nei termini della "destorificazione" mitica e rituale, che era poi, come Sasso sottolinea, una specie di estensione del potere taumaturgico un tempo attribuito all'operazione inaugurale dello sciamano. Onde la religione, lungi dall'apparire come una figura dell'"alienazione", o come una "rappresentazione" mitologica destinata a essere superata nella ragione filosofica, risultava come la necessaria risposta e soluzione al ricorrente, e sempre possibile, dramma critico della coscienza.
Vi era certamente, in tutto ciò, la tendenza, mai del tutto risolta, a rappresentare fenomenologicamente quelle categorie che, nella filosofia crociana, non potevano essere prestate ad alcuna fenomenologia. Ma questa tensione, ossia questo continuo e vario tentativo di traduzione fenomenologica della filosofia dello Spirito, significava anche la ricerca di uno spazio di pensabilità dell'etnologia, la quale, restando fermi alla struttura logica delle forme, non sembrava poter trovare un luogo epistemologico e uno spessore proprio di consistenza. Non a caso, quando, nel 1941, ebbe letto l'articolo su Percezione extrasensoriale e magismo etnologico, il suo maestro Adolfo Omodeo gli scrisse, con nettezza e, da parte sua, con coerenza, che "a rigor di logica la storia del magismo non esiste", perché la storia si può fare del positivo, non del negativo, "e il magismo è una potenza di cui ci si spoglia nel processo della ragione".
Il libro di Sasso getta una luce inedita su questa difficile problematica, e ritrova, proprio nelle differenti fasi e nei diversi momenti di questo itinerario, la grandezza e, direi, l'esemplarità dello sforzo teorico di De Martino.


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