Hölderlin e i Greci

Andrea Mecacci, Hölderlin e i Greci
Pendragon, Bologna, 2002

di Massimo Palma

Basta scorrere uno ad uno i nomi riportati nella prima nota del libro di Andrea Mecacci (Hölderlin e i Greci, Pendragon, Bologna, 2002, 14 euro), per rendersi conto della presenza di Friedrich Hölderlin nella critica e nella riflessione novecentesca: da Cassirer a Benjamin, da Kerényi a Rilke, per non dire dell'Adorno di Paratassi, emerge un interesse costante e quanto mai fecondo per l'opera del poeta di Brot und Wein, individuato, compreso e studiato come interprete originale di un Moderno guardato attraverso il filtro straniato e deformante di una grecità distante tanto dal 'mimetismo antimimetico' del neoclassicismo (secondo l'efficace paradosso usato dall'autore per definire l'opzione dei Gedanken di Winckelmann, ovvero l'imitazione di un popolo storico e non della natura), quanto dalle soluzioni weimariane di Schiller o di Friedrich Schlegel. Ma il testo di Mecacci mantiene una notevole autonomia rispetto alle più importanti linee interpretative che hanno spesso oscurato la specificità dell'originaria riflessione hölderliniana (spicca su tutti la controversa lettura fornita da Heidegger negli anni della cosiddetta 'emigrazione interna' - formula, sia detto di sfuggita, a dir poco grottesca).
Da anni dedito all'approfondimento e alla riattualizzazione della figura di Hölderlin (vedi ad esempio il suo saggio in "Antigone e la filosofia", a cura di P. Montani, Donzelli, 2001), Mecacci insiste coerentemente su un percorso ermeneutico affatto intrinseco agli scritti filosofici e poetologici dell'autore: il libro, diviso in quattro capitoli, affronta i temi che attraversano l'Hyperion e il frammento sul Significato delle tragedie, le traduzioni da Pindaro e quelle sofoclee, e ogni scritto che aiuti a restituire un'immagine esaustiva del confronto con la grecità. Con precisione scandisce le tappe di una convergenza, quella tra una poetica che senza soluzione di continuità si rivela riflessione metapoetica e una biografia che nel confronto con l'Ellade approfondisce le proprie ferite, fino al tragico esito dei quarant'anni di follia trascorsi nella torre di Tubinga. Da questo tracciato emergono molteplici fili conduttori che Mecacci svolge con acume e con lodevole chiarezza, sfuggendo saggiamente alla tentazione di complicare i già difficili passi del poeta.
Ma chi sono i greci di Hölderlin? Pindaro e Sofocle, certo, tradotti e stravolti, sottoposti a quella metaphrasis che tanta ilarità causò nelle geniali e molto miopi menti della Goethezeit, ma anche Platone ed Eraclito, l'uno polo iniziale di una riflessione estetica arenata nell'abisso tra sensibile ed intellegibile, il secondo simbolo - altro inizio - di un travaglio speculativo sulla riproduzione dello spirito letta come divenire storico (emblematico il frammento Das Werden im Vergehen): nella materia del reale si danno poieticamente intermittenze e figure dell''armonicamente opposto', concetto eracliteo atto a definire l'equilibrio tra opposti inconciliabili che si realizza in modo 'cairologico' nel poetico. E poi, ancora, tra i greci di Hölderlin risuona assordante l'assenza di Aristotele, la cui Poetica, sull'asse tra riconoscimento e rivolgimento, è termine irrinunciabile di confronto, dove l'analisi tecnica dello Stagirita è dilatata fino allo sfondo ontologico dell'umano. Il chiasmo tra spirito e materia, contenuto e forma, così faticosamente elaborato nel frammento Sul procedimento dello spirito poetico, ricolloca pertanto sotto un profilo metapoetico e filosofico il collasso 'metaforico' del possibile nel reale. Nella concezione hölderliniana il reale appare allora come la trama dialettica e intimamente storica dei tentativi di configurare poeticamente le condizioni irrappresentabili dell'esperienza. Ben più di un'intuizione, quindi, la coincidenza stabilita da Hölderlin tra i generi poetici e le categorie modali rimarca il nesso esistenziale che rende possibile il componimento poetico.
È proprio qui che la Grecia di Hölderlin appare come assenza o rimozione - individuata ben prima di Nietzsche - dell'elemento orientale, aorgico, caotico della propria essenza, proprietà estranea della tradizione occidentale: un mito, ma privo della dimensione normativa e carica di senso che questo rappresentava nell'anima collettiva ellenica. Mito che, per riprendere le conclusioni che Mecacci svolge per bocca di Barba, è solo il volto prestato all'enigma esperienziale che l'uomo è per se stesso. Eppure, se consapevolmente incarnato dalla parola poetica, esso risulta ad ogni modo paradossale risorsa che media tra l'umano e il divino assente, organizzando 'organicamente' l'aorgico, il caos del possibile: la dialettica tra entusiasmo e calcolo delle leggi formali (secondo l'efficace formula di Axel Gellhaus) ripresenta la soggettività poetica come Zwischen, frammezzo, 'rigorosa mediatezza' che plasma la materia sensibile e la reinventa per la comunità. Non deve sfuggire tuttavia il sentiero alternativo alla Versöhnung idealistica su cui Hölderlin si muove, nonostante la comune terminologia, e che lo avvicina, rendendolo popolare, ai tanti anti-hegelismi del Novecento: la 'mitopoietica' che Mecacci, sulla scorta di Givone, rintraccia nell'estetica hölderliniana, è strutturalmente connessa al fallimento e alla sua articolazione letteraria, vincolata allo strumento della cesura.
Nel filo rosso che lega l'Hyperion, il romanzo epistolare dalle cinque stesure (1793-1799), agli scritti poetologici si snoda altresì, sulla traccia dell'antinomia Platone-Eraclito, la vicenda del confronto con l'io fichtiano, che pone da sé la scissione con l'oggetto, e cui viene contrapposto un 'io poetico' in se stesso scisso. L'autore qualifica sovente il poetico come dimensione 'penultima', alludendo così alla sua storicità mai definitiva, al rimando reciproco di unità e divisione nella sfera che esprime il movimento pulsante dell'Uno-Tutto, che non accetta sintesi, se non per esibirne la radice conflittuale. Proprio nella costituiva ma impossibile unità di ciò che è scisso si cela, secondo Mecacci, la cifra della poetica hölderliniana, tesa nella 'cesura' ad esibire lo stare insieme polemico, antagonistico, degli opposti. Motivo anche hegeliano, ma trasposto in una prassi poetica ed esistenziale dove il tentativo di ricomporre la diaphora platonica tra pensiero e poesia si realizza soltanto nella paradossale uguaglianza a zero del segno, nell'autoannullamento 'tragico' dell'eroe, segno dell'umano. Allorché il poeta riformula così e calcola in questo modo l'incalcolabile del rapporto tra io e mondo, si scompagina, negli stessi anni del Wilhelm Meister goethiano, il rinvio reciproco, di matrice platonica, tra Bild, Urbild e Bildung, quel riferimento mimetico al modello che immette sulla via della formazione, della costruzione di un'identità culturale coerente.
E qui la tensione metaforica, che innerva le tarde traduzioni sofoclee, l'Edipo e l'Antigone, la ricerca di un 'terzo linguaggio', segna uno scarto ulteriore: il radicamento nella contingenza esibito nella prassi poietica come condizione umana si affaccia con Antigone 'oltre il mito', come significativamente è intitolato l'ultimo paragrafo dello studio di Mecacci, penetrante e impegnativa summa teorica del libro. L'intreccio di Sinngebung e donatività rappresentativa che caratterizza il mito greco impatta con la figura di Antigone-Niobe nell'aderenza totale dell'umano al naturale, all'aorgico. Il mimetismo dell'originario (il deinon sofocleo) nella traduzione hölderliniana porta a stravolgere la pluralità armonicamente rappresentata, che era l'esito della narrazione mitica, nell'atomismo autoreferenziale e schizofrenico dei personaggi tragici, pervicacemente attaccati al proprio tratto naturale, privato. Nel fallimento del progetto greco, la tragedia di Hölderlin-Sofocle si muta in dialogo inquisitorio tra sordi, parola offerta alla natura per esprimere un silenzio. E quando il poeta chiama 'repubblicana' questa forma, allora l'attualità del Terrore giacobino viene a coincidere ontologicamente con il senso dell'antico politeismo (l'assonanza weberiana non pare fuori luogo), la scissione dei moderni - l'hegeliana Entzweiung diventa nell'amico il campo di battaglia delle particolarità - si confonde con la sticomitia dei Greci.
Sarebbe riduttivo dunque considerare soltanto le anticipazioni presenti in Hölderlin di tematiche novecentesche - ci suggerisce in ultima analisi lo studio di Mecacci -, leggerlo per rievocare nomi come Nietzsche, Heidegger, Bataille, e tracciare genealogie: bisogna partire da "Hölderlin e i Greci", un rapporto che, preso sul serio, mette a tacere l'adagio della querelle des anciens et des modernes, e sfocia nell'impetuosa contemporaneità dell'opera di Hölderlin, nella lucida, folle testimonianza con cui egli ha saputo esprimere ed elaborare il rischio, insieme poetico e politico, di essere umani.

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