Autonomia Potere Minorità

Alfonso M. Iacono, Autonomia Potere Minorità
Feltrinelli, Milano, 2000

Recensione


Davanti alla sfinge
di Giovanni Perazzoli

Kafka è ampiamente presente nel libro di Alfonso Iacono Autonomia, potere, minorità. Ricordiamoci allora di un racconto notissimo: un uomo davanti alla porta della legge è spaventato dal terribile e minaccioso guardiano che sembra non lo voglia lasciar passare. Aspetta davanti alla porta della legge e supplica il guardiano di lasciarlo passare; ma intanto passano solo gli anni, invecchia, e rimane sempre davanti alla porta aspettando di passsare. Arriva il suo ultimo giorno, la sua ultima ora, il suo ultimo minuto; prima di morire il guardiano gli dice che la porta era lì soltanto per lui e che ora verrà chiusa per sempre. Un piccolo racconto enigmatico. Ma l'enigma muta a seconda del punto di vista da cui ci si mette. Tutti cerchiamo di immaginare che cosa pensa l'uomo che attende davanti alla porta. Ma che cosa pensa il guardiano? Che cosa pensa dell'ostinata "minorità" in cui si trova l'uomo? Il guardiano ha davanti a sé la più impenetrabile delle sfingi. Ora, il libro di Iacono presuppone che, almeno una volta, chi legge si sia messo nei panni del Guardiano, per "guardare con altri occhi" lo strano spettacolo dell'umanità che è schiava mentre potrebbe essere libera.
Nel libro si cerca di interpretare la fenomenologia della "minorità", della quale Kant pensava che, con l'illuminismo, l'uomo si fosse finalmente liberato, e che invece, ostinata, persiste nonostante tutto. È proprio in questo "nonostante tutto" che si trova il punto di partenza del libro. Nonostante le istituzioni democratiche prospettino la possibilità della libertà, osserva Iacono, comunque l'uomo permane nella sua tana e sceglie la "minorità". La porta è lì, eppure…Il problema è se esiste veramente questa libertà (dei moderni). Forse, non c'è; o forse è la volontà di rimanere nella "minorità". La "minorità" è una conseguenza di nuove forme di "repressione"? Ma che cosa significa "repressione", se in fondo l'uomo è libero? È il punto della questione, il mistero della sfinge. La distinzione tra "processi di liberazione" e "pratiche di libertà" e poi tra "stati di dominio" e "relazioni di potere" proposta da Foucault, può aiutare, secondo Iacono, a gettare una luce nel mistero. Un processo di liberazione può condurre al suo contrario, allo stato di dominio, irrigidendosi nella sacralizzazione delle conquiste ottenute: a scomparire sono le "pratiche di libertà" che l'avevano animato. Le "pratiche di libertà" costituiscono la realtà della libertà, che è altra cosa dalla sua astratta possibilità. L'illusione della libertà si esprime nell'illusione della meta raggiunta. Il libro riconosce e tematizza un senso di stanchezza delle democrazie occidentali: è la caduta del futuro. Il futuro sembra uscire, secono Iacono, dal profondo del progetto dell'Occidente. La "filosofia della storia" che, più o meno consapevolmente, aveva guidato l'uomo occidentale lentamente muta segno: "l'idea che il futuro rivelato, prognosticato o previsto possa dotare di senso una storia costruita sul tempo lineare, rendendola così sopportabile, sembra oggi perdere di significato". Il raggiungimento di un "futuro diverso e migliore del presente" si è rivelato illusorio. Il tempo lineare, però, deve trovare un senso; il senso si rinviene adesso nella "coincidenza delle condizioni future con le condizioni presenti"; la conseguenza è la "trasformazione del tempo progressivo in tempo stazionario".
Insomma, in modo molto chiaro si tratteggia nel libro la crisi del progetto che, semplificando, si può definire progressista o illuminista e che, con una visione più profonda, è il progetto stesso dell'uomo occidentale. Nelle strutture profonde della cultura e della filosofia occidentali il meccanismo si è inceppato.

Intervista all'autore


Intervista a Alfonso M. Iacono
di Gianni Perazzoli


1) Professor Iacono, Kant definiva l'Illuminismo come l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità. Con l'idea di emancipazione o di liberazione ha coinciso una parte notevole del progetto del "moderno". Nel suo libro 'Autonomia, potere, minorità' lei individua la crisi di questo progetto, rintraccia le origini culturali della crisi e ne descrive la fenomenologia. Ora, questo significa che quel progetto era ineseguibile in se stesso e si rivela oggi, a distanza di due secoli, un'utopia, oppure significa che devono essere cercate nuove strade per l'emancipazione?

Kant pubblicò Che cos'è l'illuminismo nel 1784. La sua definizione di illuminismo come uscita dallo stato di minorità e la conseguente esigenza, etica e politica, dell'autonomia, a più di due secoli di distanza restano, a mio parere, ancora decisivi per qualunque progetto di società che punti su forme di liberazione e di emancipazione. E tuttavia, vi è qualcosa che lascia insoddisfatti. Il passaggio brusco dalla coscienza di essere in uno stato di minorità alla volontà di uscirne non tiene conto del fatto che esiste un desiderio di minorità che affonda le sue radici nel bisogno di sicurezza, quel bisogno che può tradursi in una prigione, così come Franz Kafka fa vedere in modo straordinario nel racconto La tana. Per cercare nuove strade per l'emancipazione è necessario tenere conto del fatto che anche là dove molto si è ottenuto in termini di eguaglianza, democrazia e libertà, dietro queste stesse parole può nascondersi un potere che soddisfa il desiderio di restare prigioneri dentro la condizione di minorità. Vorrei aggiungere comunque che l'insoddisfazione di quel che ci ha offerto l'illuminismo non implica affatto per me un rifiuto di principi, di temi e di argomenti illuministici a cui non vorrei rinunciare. Tengo a sottolinearlo oggi che il vento dei fondamentalismi soffia piuttosto forte e da molte direzioni.

2) Lei ricorda che Foucault si dichiarava diffidente verso il tema generale della liberazione: secondo Foucault in questo tema si rischia di presupporre l'idea che esista una natura umana o un fondo umano, che, in conseguenza di processi storici particolari, è rimasto inespresso, mascherato, oscurato. Come si pone la sua indagine rispetto a questo avvertimento di Foucault? Si può parlare di forme oggettive di repressione?

La preoccupazione di Foucault, in particolare dell'ultimo Foucault, fu quella di mettere in guardia dal collegare il concetto di liberazione ad un'idea di compimento della storia, là dove la natura umana si realizzerebbe interamente. Si tratta di un avvertimento importante. Condivido la necessità di distinguere liberazione da pratiche di libertà, proprio perché queste sono necessarie anche là dove obiettivi di liberazione sono stati raggiunti e un potere oppressivo è stato rovesciato. Niente ci garantisce, infatti, se non le pratiche di libertà, dal pericolo che il nuovo potere diventi a sua volta oppressivo, magari in nome dei valori per i quali si è combattuto. Si può parlare di forme oggettive di repressione a patto che ciò non si trasformi, a sua volta, in un discorso generale e generico sulla natura natura, sulla sua presunta perduta purezza e innocenza (con conseguenza immancabile nostalgia delle origini) e sulla natura del potere.

3) Se si guarda a quanto succede in alcuni paesi, dove il peso della religione e delle "forme di vita", delle tradizioni condizionano pesantemente la libertà individuale, verrebbe da pensare che effettivamente esistono delle forme oggettive di repressione; tuttavia in queste società non manca un consenso di fondo. Che rapporto vede tra la teoria della repressione e la volontà che si esprime nel rimanere nella minorità?

Primo Levi ne I sommersi e i salvati ricordava che, contrariamente a quanto a volte si pensa, più il potere è oppressivo più provoca sudditanza. Non si tratta soltanto di paura, vi è anche identificazione. Il bisogno di minorità viene attivamente coltivato e pesantemente rafforzato. Del resto la violenza per così dire più violenta è quella in cui la vittima si identifica con il suo persecutore. Ma, a parte questo, penso che un'idea come quella dell'onnipotenza di dio, che troviamo nelle tre grandi religioni monoteistiche, ebraica, cristiana, islamica, e che tende a legarsi alla storia umana in disegni spaventosi dove le singole vite umane troppo spesso sono considerate semplici dettagli sacrificabili allo scopo ultimo, abbia funzionato e continui a funzionare come strumento di atti violenti e repressivi, giustificati moralmente, che presuppongono la minorità degli individui in quanto tali. Inoltre mi fa sempre un terribile impressione quando sento o leggo proclami religiosi e politici dove con assoluta certezza e sicurezza si dichiara di stare dalla parte del bene e di combattere il male. Queste semplificazioni manichee sono efficaci perché annullano ogni possibilità di critica e di dubbio, senza cui è impossibile uscire dalla condizione di minorità. L'autonomia per essere tale deve andare in tensione con la sicurezza e le semplificazioni fondamentaliste, nel dare sicurezza annullano l'autonomia.

4) Le scienze psicologiche cognitive, la psicoanalisi etc. tendono a ridurre all'individuo l'origine della "minorità": secondo lei è stato trascurato l'aspetto sociale e oggettivo?

Penso di sì. Anche se vi sono studi e ricerche che non hanno affatto dimenticato che l'uomo è uno zòon politikòn. Anzi, direi che sia sul piano delle scienze cognitive sia su quello della psicanalisi l'accento è sempre più posto sulle relazioni e sulle interazioni. Ma, ancora di più, sempre più ci si richiama alla storicità delle esperienze individuali e questa non può che essere, in ultima istanza, sociale, sempre che noi diamo a questa parola un significato ampio, capace di comprendere sia l'esperienza interattiva che il bambino fa con la madre sia la formazione dell'identità a partire anche dalle credenze condivise e dai modi della loro assimilazione.

5) Nel suo libro lei assegna alla filosofia un ruolo centrale nella "liberazione". Platone e Aristotele si uniscono a Freud, ma non per "curare", bensì per rendere possibile di guardare con altri occhi la condizione umana?

La filosofia non offre pozioni magiche e neanche consolazioni. O almeno non spetta ad essa farlo, anche se molti si affannano a vendere pozioni e a consolare. La filosofia pone soprattutto domande ed è per questo che l'esercizio della critica rappresenta un suo elemento essenziale. Il meravigliarsi della filosofia, di cui parlano Platone e Aristotele, non è la riscoperta dell'innocenza, non è lo stupore infantile. Il guardare con altri occhi è, mi si scusi il gioco di parole, il sapere di non sapere dopo l'esperienza del sapere. Esso ha a che fare con la capacità di trasformare l'evidenza in scandalo, il naturale in storico, l'immutabile in contingente, l'onnipotente in limitato. In un certo senso è il prolungamento non dell'infantile senso di onnipotenza, ma della ferita narcisistica che viene dopo l'innocenza.

6) Che cosa sono i fenomeni di "naturalizzazione" e di "banalizzazione"?
In che rapporto si trovano con l'autonomia?


Ho chiamato nel mio libro naturalizzazione la tendenza a considerare ovvi, naturali, eterni e immutabili, fenomeni della vita sociale e individuale che non sono affatto ovvi, naturali, eterni e immutabili. La filosofia ha un compito per così dire denaturalizzante: l'ultima cosa di cui si accorge il pesce è l'acqua in cui vive. Ma la naturalizzazione affonda le sue radici nella banalizzazione, un'esperienza che facciamo nei nostri processi di apprendimento. Noi, per esempio, banalizziano la guida dell'automobile, siamo cioè in grado di guidare senza stare restare coinvolti esclusivamente nella guida, pur mantenendo la necessaria attenzione. Anzi, proprio questa capacità indica il grado di assimilazione dell'apprendimento. La naturalizzazione è questa assimilazione realizzata però nel campo delle credenze condivise. Il fatto che ci sia somiglianza cognitiva tra banalizzazione e naturalizzazione è all'origine della forza straordinaria del processo di naturalizzazione. Il guardare con altri occhi della filosofia (ma questo vale anche per l'arte e per la scienza) presuppone cognitivamente l'autonomia, ma la richiede anche politicamente, perché una società dove non si può guardare con altri occhi, esercitare la critica e immaginare possibilità altre, assomiglia a quella caverna di Platone dove i prigionieri, credendo che quel mondo fosse l'unico mondo esistente, accettavano le loro catene come un dato naturale.

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