Alias, Talpalibri (Il Manifesto)

Domenico Losurdo

 

Il libro di Domenico Losurdo ha suscitato un acceso dibattito sulla stampa ed è già un caso editoriale. Filosofia.it vi propone un resoconto completo degli articoli che si sono occupati del volume.


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Alias, Talpalibri (Il Manifesto) 11 gennaio 2003

Discutere Nietzsche

di Augusto Illuminati

Il libro di Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico (Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. XV-1167, ¤ 68,00), che porta l'illuminante sottotitolo "biografia intellettuale e bilancio critico", è stato preceduto da un'accesa polemica, avviata da un'anticipazione su "Belfagor" e divampata sulle pagine culturali di Repubblica. Lo scontro si è però concentrato sulla questione relativamente marginale della correttezza delle traduzioni adelphiane, senza investire il contenuto complessivo del libro, per l'ottima ragione che non era ancora uscito. E' divertente parlar male dei libri, ma bisognerebbe prima leggerli. Proviamo a tirare un bilancio. Si tratta di un libro insostituibile per l'aspetto di biografia intellettuale. La documentazione ricostruisce nel modo più esauriente le fonti di Nietzsche, le influenze esplicite e implicite, il retroterra ideologico spesso sordido. Ne consegue una pertinente denuncia di quelle operazioni di addomesticamento e urbanizzazione che hanno segnato la più recente ricezione italiana del filosofo di Röcken (per non parlare delle letture estetizzanti). L'accusato principale è Gianni Vattimo e Losurdo ha buon gioco a mostrare l'incoerenza di una lettura debolista, spesso costretta a omettere più che a reinterpretare (manca invece un confronto con la parallela lettura, di tutt'altro segno, di Massimo Cacciari). Del resto, se Vattimo avesse preso sul serio, nell'innocenza del divenire, il rifiuto della colpa e della pena non avrebbe finito per consigliare ad altri di restare in galera…
Losurdo smonta efficacemente la presunzione di trovare in Nietzsche il punto intermedio di una torbida storia tedesca di oscurantismo e follia e mostra con precisione le radici internazionali delle tendenze reazionarie, dalla Francia ai paesi anglosassoni, soprattutto dopo lo choc della Comune di Parigi. Segnala esattamente il rapido distacco del suo autore dalla matrice nazionalista e antisemita per un europeismo in cui giocano un gran ruolo le élites ebraiche e ne riconduce il radicalismo aristocratico a un modello imperialistico transnazionale, in cui l'antisemitismo si sdoppia in disprezzo per gli strati ebraici inferiori e Ostjuden e in recupero della finanza in alleanza con la grande borghesia germanica e gli Junker. Chiarificante è qui la distinzione fra razzizzazione orizzontale e trasversale, la seconda delle quali implica il taglio fra signori e schiavi all'interno di tutti i gruppi etnici. Altrettanto valida è la polemica contro l'ermeneutica dell'innocenza, che giudica irrilevante la dimensione politica nietzschiana, ovviamente non sfuggita agli storici e messa in rilievo, ben prima del III Reich e dell'estetizzazione fascista della politica, da contemporanei anche simpatetici, quali Erwin Rohde e Franz Overbeck, per non parlare del pur non del tutto sfavorevole leader socialdemocratico Franz Mehring e del grande sociologo Ferdinand Tönnies. La presunta "inattualità", per non parlare dell' impoliticità del filosofo ne escono seriamente ridimensionate. Viene anzi ben documentato non solo il costante interessamento ma la diretta partecipazione del filosofo alle vicende politiche contemporanee, fino al delirante complotto finale contro Guglielmo II, presunto colpevole di antisemitismo socialista e pietismo per i colonizzati. La schiavitù dei malriusciti (irriducibile peraltro a questa o quella razza) non fu soltanto una metafora. Grande politica e partito della vita erano due parole d'ordine spendibili nella fase, anche se contengono un'eccedenza riformulabile.
Tuttavia proprio questa eccedenza rispetto al banale odio antisocialista potrebbe suggerire una chiave non minimizzante ma più sghemba, che aggiri il pregiudizio, guardandolo in faccia ma non facendone il centro del discorso. Cosa succederebbe mettendo in primo piano, nell'analisi di Hegel, certi suoi assunti contingenti e ben datati -per esempio il nesso fra miseria irredimibile del proletariato e auspicio dell'espansione coloniale, perfettamente identico nelle due figure polari della filosofia tedesca, anzi largamente comune all'ideologia europea del secolo? Mentre il "gesto sovrano" di Vattimo, che depura Nietzsche dai suoi stessi autofraintendimenti, è insostenibile, non si può affermare lo stesso di quello di Foucault che, "senza troppo preoccuparsi di distinguere fra ricostruzione storica e utilizzazione teoretica, rivendica il diritto alla deformazione del pensiero" (p. 791). Certo, sarebbe meglio operare quella distinzione, ma l'essenziale è farsi carico di un'interpretazione propriamente filosofica, che incorpori anche lo scarto storico delle intenzioni dell'autore rispetto alle potenzialità della teoria.
Un esempio per tutti. Una delle operazioni fondamentali di Nietzsche, che radicalizza Hume, è la decostruzione del soggetto, la riduzione della mente a un fascio di pulsioni tenute insieme dalla "grande ragione" del corpo e ipostatizzata per analogia al soggetto grammaticale. La metafisica del soggetto trae origine da Descartes, definito "padre del razionalismo e nonno della rivoluzione". Partendo da questi dati Losurdo coglie la connessione fra il pathos dell'"io penso" e la costruzione del soggetto titolare dei diritti inalienabili proclamati dalla Rivoluzione francese e rivendicati successivamente dal ressentiment plebeo, anarchico e socialista: questo è l'obbiettivo della critica nietzschiana, che in tal modo porterebbe a termine il programma controrivoluzionario di de Maistre, bollando l'astrattezza della categoria filosofica per smontare la pretesa sovversiva. In questo, del resto, era stato anticipato da Lichtenberg, che aveva sentito echeggiare nel cogito ergo sum il presupposto del grido à la Bastille. Anima, eguaglianza, irriducibilità atomica del soggetto, autocoscienza costituiscono una linea fortificata che viene battuta in breccia con uno stesso movimento. Vi si oppone la riflessione hegeliana (Filosofia del diritto § 209 A), secondo cui l'io va concepito "come una persona universale nel cui ambito tutti sono eguali. L'uomo ha così valore perché uomo, non in quanto ebreo, cattolico, protestante, tedesco, italiano". Di qui il valore dell'intenzione, cui Nietzsche oppone il significato preponderante del momento non intenzionale, e l'antropocentrismo umanistico che pone nella felicità individuale lo scopo dell'universo. Conviene con lui il socialdarwinista Vacher de Lapouge, sostenendo che "l'uomo non è un essere a parte" e, in ogni caso, "le sue azioni sono sottoposte al determinismo dell'universo": ma non sta citando la prefazione alla III parte dell'Etica spinoziana? Per quanto interessante come fecondo tentativo di guadagnare uno sguardo sull'uomo dall'esterno -conclude Losurdo- la tesi della dissoluzione del soggetto è "il controcanto alla proclamazione rivoluzionaria dei diritti dell'uomo" (p. 724). Non fa una piega. Tuttavia, se è vera la motivazione retrograda dell'operazione decostruttiva, nulla con ciò si dice della sua validità. A voler condurre una dimostrazione per assurdo, la centralità del soggetto e dei diritti universali dell'uomo non ha affatto un valore rivoluzionario univoco, definisce anzi la sola rivoluzione borghese e la costituzione di una modernità classista, migliore del feudalesimo ma che certo non prelude al comunismo. La citata frase di Hegel è il bersaglio della Questione ebraica marxiana, che nel 1843 denuncia in quell'uomo tout court l'individuo egoista, l'uomo "naturale", fornito di diritti altrettanto "naturali", raddoppiato dal citoyen astratto come persona allegorica e morale. Marx vs Hegel e Rousseau. Certo da un punto di vista simmetrico a quello di Nietzsche, ma perché marcare positivamente il comune bersaglio degli attacchi? Non sarebbe meglio tener fermi simultaneamente i due rami della biforcazione? E che dire della critica a Descartes e ai contenuti intenzionali, oggi luogo comune della migliore filosofia della mente? Il soggetto costituente può evidentemente essere contrastato da due opposti punti di vista, come correttamente si rileva a pp. 1071-73, e non è detto che il nominalismo antropologico abbia uno sbocco reazionario. I vantaggi di uno sguardo metacritico, del distanziamento etologico rispetto alle verità acquisite, sono probabilmente maggiori di quanto Losurdo stesso apertamente riconosca (pp. 486, 543 e 941 sgg.).
Un limite analogo si riscontra in altri nodi cruciali per un bilancio propriamente critico e filosofico: l'innocenza del divenire, che rischia di congelare in natura un ordinamento sociale, l'Eterno Ritorno, colto nella sua piegatura antiprogressista e avversa all'emancipazione delle classi subalterne, ma che potrebbe con ragione anche essere analizzato secondo le classiche letture di Löwith e Deleuze, la denuncia dell'oppressione storicistica della II Inattuale, così stimolante per Benjamin, la polemica artistica antiwagneriana, premessa indispensabile per il teatro epico di Brecht, la riduzione pragmatica della scienza e della logica, che anticipa tanto costruttivismo contemporaneo. Luci e ombre di un libro parziale, ma stimolante. Basterebbe ricordare da un lato la scelta del radicalismo aristocratico quale unica chiave di lettura che consentirebbe di tenere insieme le varie fasi del pensiero di Nietzsche (d'accordo, ma è indispensabile?), dall'altro l'acuto collegamento fra la sua originaria vocazione filologica e il trattamento sospettoso di verità e storia come testi da decifrare, cancellare e ristabilire brutalmente.

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