Quaderni Radicali

Domenico Losurdo

 

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Quaderni Radicali, Febbraio/Marzo 2003, n. 79

Il duello di Nietzsche contro
lo scientismo riduttivo

di Vito De Luca

Nei grandi mass media italiani, anche se un po' in sordina, ultimamente è tornato a far capolino il nome di Wilhelm Friedrich Nietzsche, per lungo tempo ostracizzato, distorto e manipolato. Se ne sono occupati - per esempio - tanto Gianni Vattimo, sia sui giornali sia alla radio, quanto Emanuele Severino, più di una volta, sul «Corriere della Sera». A questi si aggiungano anche i recenti interventi di Domenico Losurdo sulla rivista «Belfagor», per rispolverare i sempre verdi attacchi all'inesistente "antigiudaismo" di Nietzsche, anticipatori del suo Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, appena pubblicato da Bollati Boringhieri; nonché la fortunata biografia di Massimo Fini.
A parte Losurdo, il quale, comunque, sull'altro piatto della bilancia posa una "riabilitazione" del pensatore tedesco invitando ad una riflessione sul radicalismo nietzscheano, Vattimo e Severino si sono interrogati sulla modernità o sull'attualità del pensiero del filosofo tedesco.
Probabilmente, invece, a mio modesto avviso, sarebbe stato opportuno chiedersi perché Nietzsche, oggi, è ancora così inattuale. E interrogarsi su come mai, anche nell'epoca in cui viviamo, il suo pensiero risulti ancora non collocabile nella sua essenziale atemporalità. In tal senso, si potrebbe fare solo una concessione qualora la si collegasse alla sistemazione che l'animale-uomo occupa in questo universo, in particolar modo su questo pianeta: vale a dire che Nietzsche, occupandosi dell'uomo, dell'umano, troppo umano, ed avendo l'uomo occupato un preciso periodo della storia del mondo, necessariamente lega il suo domandare e la sua ricerca alla presenza stessa dell'uomo.

In questo senso - ma solo in questo - potremmo dire che il pensare di Nietzsche è un pensare teologico, in quanto il suo scavare scavando vive in un inizio ed una fine indissolubilmente intrecciati al calcare dell'uomo sui suoi passi. Se e quando ciò dovesse cessare e arrivare a termine - sembrerebbe superfluo sottolinearlo, ma solo se non ci s'interrogasse fino in fondo -, solo allora il pensiero di Nietzsche svanirebbe in quanto pensiero dell'uomo: una costruzione intellettiva ed intellettuale di cui l'uomo dovrebbe sentire la consapevolezza di esserne il fabbricatore e il possessore.

Tuttavia, interrogarsi oggi su Nietzsche e sulla sua "attualità" contiene in sé una valenza non trascurabile, certamente imprescindibile, se vista con l'ottica di un non conosciuto, dove l'uomo, pervaso dalla dirompente “economia macchinale”, come la chiamava Heidegger, di una tecnica padrona e non padroneggiata di cui egli è la prima vittima, non riesce a dipanare la matassa.

L'avversione di Nietzsche era rivolta contro il meccanicismo scientista

L'abitare, infatti, in questo auspicabile mondo modernizzato, e percepirlo nella sua essenzialità, comporta un imperativo non eludibile che si rivolge radicalmente ai compiti che la società umana deve affrontare. E ciò è tanto più vero, in quanto è chiaro che nel sec. XXI non è più possibile e non esiste più un singolo uomo in grado di possedere l'intero sapere umano, come poteva accadere nel passato, per esempio nel Rinascimento. Tale condizione è oramai ammessa anche dai più autorevoli esponenti di quelle discipline che Nietzsche avversava perché tese a spiegare ogni cosa come mero divenire, ma verso le quali nutriva in ogni caso un grande interesse e una buona conoscenza: mi riferisco alle scienze naturali.

Solo il fato, infatti, che cominciava il compimento del suo destino, impose a Nietzsche una distrazione dall'attenzione che voleva dedicare alle scienze, tanto da pensare di trascorrere, durante il suo periodo universitario di Lipsia, un anno a Parigi, proprio per studiare le scienze. A distruggere i suoi piani contribuì la chiamata alla cattedra di filologia da parte dell'Università di Basilea.

Nietzsche si scagliava, piuttosto, contro il meccanicismo dell'epoca, quel meccanicismo che voleva vedere, a tutti i costi, un senso nel tutto (la fine e, quindi, un fine) e che oggi, sotto altre spoglie, s'impone, per esempio, attraverso le tre "I" di una fatua campagna elettorale italiana o una conoscenza tecnologica a livello mondiale, senza la quale, si dice, l'occupazione lavorativa (altro bersaglio di Nietzsche laddove fosse intesa come un "controllo" sociale sull'uomo) diventerebbe impraticabile.
Per quanto sia possibile e soprattutto legittimo, la riflessione di Nietzsche diventa addirittura profetica, definendosi come un pensare senza tempo e classificabile come ”attuale”, tenuto conto che è espressione delle considerazioni di un trentenne, qual era Nietzsche nel 1874, quando scrisse Schopenhauer come educatore.

Oggi, in quest'opera, non si staglia - chiaro e tondo - in un cielo terso di “certezze”, quanto Nietzsche denunciava con vigore a proposito dei fini dell'istruzione? Scriveva, infatti:

Formare il maggior numero possibile di uomini correnti - a quel modo per cui si dice corrente di una moneta - questo dunque sarebbe il fine; e un popolo, secondo questa concezione, sarà tanto più felice quanti più uomini correnti del genere possiederà. Perciò l'intenzione dei moderni istituti di istruzione deve assolutamente consistere nel permettere ad ognuno, per quanto sta nella sua natura, di diventare corrente, nell'educare ciascuno in modo tale che abbia, dal grado a lui proprio di conoscenza, di scienza, di sapere, la misura più grande possibile di felicità e di guadagno.


Dopo l'attacco ad una siffatta vulgata, che associa l'intelligenza al possesso e la ricchezza alla cultura, le quali sarebbero addirittura una “necessità morale”, Nietzsche proseguiva come segue:

Qui si odia ogni educazione che renda isolati, che ponga dei fini al di là del denaro e del guadagno: che consumi molto tempo; infatti ogni tipo più severo di cultura è vituperato come “egoismo raffinato”, come “immorale epicureismo culturale”. Secondo la moralità che qui è valida, si apprezza per l’appunto il contrario e cioè: una istruzione rapida per diventare presto un essere che guadagna denaro e una istruzione approfondita, tanto quanto basta per diventare un essere che guadagna moltissimo denaro.

Il fine non è la produzione del genio, da parte della società, di colui che sa di essere uomo e di voler diventare se stesso, come dovrebbe essere, ma quello della produzione di mezzi affinché sia qualcos’altro a funzionare, altre istituzioni: che siano lo Stato o le corporazioni, per esempio, o la società stessa, ma non l'uomo! Il paradosso allora diventa che a dover essere felice sia la società, una moltitudine, ma non l'uomo, il singolo.

L'attualità di questo immenso pensatore non deve, tuttavia, limitarsi ad una riproposizione di quanto lucidamente esposto anni e anni fa e ad una sua contestualizzazione nell'epoca dei “grandi balzi in avanti tecnologici”, quanto invece spiccare un salto verso il calettarsi quest'epoca nel vertice di un cuneo intelligibile e riproiettare, come un fascio di luce, il nucleo di questo pensare sulla base del solido immaginato. L'inabissarsi in un tale cammino diventa tanto più improrogabile, quanto meno se ne avverte la mancanza, immersi - come infatti si è - nella costruzione senza dominio di un superumano deificato sull'altare della tecnica.

Se da un punto di vista tecnologico-politico-sociale, chiamiamolo cosi, Nietzsche offre un ripensamento totale all'essere uomo, altrettanto egli ridiventa un polo d'attrazione verso il quale il cercatore dovrebbe spostare le lancette del tempo nel suo tentativo d'interpretazione scientifica.
Severino ha scritto che ormai, sul divenire, si è adesso tutti d'accordo. Ma è lecito rimanere perplessi se questa concezione del divenire, sulla quale tutti oggi si rivelano concordi, non è soltanto un mero divenire di cui sopra, e quindi un divenire di tipo "scientista" concepito sul modello ottocentesco.

Discorrendo sulla storia, Nietzsche, nella sua Seconda Inattuale, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, chiarisce cosa significa la sua concezione "sovrastorica", in un'esortazione che non lascia spazi a dubbi di sorta:

“sovrastoriche” chiamo le potenze che distolgono lo sguardo dal divenire, volgendolo a ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno e dell’immutabile, all’arte e alla religione.

Il divenire, allora, deve avere il carattere dell'eterno e dell'immutabile!
Ed è per questo, da questo, e con la sentenza che verrà emessa successivamente, nell'aforisma 125 de La Gaia Scienza, intitolato “L'uomo folle”, dove si annuncia la morte di Dio, quindi del concetto di religione in senso lato, che l'arte diventa il valore supremo. Quella, però, in “grande stile”, apollinea-dionisiaca-apollinea, che meglio rappresenta la vita.

Il divenire "scientista" fa, ancora oggi, invece, le viste a un mero divenire o quanto meno sembra non voler prendere con decisione un indirizzo preciso: lo stato dell'arte della scienza può dare ancora la percezione, sull'argomento, di essere ancorato alla concezione di un rugliare di forze che si attraggono e che si respingono fra loro; un ribollio che dovrebbe essere interpretato matematicamente: un “calcolato”, quindi, che ha portato solamente all'elaborazione di teorie quali il principio di indeterminazione di Heisenberg o quello di esclusione di Pauli, i quali, dagli stessi nomi che li indicano, (indeterminazione ed esclusione) sostanzialmente asseriscono soltanto che la fantomatica legge, che dovrebbe reggere l'universo, appare ancora incomprensibile nei fogli e nei computer pieni di equazioni, e non si lascia intrappolare in una provetta o in un cervello elettronico.

La scienza, stando a quanto sostiene Stephen Hawking, uno degli astrofisici piú ascoltati, rimane essenzialmente legata ad un'ottica “deterministica”, se è vero che il compito che le spetta è quello "della scoperta di leggi che ci consentano di predire eventi sino al limite fissato dal principio di indeterminazione", laddove, forse, questo indeterminato assume la forza e le forme di un inconoscibile kantiano o di un platonico mondo soprasensibile.

Se il cercare di ingabbiare il visibile e il rincorrere della scienza un universo reso comprensibile da una legge che tutto spiega, significano voler cercare di dargli un senso, vorrebbe anche dire che la scienza, da Newton e Laplace in poi, ha fatto ben pochi passi in avanti.

Tutto questo discorso sembrerebbe portarci al di fuori di quell'orbita circoscritta, rappresentata dall'attualità del pensiero nietzscheano, solo se non pensassimo a quanto, parafrasando Nietzsche, un'umiltà scientifica gioverebbe alla guerresca volontà dell'uomo dedita alla conoscenza nell'abbandono di quella soldatesca inclinazione matematica alla verità dei razionalisti.

E dire che, forse proprio intorno a quelle nuove formulazioni ipotetiche che man mano sono state elaborate dalla scienza, ben si attaglia, come punto di partenza, e senza alcuna forzatura, la concezione che dell'Essere aveva Nietzsche: solo essendo essente, o ente, (ambedue, si noti, participio presente del verbo essere), I'essere è. L'Essere è in quanto essere dell'ente. Nessun Essere, quindi: ma l'ententità, si passi il termine, l'essere dell'ente, fa sì che l'essere sia. Se solo qualche esponente della scienza pensasse profondamente questo pensare, al di là di un mero meccanicismo volto invece a simulare, nell'illusione di aver ghermito l’”attimo”, un succedersi infinito di accadimenti, in un punto dei quali, ad esempio, ci si arroga la convinzione di rappresentare un evento futuro (come esso sarà - se adesso è così ed è regolato in questo modo - diciamo fra qualche anno); se si pensasse, in definitiva, oltre lo scientifico, cosa significano la volontà di potenza e l'eterno ritorno dell'uguale, cioè come l'Ente è e come diviene, o, traslando, come l'universo è e come esso si trasfigura e si trasforma rimanendo “identico”, non parrebbe assurdo costruire, ovviamente nei recinti di una suprema antropomorfizzazione, un'ipotesi generale sulla vita.
L'introiezione del pensiero di Nietzsche, anche da questo punto di vista, ritorna quindi necessaria alla luce della teoria del Big Bang e di un determinismo che ben si discosta dal mettere a fuoco l'oggetto che dovrebbe indagare. Anche nell'ottica della gigantesca teoria che la scienza è intenta a costruire, nel tentativo di mutuare i principi che la dovrebbero sostenere, traendoli sia dalla teoria generale della relatività, sia dalla recente scoperta della meccanica quantistica.

Di qui l'abbandono definitivo dell'idea che il Big Bang rappresenti l'inizio, un inizio della vita e dell'universo, e quindi l'idea di una creazione, orientandosi invece verso una interpretazione che vede questo Big Bang solo come l'ultimo di un infinito numero di Big Bang già stati. Meglio: una volta che il Big Bang sia, allo stesso tempo, ancora fine, ma già inizio, non potrebbe delinearsi, come solida base, il punto 5 dell'aforisma 1066 de La volontà di potenza? Leggiamolo:

se il mondo può essere pensato come una determinata quantità di energia e come un determinato numero di centri di forza - e ogni altra rappresentazione rimane indeterminata e quindi inutilizzabile - ne segue che nel grande gioco di dadi della sua esistenza deve attraversare un numero calcolabile di combinazioni.

Ma si faccia attenzione a quanto Nietzsche scrive più avanti:

In un tempo infinito, ogni possibile combinazione deve realizzarsi almeno una volta; di più: deve realizzarsi infinite volte. E poiché fra ogni "combinazione" e il suo successivo "ritorno" dovrebbero intercorrere tutte le rimanenti combinazioni possibili in generale, e poiché ognuna di queste combinazioni condiziona l’intera successione di combinazioni della medesima serie, sarebbe dimostrato un ciclo di serie assolutamente identiche: si dimostrerebbe che il mondo è un ciclo che si è già ripetuto un’infinità di volte e che gioca in infinitum il suo gioco.

E se questa "combinazione" e il suo successivo "ritorno" di un determinato numero di centri di forza fossero pensati dalla scienza odierna come un ciclo che ritorna allo stadio di quello che gli scienziati hanno chiamato Big Crunch, la grande implosione dell'universo che si riduce, una volta esaurite tutte le combinazioni, per poi ricominciare a partire, in un infinito ciclo che si ripete, nell'esplosione del Big Bang ?
Se il Big Bang fosse pensato come ciò che è suto (non "stato", che in realtà è il participio passato del verbo stare e mal si addice all'infinito essere, in quanto essere), che è e che sarà, non ne gioverebbe anche la teoria di un universo in continua espansione e riduzione?

La soluzione alle domande inevase dalla scienza nella filosofia dell'Essere di Nietzsche?

E ancora: la mera attrazione e repulsione tra forze non è forse quanto spiegato da Nietzsche nel capitolo intitolato "La volontà di potenza nella natura”, quando scrive che le particelle - il protoplasma, come si chiamava allora, o i quark, come li si chiama oggi - si respingono o attraggono, appunto, perché vogliono potenza? E questo indagare su unità infinitamente piccole che vogliono potenza non è uno stabilire una "legge", che sta a fondamento del tutto, che regge il tutto: sia l'infinitamente piccolo, sia l'infinitamente grande? Proprio per questo, non potrebbe essere che proprio il tentativo della costruzione di una teoria che concili sia la relatività generale e sia la meccanica quantistica, debba invece guardare solo a questo infinitamente piccolo per spiegare l'infinitamente grande?

Domande tutte inevase, proprio per l'atteggiamento seguito dalla scienza nel periodo dei "grossi balzi in avanti tecnologici e scientifici".

Nell'aforisma 1067 de La volontà di potenza, in aggiunta, Nietzsche non parlava di un universo inserito in uno spazio non concepibilmente vuoto? E oggi non si è giunti alla stessa conclusione, asserendo che il vuoto non esiste e che insieme alla materia esiste un'antimateria? Ma poi, questa cosiddetta materia, non è già, in un uno considerato, quello che chiamano materia e antimateria? Perché scindere?

L'ultimissima, poi, delle "scoperte" di Hawking, riguarda le dimensioni dell'universo, che non sarebbe infinito, ma racchiuso in uno spazio dalla forma ben precisa di un guscio di noce.
Nietzsche, nell'aforisma precedente, non scriveva che

La forma dello spazio deve essere la causa dell'eternità del movimento e, in ultima analisi, di ogni "imperfezione"

e che quindi esso non avrebbe dovuto avere una forma sferica, perché altrimenti, se cosi fosse stato, si sarebbe determinato un equilibrio di forze e quindi una fine? Non è, chiedo, il guscio di noce, una sfera imperfetta?

Questo spazio, che adesso Hawking racchiude in limiti precisi, non è anche lo spazio che Nietzsche definiva "determinato" nelle sue dimensioni, per citare ancora una volta l'aforisma 1067 di quest'opera mai data alle stampe dall'autore, ma solo dai curatori dell'archivio che gli è stato intitolato?

Questa serie infinita di domande poste a catena, magari infruttuose, non ha l'obiettivo di sollevare una disputa tra la filosofia e la scienza, neanche di dimostrare empiricamente come è l'Essere dell'Ente o l'Ente stesso.
La ragione risiede nell'offrire un ripensamento sul "pensiero abissale" pensato, che ha una validità fuori da ogni tempo e in ogni campo d'indagine, e che solo un pensatore del rango di Nietzsche può formulare nella sua perenne inattualità e atemporalità. Senza una "conoscenza". Anzi: soprattutto senza di essa. Se la conoscenza fissa nell'intenzione di rappresentare la verità, se ne discosta invece inevitabilmente in quel mondo

che sussiste, [che] non diviene, [che] non passa. 0 piuttosto [che] diviene, passa, ma [che] non ha mai cominciato a divenire, né ha mai cessato di passare - [che] si conserva nel divenire e nel passare... [che] vive di sé: i suoi escrementi sono il suo nutrimento.

A proposito: Alan Guth, un importante scienziato del MIT - il teorico dell'universo inflazionario - non ha affermato, in una battuta, la stessa cosa? "Si dice che non esistano pasti gratis - ha sostenuto. Ma l'universo, in definitiva, è un pasto gratis". Solo che Guth avrebbe dovuto continuare, dicendo che, proprio perché è un pasto gratis, l'universo esiste: in altre parole, che non "esiste" l'universo, ma che prende vita solo per la gratuità delle vivande.

Ho paura, però, che tutto ciò rimanga una formula vuota agli orecchi degli scienziati; come pure che i due più due degli scienziati continueranno, per i pensatori, a non dir nulla di significativo.

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