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Domenico Losurdo

 

Il libro di Domenico Losurdo ha suscitato un acceso dibattito sulla stampa ed è già un caso editoriale. Filosofia.it vi propone un resoconto completo degli articoli che si sono occupati del volume.


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Intervista pubblicata su Hermesnet (www.hermes.net) il 20/3/2003

Intervista a Domenico Losurdo

a cura di Barbara Tonetti

1) Professor Losurdo, Lei apre il suo saggio con una citazione di Tucholsky (“Chi non lo può rivendicare? Dimmi ciò di cui hai bisogno e ti troverò una citazione di Nietzsche [...]. Per la Germania e contro la Germania; per la pace e contro la pace; per la letteratura e contro la letteratura”) dalla quale sembra emergere la frammentazione delle interpretazioni a cui è soggetto il discorso nietzscheano. E’ possibile invece rintracciare una chiave di lettura coerente di Nietzsche?

E' la denuncia della rivoluzione a costituire il filo conduttore del pensiero di Nietzsche. Solo in tal modo è possibile cogliere l'interna coerenza del discorso del filosofo, pur nel passaggio da una tappa all'altra della sua evoluzione. Ogni altro tipo di lettura finisce col comportare una dolorosa mutilazione. Si vuole vedere in Nietzsche il teorico di una impietosa critica dell'ideologia che fa a pezzi i miti del germanesimo e dell'antisemitismo? A parte ogni altra considerazione, resta il fatto che tale interpretazione implica la liquidazione delle opere giovanili, che riecheggiano i motivi teutomani e giudeofobi assai diffusi nella cultura del tempo e che, tuttavia, sono straordinariamente fascinose. Si vuole vedere in Nietzsche il campione dello "spirito libero" e il teorico della riabilitazione della carne in contrapposizione all'ascetismo dell'Occidente cristiano? Di nuovo saremmo costretti a tagli e rinunce dolorose: negli anni giovanili, in quanto discepolo di Schopenhauer, Nietzsche esprime tutto il suo disprezzo per la galoppante "mondanizzazione", evoca con accenti accorati le conseguenze catastrofiche del "triste crepuscolo ateo" e difende contro Strauss "il lato migliore del cristianesimo", quello degli eremiti e dei santi. In difficoltà analoghe si imbatterebbe chi volesse assumere come filo conduttore la critica del nichilismo. Esso si esprime - osserva un frammento del primavera 1888 - nella tesi per cui "non essere è meglio di essere" e "il nulla è la cosa più desiderabile". Come dimenticare che La nascita della tragedia fa proprio il motto terribile di Sileno ("Il meglio è […] non esser nato, non essere, essere niente")? D'altro canto, gli scritti della maturità rimproverano al cristianesimo, più che il nichilismo, la sua sciagurata incompletezza, che tiene ancora aggrappata alla vita una massa innumerevole di miserabili e malriusciti. Chi poi volesse prendere le mosse, nella sua interpretazione, dalla critica della ragione e della scienza, avrebbe serie difficoltà a spiegare il pathos "illuministico" e "positivistico" di certi scritti, impegnati a fiutare non solo gli errori e le distorsioni, ma anche le patologie che sono a fondamento di visioni del mondo prive del senso della realtà e inclini ad abbandonarsi a fantasie e visioni. Né si deve dimenticare che l'ultimo Nietzsche si esprime con grande calore su Galton, cugino di Darwin e inventore dell'eugenetica, la nuova "scienza" chiamata a conferire ordine e razionalità all'"allevamento" della specie umana. Meno di tutte riuscirebbe a superare le difficoltà qui accennate la chiave di lettura che fa ruotare tutto attorno alla celebrazione dell'arte. Mentre sbeffeggia "l'art pour l'art", Nietzsche celebra l'arte in quanto benefico antidoto all'universalismo della morale e della scienza: "La scienza e la democrazia fanno tutt'uno (checché ne dica il signor Renan), certamente come fanno tutt'uno l'arte e la "buona società"". All'auspicato "rovesciamento dei valori" dominanti, quelli del gregge, possono fornire un prezioso contributo a "certi artisti insaziabilmente ambiziosi, che lottano inesorabilmente e assolutamente per i diritti speciali degli uomini superiori e contro l'"animale del branco", e che con i mezzi di seduzione dell'arte addormentano negli spiriti eletti tutti gli istinti del gregge e le prudenze del gregge". D'altro canto, i grandi uomini chiamati a farla finita coi dogmi della ""parità di diritti"" e della ""pietà per tutti quelli che soffrono" " devono dar prova di una "volontà artistica di altissimo ordine". L'arte svolge una funzione di primissimo piano solo nella misura in cui ribadisce la gerarchia. Non si dimentichi che "per il greco, la creazione artistica ricade nel concetto disonorante del lavoro, allo stesso modo di ogni opera banausica", ma non per questo l'Ellade cessa di essere uno splendido modello. Il richiamo all'arte è strumento di lotta del radicalismo aristocratico e del "partito della vita". Particolarmente significativo è un frammento databile estate 1886-primavera 1887: "Noblesse: che cos'è la bellezza? Espressione dell'uomo che ha vinto ed è diventato signore". Sul versante opposto, senza appello è la condanna per "i demagoghi in arte - Hugo, Michelet, Sand, R. Wagner". Gli artisti contagiati dalla modernità sono "i malati di mente", e fanno corpo con i "criminali", con gli "anarchici", con i "ciandala", con i falliti della vita, con tutto ciò che vi è di più repellente al mondo. In conclusione: "L'estetica è indissolubilmente congiunta a questi presupposti biologici: esiste un'estetica della décadence, esiste un'estetica classica - un "bello in sé" è una chimera, come tutto quanto l'idealismo". I diversi aspetti via via elencati, e altri ancora, della personalità e della storia evolutiva di Nietzsche, meno che mai potrebbero essere compresi in base all'interpretazione in chiave psicologica: alla mutilazione si aggiungerebbe in questo caso il riduzionismo, come se fosse stato estraneo al nostro autore il tormento per abbracciare e comprendere la realtà nella sua totalità e l'assillo di intervenire attivamente su di essa. La figura del "fannullone viziato nei giardini del sapere" fa orrore a Nietzsche e non si vede perché sotto di essa debba essere sussunto il filosofo che così efficacemente e impietosamente l'ha tratteggiata; tanto più poi se questi giardini dovessero rivelarsi un misero orticello caratterizzato da una noiosa monocultura artistica o psicologica. Solo non rimuovendo l'elemento che l'attraversa in profondità, solo tenendo ben presenti la critica e la denuncia militante della rivoluzione e della modernità, è possibile cogliere l'unità del pensiero di Nietzsche e la sua interna coerenza nel corso di un'evoluzione pur scandita da diverse tappe e da diversi approcci.
Per cogliere l'unità del pensiero di Nietzsche, è necessario liberarsi dalla tendenza acritica a immergerlo in un bagno di innocenza politica e smettere di considerarlo esclusivamente come un artista o un teorico dell'arte. Si tratta di un'interpretazione che viene respinta in anticipo, e con forza, dal nostro filosofo: "Non ci si potrebbe fare torto maggiore di quello di supporre che solo l'arte ci interessi: quasi che essa dovesse valere come un farmaco o un narcotico, con cui si possano eliminare da sé tutte le altre miserie dell'esistenza". I giudizi che Nietzsche esprime sui grandi protagonisti della letteratura, della musica, dell'arte, sono sempre giudizi politici. Celebrati negli anni giovanili quali antidoti all'illuminismo e alla rivoluzione, Beethoven e Wagner sono successivamente sottoposti a dura critica, allorché vengono sospettati di esprimere, in un modo o nell'altro, le idee e i gusti della rivoluzione. La nascita della tragedia invoca l'"annientamento" del melodramma e lo invoca, ancora una volta, per ragioni politiche: diffondendo l'"ottimismo", esso stimola la rivolta degli schiavi illusi di poter conseguire la felicità. D'altro canto fortissimo è l'interesse che Nietzsche nutre per la storia. Sin dall'adolescenza, egli si impegna nella lettura e nel confronto coi più grandi storici del suo tempo, non solo tedeschi ma europei: Treitschke, Sybel, Mommsen, Niebuhr, Guizot, Michelet, Tocqueville, Taine, Macaulay, Burckhardt. E' proprio quest'ultimo ad osservare in due successive lettere al filosofo: "In fondo Lei insegna sempre storia"; "ciò che soprattutto comprendo della Sua opera sono i giudizi storici e, in particolare, i Suoi sguardi sul tempo storico". Ben lungi dall'irritarsi per tali apprezzamenti che lo collocano in un terreno ben diverso dalla pura filosofia, dalla poesia e dalla metafora, terreno caro agli odierni ermeneuti dell'innocenza, Nietzsche si sente così lusingato che per un attimo sembra persino accarezzare l'idea di tornare all'insegnamento universitario, questa volta nella veste di storico. Così commenta, scrivendo a Lou Salomé, la prima delle due lettere di Burckhardt qui citate: "Forse mi vedrebbe volentieri come successore sulla Sua cattedra".

2) Quale è, secondo Lei, la metodologia corretta per analizzare un filosofo della portata di Nietzsche?

Per chiarire la metodologia da me seguita, vorrei prendere le mosse da un motivo che accompagna come un'ombra l'opera di Nietzsche in tutto l'arco della sua evoluzione. Apriamo uno scritto giovanile: la "schiavitù rientra nell'essenza stessa della civiltà". Sul finire della sua vita cosciente, il filosofo ribadisce: "Se si vogliono degli schiavi - e di essi si ha bisogno - non si devono educare come padroni". Impartire loro l'istruzione, disadattarli rispetto alla condizione che subiscono e che devono subire, può avere conseguenze catastrofiche, dato che - secondo La nascita della tragedia - non vi è "nulla di più terribile che una barbarica classe di schiavi che abbia imparato a considerare la sua esistenza come un'ingiustizia". Si comprende che, per un autore così fascinoso e spesso letto come un teorico dell'emancipazione dell'individuo, gli interpreti siano propensi a considerare il tema, che ossessivamente ritorna, della schiavitù come una metafora, tanto più che proprio l'autore oggetto di indagine definisce la verità come "un mobile esercito di metafore". Epperò, a rinviarci alla storia sono i testi stessi di Nietzsche, che, a proposito del tema in questione, contengono riferimenti sprezzanti a Beecher-Stowe, l'autrice della Capanna dello zio Tom, il celebre romanzo abolizionista che tanto eco ha in Europa e nella stessa Germania. E' bene tener presente che gli inizi dell'attività letteraria di Nietzsche cadono nel mezzo della guerra di Secessione, in un periodo di tempo in cui all'abolizione della schiavitù negli USA corrisponde l'abolizione della servitù della gleba in Russia. Negli anni successivi, mentre forme di servaggio o semiservaggio persistono nei due paesi, il dibattito relativo a tali temi è quanto mai acuto a livello internazionale. L'Inghilterra, che nel 1833 ha abolito la schiavitù nelle sue colonie, precede poi, negli anni 1870 e 1880, al blocco navale delle coste dell'Africa orientale per impedire la persistente tratta dei neri in direzione soprattutto del Brasile che abolisce la schiavitù, e il relativo commercio degli schiavi, solo nel 1888, l'anno in cui ormai volge al termine la vita cosciente del filosofo. Lukács ha pienamente ragione a rifiutarsi di leggere come una metafora innocente e fascinosa la celebrazione della schiavitù. Dobbiamo allora concludere che Nietzsche è il profeta del lavoro servile di massa cui fa ricorso il Terzo Reich? In realtà, come abbiamo visto, la vita del filosofo si colloca in un periodo di tempo tutto attraversato dal dibattito sulla schiavitù, nonché dalla diffusione, nonostante l'abolizionismo, del lavoro servile di massa sull'onda dell'espansione coloniale dell'Occidente. Con una schematizzazione scherzosa ma non troppo, potremmo formulare in questi termini il dilemma dell'interprete che si è lasciata alle spalle l'ermeneutica della metafora e dell'innocenza: Nietzsche e il Terzo Reich
oppure, Nietzsche e il Secondo Reich (il tempo storico e il contesto internazionale in cui si colloca il Secondo Reich)? Tra le due chiavi dilettura emerge un Reich di differenza, e non è poco. Certo, è legittimo e doveroso interrogarsi sull'eventuale linea di continuità tra affermazione dell'eternità e fecondità della schiavitù da una parte e la celebrazione della Herrenrasse dall'altra. Ma è in primo luogo dall'Ottocento che bisogna prendere le mosse. Ciò vale anche per le pagine più ripugnanti di Nietzsche. Sarebbe precipitoso leggerle come una diretta anticipazione del nazismo. Ad esempio, l'"annientamento delle razze decadenti" invocato dal filosofo è una pratica in atto nella seconda metà dell'Ottocento (si pensi alla cancellazione dalla faccia della terra dei pellerossa negli Stati Uniti e
degli "indigeni" in Australia e nell'Africa del Sud); e questa pratica è così largamente accettata e condivisa che ad essa non hanno nulla da obiettare neppure autori che si dichiarano liberali (Burckhardt, Renan ecc). Certo, è a partire da questo contesto ideologico e politico che bisogna prendere le mosse per comprendere poi la genesi dell'ideologia nazista; ma questa vicenda va al di là non solo di Nietzsche, ma anche della Germania nel suo complesso.Respingendo sia la lettura in chiave di innocente "metafora", sia la lettura in chiave di "anticipazione", il mio libro insiste sulla necessità di unaprecisa contestualizzazione storica.

3) Qual è secondo Lei, anche se non è semplice esplicitarlo in poche righe, il “vero” Nietzsche che definisce ribelle aristocratico? Qual è la sua originalità filosofica?

E' lo stesso Nietzsche che per un verso si atteggia a "ribelle", per un altro verso fa professione di "radicalismo aristocratico". Com'è noto, questa espressione si deve alla penna di Georg Brandes, amico e ammiratore del filosofo che subito l'accoglie con entusiasmo. Essa sembra ben caratterizzare un atteggiamento politico che non si limita a condannare come espressioni di "decadenza" e "degenerazione" lo Stato sociale, i sindacati, la diffusione dell'istruzione, la democrazia, il regime parlamentare. Nietzsche va ancora oltre: rivendica la permanente validità dell'istituto della schiavitù quale fondamento della civiltà e invoca l'intervento dell'eugenetica, al fine di allevare e tener ben distinte la "razza dei signori" e la "razza dei servi". Uno degli aspetti più rilevanti dell'originalità di Nietzsche è già nel modo in cui egli procede alla denuncia della rivoluzione. Alle spalle della rivoluzione del 1789 in Francia c'è la rivoluzione americana, con la partecipazione in primo piano di personalità e circoli ispirati dal puritanesimo: sono i discendenti della rivoluzione puritana del Seicento inglese. Ma il nostro filosofo non si ferma qui. Procede ancora più a ritroso e si imbatte nella Guerra dei contadini e nella Riforma protestante, e cioè in rivolte servili e in sconvolgimenti politici e sociali ispirati direttamente dal cristianesimo. Ancora prima abbiamo i movimenti pauperistici medioevali che agitano parole d’ordine desunte dagli "agitatori cristiani" che sono i "Padri della Chiesa": sì, secondo Nietzsche, nel cristiano "concetto dell'uguaglianza delle anime di fronte a Dio" è da vedere "il prototipo di tutte le teorie della parità dei diritti", quelle che poi si sono espresse politicamente nella rivoluzione francese e nel movimento socialista. Con un ultimo salto all'indietro, il filosofo collega la predicazione evangelica all'opera di sovversione di quegli "agitatori sacerdotali" che sono i profeti ebraici, animati anche loro dall'odio contro la ricchezza e il potere. E' così che la condanna della rivoluzione francese si trasforma in Nietzsche nella denuncia della rivoluzione ebraico-cristiana, di un interminabile ciclo rivoluzionario che ha preso le mosse oltre duemila anni fa dalla religione dominante in Occidente.

4) In un paragrafo del suo libro (pag. 1033), Lei sottolinea la critica che Nietzsche fa della “guerra umanitaria” e dell’”imperialismo dei diritti umani”: ci può spiegare questo passaggio? La critica ante litteram di Nietzsche può essere ritenuta valida per la nostra attualità?

Abbiamo visto che trasformare in un'innocente metafora il discorso di Nietzsche sulla schiavitù significa fare grave torto ad un autore che, sin dalla sua adolesce politica. Proviamo ora a far intervenire il contesto storico. Ecco allora che la stessa celebrazione della schiavitù finisce col dispiegare un'insospettata efficacia critica. Essa cade nel momento in cui il colonialismo europeo trasfigura la sua espansione come un contributo decisivo alla causa della lotta contro la barbarie della schiavitù. Viene così bandita una Crociata, talvolta intesa nel senso letterale e cristiano del termine; senonché la sua avanzata va di pari passo con l'assoggettamento della popolazione "indigena" al lavoro più o meno coatto e persino con una vera e propria recrudescenza del lavoro servile, nonché con la disgregazione e la distruzione della cultura indigena. E, dunque, la celebrazione nietzscheana della schiavitù s'intreccia, paradossalmente, con la demistificazione delle reali pratiche coloniali di asservimento ed etnocidio: ""L'abolizione della schiavitù", questo presunto contributo alla "dignità dell'uomo", è in realtà l'annientamento di una stirpe profondamente diversa, mediante l'affossamento dei suoi valori e della sua felicità". Negli ultimi decenni dell'Ottocento, Bismarck decide di agitare anche lui la parola d'ordine dell'abolizione della schiavitù nel mondo coloniale e dell'espansione della civiltà e dei principi umanitari. Ed ecco che si rivolge a suoi collaboratori in questi termini: "Non sarebbe possibile reperire dettagli raccapriccianti su episodi di crudeltà?". Sull'onda dell'indignazione morale da essi suscitata, sarebbe stato poi più agevole bandire la Crociata contro l'Islam schiavista e rafforzare il ruolo internazionale della Germania. Si potrebbe commentare con Al di là del bene e del male: "Nessuno mente tanto quanto l'indignato". Non c'è dubbio che una critica della "guerra umanitaria" e dell'"imperialismo dei diritti umani" non possa prescindere dalla lezione di Nietzsche.

5) Per quali motivi Lei dissente dalle interpretazioni di Nietzsche che hanno “recuperato” a sinistra questo pensatore, mi riferisco ad esempio a Vattimo?

In Nietzsche possiamo leggere sia la legittimazione della schiavitù che la celebrazione dell'emancipazione dell'individuo, sia la rivendicazione di un sapere critico attento alla totalità che la condanna dell'istruzione per coloro che sono destinati ad essere schiavi e macchine da lavoro... E' una contraddizione? Pressappoco in quello stesso periodo di tempo, in un eminente autore americano, Calhoun, che è stato anche vice-presidente degli USA, la teorizzazione dell'assoluta inviolabilità della sfera di libertà individuale va di pari passo con la difesa intransigente di quel "bene positivo" che è la schiavitù. Calhoun si richiama a Locke, e anche nel liberale inglese la ferma condanna dell'assolutismo monarchico è solo una faccia della medaglia, l'altra essendo costituita dalla tranquilla accettazione del potere assoluto che, nelle colonie, i proprietari di schiavi esercitano sugli schiavi stessi. In Nietzsche giunge a compimento e trova espressione consapevole la tendenza di fondo della storia dell'Occidente: una celebrazione dell'individuo emancipato che si fonda sull'asservimento di coloro che sono esclusi dallo spazio sacro della "civiltà". Leggere la tradizione liberale e leggere il pensiero di Nietzsche in chiave solo di emancipazione significa rimuovere le paurose clausole di esclusione che caratterizzano l'una e l'altro. Neoliberalismo e postmoderno sono due facce della stessa medaglia.
Detto questo, devo aggiungere che la polemica con Vattimo è anteriore al
mio libro su Nietzsche. Il 14 aprile 1999, mentre infuriava la guerra contro la Jugoslavia, su "La Stampa" appariva una breve lettera firmata da Gianni Vattimo che così suonava o tuonava: "Ma Domenico Losurdo, Luciano Canfora, Costanzo Preve, Livio Sichirollo e gli altri firmatari della lettera di solidarietà al popolo serbo, che invitano Milosevic a "ristabilire la convivenza tra i diversi gruppi etnici" nonostante l'aggressione imperialista (colpevole di averla turbata?), hanno sentito parlare della Bosnia, degli stupri etnici, dei campi di concentramento, della pulizia razziale cominciata da Milosevic dieci anni fa?". Due giorni dopo, sempre "La Stampa" ospitava una replica firmata dal sottoscritto. Dopo una ricostruzione assai diversa della vicenda del Kosovo, la mia lettera così si concludeva: "Vattimo si è meritatamente conquistato una fama internazionale come interprete di Nietzsche e Heidegger. Peccato che ora sembri perdere di vista un aspetto essenziale della loro lezione: il pathos morale può veicolare le peggiori crociate sterminatrici". Prescindiamo qui dagli aspetti più immediatamente politici di questo scambio di lettere (d'altro canto, sulla nuova guerra che si profila all'orizzonte, Vattimo sembra per fortuna voler assumere un atteggiamento del tutto diverso). E' più importante un altro aspetto. Già dalla polemica appena vista emergeva un contrasto filosofico, che verteva e verte non sulla grandezza del filosofo in questione, bensì sugli insegnamenti che da lui si possono e si devono ricavare. Anzi, dal mio punto di vista era ed è chiaro che la lettura innocentista di Nietzsche gli fa un grave torto, rendendo impossibile la comprensione della possente carica demistificatrice che dispiega il suo "radicalismo aristocratico".

6) Il suo è un volume monumentale. Lei come si spiega il fatto che su oltre mille pagine di studio che ha condotto, l’attenzione intorno al suo libro si sia focalizzata sull’Appendice, in cui Lei polemizza con l’edizione Colli-Montinari?

Lasciamo da parte gli aspetti più meschini della polemica, l'incapacità di rispondere in modo argomentato alle critiche mosse ad un'edizione viziata, almeno per quanto riguarda la versione italiana, da rimozioni che rendono impossibile o assai difficile la comprensione del rapporto istituito dal giovane Nietzsche tra socratismo e ebraismo; ovvero l'incapacità di rispondere in modo argomentato alle critiche mosse ad una traduzione sulla quale pesano negativamente la confusione tra "civiltà" e "civilizzazione", nonché le metamorfosi del finanziere ebraico che da "apolide" si trasforma in "apolitico", della "casta" che si ingentilisce in "classe", dell'"allevamento" che si sublima in "educazione", del "trattamento dei malati" che, scrollatosi di dosso il suo sinistro significato eugenetico, si trasfigura in amorevole "cura dei malati". Tali rimozioni e tali sviste sono il risultato di una lettura destoricizzante, alla quale gli ermeneuti dell'innocenza fanno fatica a rinunciare. La sorella Elisabeth è un comodo capro espiatorio. Già nel 1886, in riferimento a Al di là del bene e del male, un fine filologo quale Rohde parla di "morale cannibalesca". Qualche anno dopo è un fervido ammiratore di Nietzsche, Brandes, a sottolineare, compiaciuto, come il filosofo intenda farla finita con "l'igiene che mantiene vivi milioni di esseri deboli e inutili". Conviene allora ricordare la saggia osservazione formulata da Gadamer, nel 1986: "Più d'uno ha creduto che la nuova edizione critica, pubblicata da Colli e Montinari, provocasse un nuovo e decisivo arricchimento e approfondimento della comprensione di Nietzsche. Ora è certamente vero che per la prima volta possediamo i quaderni di appunti di Nietzsche in forma criticamente sicura e cronologicamente ordinata e che non dipendiamo più dalla redazione e dalla selezione in cui la sorella di Nietzsche e gli editori successivi avevano compilato i suoi frammenti postumi; tuttavia è ingenuo credere che oggi, con a disposizione il vero Nietzsche, siamo definitivamente affrancati dalle preoccupazioni che hanno tormentato gli interpreti precedenti".

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