Giano

Domenico Losurdo

 

Il libro di Domenico Losurdo ha suscitato un acceso dibattito sulla stampa ed è già un caso editoriale. Filosofia.it vi propone un resoconto completo degli articoli che si sono occupati del volume.


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Giano, numero 45, dicembre 2003

La persistenza dell’Ancien Régime e la sua cultura: Friedrich Nietzsche e il blocco aristocratico-borghese

di Stefano Azzarà

1) La persistenza generalizzata dell’Ancien Régime in Europa

Arno J. Mayer ha studiato qualche anno fa «la persistenza dell’Ancien Régime» alle soglie del primo conflitto mondiale, ricollegando a questo fenomeno quella degenerazione negli equilibri interni e internazionali che ha condotto alla catastrofe del Novecento. La Grande Guerra va intesa come «il portato di una rimobilitazione […] degli anciens régimes europei» , espressione «del declino e della caduta del vecchio ordine» che «si batteva per prolungare la propria vita». Incalzato dall’industrialismo e da più avanzati rapporti sociali, questo si ostinava a «far resistenza al corso della storia» e si poneva dunque come un fenomeno di “reazione”.
Le tesi di Mayer hanno fatto animatamente discutere gli storici e non sempre sono state comprese. Esse costituiscono certo una notevole revisione rispetto ai canoni della storiografia marxista (loro presupposto è la constatazione che al passaggio di secolo la struttura socio-politica europea era ancora in tutte le nazioni, compresa l’Inghilterra liberale o la Francia repubblicana, «preindustriale e preborghese».). Ma sono stati soprattutto gli storici liberali a mostrarsi sordi, per via di quel pregiudizio consolatorio che contrappone da cinquant’anni l’idea di un Sonderweg tedesco ad uno sviluppo liberale “normale”, pensato secondo il modello anglosassone .
In realtà Mayer non diceva affatto che l’Europa di quegli anni poggiasse ancora su una struttura precapitalistica e feudale-corporativistica. Descriveva piuttosto uno stadio particolare del capitalismo europeo, ben diverso da quello che scaturirà dalla prima e soprattutto dalla seconda guerra mondiale. Uno stadio caratterizzato da formazioni economico-sociali diverse, il cui referente politico era un blocco d’alleanza nel quale la borghesia si accodava emulativamente all’egemonia di ceti aristocratici ancora saldamente dominanti. E’ lo stesso blocco che – con terminologia apparentemente opposta - Charles S. Maier definiva «borghese». A cavallo dei due secoli, spiegava quest’ultimo, «la maggior parte delle vecchie élite avevano formato un cartello conservatore con i rappresentanti politici borghesi, che individuavano gli stessi nemici e difendevano le stesse prerogative» . Questo blocco dirigerà le nazioni europee fino al 1918 a partire da una «collusione di interessi tra il feudalesimo aristocratico e il capitalismo borghese» . Esso cercherà di perpetuare le condizioni del proprio dominio secondo il progetto elitista del liberal-conservatorismo ottocentesco, in cui una società di massa appena abbozzata non riusciva ancora ad abbattere le pesanti clausole d’esclusione che colpivano le classi subalterne (per non parlare dei popoli colonizzati).
Questo progetto era però minacciato da una contraddizione interna, stimolata dalla pressione delle lotte operaie. Una parte della borghesia, in particolare quella delle “nuove industrie”, tendeva a forzare i termini dell’alleanza e a rovesciarli a proprio favore. Questa uscita di tutela avrebbe comportato la ricollocazione delle élites aristocratiche in una posizione più arretrata, con una considerevole diminuzione della loro quota di potere ed egemonia, perché la borghesia era ormai interessata all’apertura di un nuovo fronte progettuale, rivolto questa volta verso il basso. Non si trattava certo di un’impossibile alleanza con le classi lavoratrici, ma della constatazione che era da questo lato della dialettica di classe che si giocava ormai lo sviluppo della società capitalistico-borghese, e che era il confronto politico con il movimento operaio il terreno che avrebbe deciso gli assetti della società del domani.
È in nome del principio di un «capitalismo industriale» che questa parte della borghesia ingaggiava la lotta politica con il progetto autonomo della classe operaia, per definire in un equilibrio conflittuale l’ordinamento della nuova società di massa. Comunque si fosse conclusa, con la vittoria delle forze borghesi o con un compromesso, questa lotta rappresentava la fine del blocco del liberalismo classico. Essa era una grandiosa “rivoluzione dall’alto” che implicava una totale ridefinizione delle strutture politiche, l’annientamento dell’armonia tra l’aristocrazia e la parte più arretrata della borghesia, la crisi dell’alleanza liberal-conservatrice. Suo presupposto era infatti l’affermazione irreversibile del suffragio universale: questo doveva essere ora accettato e anzi utilizzato come forza propulsiva, nelle forme di una legittimazione plebiscitaria di regimi di tipo bonapartista soft e in generale attraverso una «nuova politica» capace di neutralizzare e incanalare l’energia di movimento delle masse. In ogni caso, era necessaria una radicale revisione delle istituzioni politiche, a partire dal riconoscimento della sovranità popolare.
È esattamente contro questa prospettiva che gli anciens régimes europei si rimobilitavano. Non una semplice lotta di resistenza della vecchia aristocrazia contro la borghesia rampante, dunque, ma un conflitto più complicato, che attraversava il blocco in cui esse erano alleate e lo divideva nel nome di due progetti politico-sociali diversi. In questo senso, il ciclo della seconda guerra dei Trent’anni rappresenterà la dinamica con cui le forze sociali europee cercheranno di prendere una decisione in merito alla gestione della società di massa: la lotta in cui si sarebbe stabilito che cosa dovesse essere la “democrazia” del XX secolo. Il blocco al potere si troverà lacerato secondo due linee di fuga. O la conservazione integrale del vecchio ordine, anzi il suo rilancio e riaffermazione di contro ai sussulti della società di massa; o una rivoluzione dall’alto, che confermi nella sostanza i rapporti gerarchici nella società e i carichi di potere politico, accettandone però dolorose modifiche. Accettandone cioè un riaggiustamento, conseguenza necessaria della cooptazione delle classi subalterne, i cui costi saranno scaricati su una parte dei gruppi della vecchia alleanza.
Affossando il progetto veteroconservatore, i ceti borghesi intendevano superare i vecchi equilibri. Questa spaccatura non trovava però inerte il progetto liberal-conservatore. Questo stesso era già entrato in fibrillazione, per la spinta oggettiva dei nuovi problemi posti dalla società di massa e si era ormai disposto a prendere dimestichezza con nuovi metodi, primi tra tutti l’eccitazione imperialistica della folla e la manipolazione scientifica dell’opinione pubblica. Posto di fronte alla lotta più dura, anche questo progetto liberal-conservatore rompeva però ogni indugio. Esso tagliava i ponti con le proprie forme tradizionali, puntando decisamente verso una “rivoluzione conservatrice” che troverà nella mobilitazione di guerra un nuovo modello politico, opponendolo a quei settori che intendevano rompere l’alleanza. Sono queste le dinamiche che diverranno palesi nel corso della Prima guerra mondiale, ponendo il conservatorismo europeo di fronte a un bivio.

3) Nietzsche: la visione del mondo del blocco aristocratico-borghese

Queste ipotesi storiografiche trovano oggi una conferma circostanziata in quel grande affresco della società europea fin de siècle e del suo mondo intellettuale che Domenico Losurdo ha realizzato occupandosi di Friedrich Nietzsche, la personalità forse più significativa, in quegli anni, sul piano filosofico e, più in generale, su quello culturale .
E’ noto da tempo agli storici che Lebensphilosophie, positivismo socialdarwinistico e nietzscheanesimo erano divenute alla fine del XIX secolo una vera e propria forma di autocoscienza delle classi dominanti. Uno strumento «immensamente significativo e prezioso per le élites impegnate nella riaffermazione del proprio dominio», ovvero «la fonte congiunta, spirituale ed intellettuale […] che sullo scorcio dell’Ottocento dette il via alla campagna per preservare o rinvigorire l’ordine tradizionale», l’ordine del blocco sociale delle classi dominanti aritocratico-borghesi. Insomma, le «teorie delle élites», di cui Nietzsche è capostipite, «rispecchiavano, e razionalizzavano» in maniera evidente, secondo Mayer, «prassi di dominio correnti» . È un concetto che sta molto a cuore anche a Norbert Elias, per il quale proprio Nietzsche rappresentava la figura maggiormente espressiva della riconfigurazione ideologica di quegli anni. Nietzsche incarnava, a suo avviso, la tipica forma dell’autocoscienza della società guglielmina e del suo riconoscimento – portato sino al radicalismo più estremo - nei valori dell’ordine dominante. «Ciò che Nietzsche predicava così rabbiosamente e a gran voce, come se fosse qualcosa di nuovo e straordinario», dice Elias, «in sostanza non era che la verbalizzazione di una strategia sociale molto antica» . Egli non faceva che portare a coscienza e rivendicare, attraverso le forme trasfigurate di un nuovo mito filosofico-politico, i fondamenti ideologici di quel blocco sociale europeo dominante nel quale un notevole ruolo aveva mantenuto la tradizione e l’eredità della mentalità, dei valori e degli schemi di comportamento dell’aristocrazia. Posizioni come «il disprezzo per i deboli e i falliti», o «il grande valore attribuito alla guerra», sono in realtà atteggiamenti consustanziali all’ethos guerriero, valori che erano andati via via “civilizzandosi” nella prassi di governo dell’aristocrazia e che Nietzsche estremizzava ed elevava «ad un livello ancora superiore di generalizzazione», trasformandoli addirittura «in un imperativo ancor più universale». In una sorta di contro-morale socialdarwinista, che desse orgoglio e sicurezza di sé alla rimobilitazione del vecchio ordine per la controffensiva finale.
Per Elias, Nietzsche non inventava nulla, dunque, ma rifletteva, elaborava e conduceva ad una sintesi superiore lo spirito di quei ceti ai quali era organicamente collegato. La sua proclamazione del diritto del più forte e la sua celebrazione della violenza civilizzatrice, «ben prima di essere espresse concettualmente ad un livello più alto, erano già presenti nel costume sociale», in quanto valori condivisi di un ethos e criteri della pratica sociale. Ben più profondo di quanto molti degli attuali interpreti vedano era, dunque, il «legame della sua esaltazione della forza e della volontà di potenza con gli avvenimenti dell’epoca». Cogliendo in maniera brillante le conseguenze ideologiche dello Zeitgeist sulla sua classe sociale di appartenenza, Nietzsche «esprimeva, in forma riflessa e sul piano della più elevata universalità filosofica» le linee di sviluppo fondamentali della società guglielmina, a loro volta esito finale del filtraggio di «forme di comportamento e di valutazioni che fanno parte degli elementi costitutivi dell’esistenza sociale di molti gruppi guerrieri dell’umanità». In particolare, egli era la figura espressiva di quella fase determinata dello sviluppo storico europeo caratterizzata dall’«accoglimento da parte di ampi spazi sociali borghesi del suo tempo di un codice guerriero, di cui all’inizio erano portatori i nobili». Un assorbimento nel quale i borghesi si distinguevano proprio per il tipico «zelo dei neofiti»: elevato a «dottrina nazionale borghese» o addirittura a «dottrina filosofica universale», questo ethos segnava un programmatico distacco da certe precedenti istanze culturali e morali universalistiche della borghesia.
Tematizzato finora soltanto di passaggio e in maniera del tutto insufficiente – e più nelle opere degli storici che in quelle dei filosofi - questo legame organico tra il pensiero di Nietzsche e i complessi processi storico-politici di trasformazione della società europea di fine Ottocento costituisce il tema centrale del libro di Losurdo. Mostrandoci «la consonanza del suo discorso con lo spirito del tempo» , esso ci mostra dal di dentro, si può dire, la cultura, la visione del mondo e persino la mentalità del blocco dominante aristocratico-borghese, alle prese con i nuovi problemi posti dal sorgere della società di massa e dall’avanzata delle classi subalterne organizzate, ma anche con quelli legati alla gestione del mondo colonizzato. Movendo da una prospettiva storico-filosofica, però, riesce al tempo stesso a riconoscergli quella «eccedenza teorica» e quella effettiva grandezza di pensiero che, invece, Mayer o Elias non sono stati capaci di cogliere o hanno finito per sottostimare.
Si tratta di una prospettiva spiazzante, rispetto alle più consuete ricezioni del pensiero di Nietzsche. Bisogna infatti ammettere che – dopo la crisi della lettura lukacsiana dei processi ideologici europei tra Otto e Novecento - l’autocoscienza “inattuale” e persino “rivoluzionaria” del filosofo tedesco è stata integralmente fatta propria dai maggiori interpreti, sino a divenire una sorta di luogo comune. «Non possiamo essere altro che rivoluzionari», sosteneva in effetti Nietzsche in un passaggio di Ecce Homo, nel riepilogare una delle tante tappe del suo tormentato pensiero. E in effetti, come negare la sua capacità, sin dalla Nascita della tragedia, di sconvolgere ogni genere letterario e ogni consolidata categoria intellettuale, così come di sottoporre ad una critica radicale la società del suo tempo? L’Europa in via di imborghesimento della seconda metà dell’Ottocento era per lui il mondo in cui la decadenza dell’arte ufficiale – l’insensibilità del pubblico dei parvenus, come l’esaurimento di ogni spinta innovatrice da parte degli artisti - costituiva solo il sintomo di una più generale crisi, una crisi investiva i fondamenti stessi della civiltà. In un mondo che appariva sempre più dominato dagli scambi, in cui l’universale circolazione del denaro imponeva il dominio di uno spirito «mercantile» e «filisteo» e di una mentalità utilitaristica, non sembrava esserci più spazio per alcuna individualità realmente creatrice. L’intera organizzazione sociale era volta ormai a riprodurre in serie lo stesso tipo umano: l’«ultimo uomo» banausico, membro dell’opinione pubblica manipolata dai giornali e suddito del regno dell’omogeneità, incapace di sfuggire a quella generale repressione del desiderio che incatena le energie vitali alle esigenze di un’accumulazione fine a se stessa.
Succube di un sistema sociale anonimo ed impersonale, la libertà del singolo era per lui ormai annientata e l’uomo europeo pareva destinato a condurre una volgare esistenza da «bestie d’armento». A poco serviva, allora, denunciare i fenomeni superficiali che attestavano questa schiavitù generalizzata, come inutile e deleteria sembrava a Nietzsche una contestazione che individuasse nell’organizzazione economica della società il segreto di una forma di dominio che aveva per lui radici ben più profonde e non riguardava una classe soltanto. Si trattava, piuttosto, di indagare i presupposti stessi della modernità, l’architettura metafisica che aveva accompagnato la formazione dell’Europa borghese, mettendo a nudo la «genealogia» di una visione del mondo e di un modo di sentire che gli uomini avevano introiettato nel corso di secoli. Solo individuando un terreno diverso da quello della tradizione - terreno condiviso da ideologie politiche come il liberalismo e il socialismo, che pure si davano battaglia in una sfida mortale – gli sembrava possibile sfuggire alla decadenza e individuare un percorso reale di liberazione.
Attraverso un’analisi che sul piano della lunga durata incrociava filosofia e storia, morale e psicologia, Nietzsche si confrontava perciò con l’intera tradizione del pensiero occidentale, mirando a distruggerne i fondamenti per preparare un’alternativa radicale. Non era stata soltanto la tradizione religiosa ebraico-cristiana a neutralizzare gli istinti vitali più genuini, incatenando lo spirito dionisiaco degli antichi greci al senso della colpa e del peccato e rendendo infinitamente piccolo e impotente l’uomo di fronte ad un dio ormai da tempo «morto». Era stata l’intera impostazione concettuale della cultura europea, sin da Socrate e Platone, ad aver edificato sulla finzione di un «mondo vero», di una serie di «assoluti» di volta in volta diversi – Idea, Verità, Ragione, Soggetto, Progresso… - ma sempre astratti e ideali, un sistema di valori che aveva finito per mortificare la volontà di potenza degli individui migliori. A fine Ottocento, alla fine della modernità, proprio mentre sembrava celebrare il proprio trionfo, la metafisica occidentale si avvolgeva nella spirale irreversibile di un «nichilismo» che travolgeva ogni cosa. Dopo aver assunto la forma del primato cartesiano del cogito, essa culminava, con Hegel, in una filosofia della storia ottimisticamente progressiva, che sanciva il dominio incontrastato dello spirito conoscente sulla natura e su ogni ambito vitale che tentasse di sfuggire alla razionalizzazione. Il regno del sapere assoluto era però la fine del mistero della vita e di ogni capacità di creazione e nuovo inizio: contro tutto ciò, era giunto il tempo, per gli «spiriti liberi» e anticonformisti, di esplorare nuovi territori, di rompere il vincolo con ogni passato e operare una «trasvalutazione di tutti i valori» capace di invertire il corso della storia: «All’uomo sono state poste molte catene… gli errori gravi e insieme sensati delle idee morali, religiose e metafisiche… Ora noi siamo impegnati nel nostro lavoro di togliere le catene» (Il viandante e la sua ombra).
Alla luce di queste movenze anarchiche e libertarie, sembra impossibile concepire un nesso tra il pensiero di Nietzsche e quella che Losurdo chiama la «reazione aristocratica» di fine Ottocento. Mentre si comprende, al contrario, il fascino che tale filosofia ha sempre esercitato nei più diversi ambiti intellettuali e politici. All’indomani del ’68 e sull’onda di una più generale ricerca di una prospettiva di liberazione di massa, ad esempio, è proprio in chiave “rivoluzionaria” che Nietzsche veniva massicciamente recuperato a sinistra, soprattutto in Italia e in Francia. Ne Il soggetto e la maschera, Gianni Vattimo, interpretando Nietzsche come filosofo della liberazione dell’individuo da tutte le «strutture sociali che implicano necessariamente la divisione tra dominanti e dominati» , denunciava il fallimento finale di questo «intellettuale borghese d’avanguardia» proprio nel suo mancato incontro con il «movimento rivoluzionario del proletariato», degli «esclusi» e «sfruttati» dalla ratio capitalistica, lamentando al tempo stesso la sordità della cultura comunista e auspicandone un rinnovamento. Né diversa, in fondo, era la prospettiva di ricerca su tutto il «pensiero negativo» avanzata da Massimo Cacciari in Krisis .
Le ragioni di ciò che secondo Losurdo è stato un grave equivoco (e che ha obbligato gli interpreti a forzare sempre più in chiave “metaforica” i testi nietzscheani) investono il problema generale della crisi di autonomia della cultura marxista italiana e della sua dissoluzione post-moderna. Per proporre la sua lettura di Nietzsche come «ribelle aristocratico», Losurdo non si rifugia però nella consunta denuncia dell’uso che del suo pensiero è stato fatto durante la stagione del nazismo, né intende riattualizzare un’interpretazione pur importante come quella di Lukács. Ciò che gli appare indispensabile, piuttosto, è operare una rigorosa contestualizzazione storica, facendo ciò che neppure Lukács ha fatto: leggere Nietzsche direttamente «nel suo tempo» significa mantenere un costante riferimento alle concrete trasformazioni che nella seconda metà dell’Ottocento animavano la storia mondiale, nonché ripercorrerne l’evoluzione alla luce dell’intero dibattito filosofico e ideologico nel quale egli era immerso assieme alle classi dirigenti della sua epoca. Non ha senso, ad esempio, «collocare Nietzsche in un rapporto immediato col regime hitleriano», ribadendo una teoria del Sonderweg per cui «reazione antidemocratica di fine Ottocento, socialdarwinismo e nazismo» diventano un continuum, «in una vicenda del tutto interna alla Germania». Bisogna invece guardare all’epoca del II Reich e a dinamiche di trasformazione sociale e ideologica che investivano, in quell’epoca, l’Europa e l’intero Occidente.
E’ l’unica metodologia corretta, secondo Losurdo, per riconoscere davvero l’importanza di questo filosofo, la cui indiscutibile grandezza – che non necessita di maquillages a posteriori - consiste proprio nell’essersi confrontato, in maniera originale, con tutte le principali contraddizioni storico-politiche della sua epoca, cogliendone le tendenze di fondo ed elaborando un ambizioso progetto di superamento integrale della modernità. Attraversando le pagine di questo testo ritroviamo, allora, esattamente la questione dalla quale avevamo preso le mosse: i massicci mutamenti della struttura politico-sociale europea a cavallo tra il XIX e il XX secolo e i contraccolpi da essi suscitati. Scopriamo, infatti, che il problema di Nietzsche era il problema che un’intera epoca storica poneva alle classi dirigenti di tutta Europa. Il blocco aristocratico-borghese delle élites al potere, così ben descritto da Mayer, si trovava di fronte le conseguenze di quell’imponente processo di emancipazione generale innescato dalla Rivoluzione francese e portato avanti dal movimento socialista organizzato. L’epoca delle masse era cominciata e l’avanzata della democrazia moderna, come democrazia politica ma anche economica e sociale, appariva inarrestabile. Come sventare il pericolo di uno sconvolgimento radicale di quegli ordinamenti politici e sociali che storicamente garantivano l’intangibilità della proprietà privata e il dominio dei ceti fino ad allora privilegiati? Il liberalismo europeo, come abbiamo visto, si divide e sperimenta nuove strade: essendo ormai inane la difesa conservatrice dell’esistente, non restava forse che il compromesso con le nuove classi sociali, attraverso una «rivoluzione dall’alto» che tenesse conto dei nuovi rapporti di forza e sviluppasse meccanismi di inclusione delle masse e di assorbimento dei loro gruppi dirigenti. E però, identificando la democratizzazione con la fine della stessa civiltà europea, massicci settori del liberalismo europeo si orientavano, tutt’al contrario, per una controffensiva in grande stile, destinata a rivelarsi vitale ed efficace. Per il progetto di una «rivoluzione conservatrice» o di una «reazione aristocratica», che, lungi dall’accettare mediazioni, sfidasse i processi di emancipazione sul loro stesso terreno, quello della politica di massa, del cesarismo plebiscitario, dell’agitazione sciovinistica e colonialista.
E’ a quest’altezza, ben immersa nel suo tempo e – diversamente da quanto sostengono Dahrendorf e i liberali - tutt’altro che «inattuale», che si dipana la filosofia di Nietzsche. Un pensiero «totus politicus», dice Losurdo, e che, sin dal confronto disperato con la Comune di Parigi e attraverso configurazioni anche molto diverse, trova il proprio cuore «nella critica della rivoluzione». Affinché ci sia «Civiltà», è necessario che la maggioranza degli uomini sia impiegata nella produzione, liberando dal lavoro l’élite di quei pochi individui pienamente umani e capaci di vera creazione. L’epoca del «nichilismo europeo» e della «decadenza», l’epoca – denunciata con toni così accorati - della fine del genio e delle individualità eccezionali, dunque, è in realtà per Nietzsche nient’altro che quella della rivoluzione e dell’avanzata delle masse, dell’irrompere dei «nuovi barbari» che assediano i santuari della cultura e della distinzione di ceto. Ma la «rivolta degli schiavi», che sovverte l’«ordinamento naturale» delle cose imponendo il dominio delle masse e la diffusione generalizzata dell’ideologia del lavoro, è un processo che è in realtà in corso da millenni e che va smantellato alla radice. Già la scoperta socratica del concetto individuava sul terreno della comune ragione i fondamenti logici dell’eguaglianza umana. Non diverso è stato l’esito della carica universalistica insita nel profetismo biblico; per non parlare della predicazione d’amore e fratellanza del Cristianesimo. Riconducendo ad unità i fili dispersi nell’opera del filosofo tedesco, Losurdo mostra come per Nietzsche l’intera storia della cultura europea e della formazione dei suoi «sentimenti morali», la storia dello stesso concetto di «umanità», sia egemonizzata dal ressentiment e dall’invidia plebea dei «malriusciti», che hanno castrato la superiore volontà di potenza dei «dominatori» attraverso l’induzione del più subdolo senso di colpa.
E’ con la modernità però, grazie anche all’emergere di un ceto di intellettuali fanatizzati dal loro credo criptoreligioso nella ragione universale e nel progresso comune del genere umano, che la rivolta si fa organizzata e prorompe, nella Rivoluzione francese e nel movimento socialista. Di contro a questa catastrofe dalle radici antiche, non ha dunque senso, per il «ribelle aristocratico», richiamarsi alla tradizione o alla religione, come intenderebbe fare una parte del blocco dominante. Occorre semmai, spiega Losurdo, smantellare i freni inibitori che proprio esse pongono alla controffensiva del «partito della vita» ed elaborare un «contromovimento», «una piattaforma filosofico-politica del tutto nuova». L’«immoralista» ora deve ribadire con coraggio i diritti della «gerarchia» e, prima che sia troppo tardi, mirare a risolvere per sempre, attraverso le misure più drastiche, la questione del potere posta dalle «guerre socialiste» già in corso. Per assicurare la persistenza dell’ordine europeo, non bisogna più arretrare di fronte all’idea di nuove forme di schiavitù, né a programmi eugenetici di «annientamento di milioni di malriusciti» e «allevamento» dell’«umanità superiore», né alla sottomissione brutale e allo sterminio delle «razze inferiori».
E’ un progetto grandioso, nella sua portata reazionaria e nella sua capacità, commenta Losurdo, di «mettere in discussione due millenni di storia». Nell’esprimere il fondo oscuro e ancora sconosciuto dell’estremismo liberale vagheggiato da una parte del blocco dominante di fine Ottocento, esso sa ammantarsi di ribellismo e usare la parola d’ordine della rivoluzione, ed è anche capace di criticare cinicamente le ipocrisie della borghesia del suo tempo (come quando smaschera la natura imperialista di guerre condotte, ieri come oggi, in nome della «civiltà», della «morale» o dei «diritti umani»). Ciò non toglie che la critica nietzscheana dell’ideologia, la sua contestazione della falsità dell’universalismo borghese e dei suoi ideali morali, conduca per Losurdo non già alla ricerca di un universalismo pieno e compiuto ma, piuttosto, alla rimozione di ogni vincolo e alla trasfigurazione della più brutale parzialità insita nella legge del più forte. Quella legge che il «popolo dei signori» pratica da sempre – e vuole continuare a praticare -, prima contro le classi subalterne e poi contro i «sottouomini» delle colonie. La “liberazione” dagli assoluti della metafisica promessa da Nietzsche si rivela, alla lente del nuovo metodo storico-materialistico di questo libro, il colpo di coda ideologico con il quale un’epoca e le sue classi dirigenti hanno tentato di risollevarsi dalla propria crisi, lanciando la più radicale delle offensive politiche. Elaborando un progetto di dominio così crudele ed orgoglioso, cioè, che nemmeno l’epoca terribile che si aprirà con la morte del filosofo tedesco sarà capace di farlo pienamente proprio.


Riferimenti bibliografici

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