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Domenico Losurdo

 

Il libro di Domenico Losurdo ha suscitato un acceso dibattito sulla stampa ed è già un caso editoriale. Filosofia.it vi propone un resoconto completo degli articoli che si sono occupati del volume.


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SWIF, Sito Web Italiano per la Filosofia, Università degli Studi di Bari (http://www.swif.uniba.it), dicembre 2003

Losurdo, Domenico, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico. Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 1167, euro 68,00

di Maurizio Brignoli

Domenico Losurdo sviluppa in Nietzsche, il ribelle aristocratico una scrupolosa e dettagliata ricostruzione del contesto storico e del dibattito culturale coevo quali premesse per comprendere l’evoluzione della carica dissacratoria del pensatore di Röcken.

Fin dalla Nascita della tragedia è possibile vedere come gli spunti politici non siano esterni alla riflessione estetica e come la grecità sia una categoria filosofica elaborata in contrapposizione al mondo moderno, soprattutto alla Francia contemporanea attraversata dalle rivoluzioni. Il pericolo mortale, che sfocia nella rivolta servile della Comune, ha le sue origini nell’illusione moderna della possibilità di conoscere e trasformare la realtà, eliminandone la componente tragica e negativa. Causa di ciò è l’ottimismo, la fede nella felicità terrena di tutti che produce lo scontento nel ceto degli schiavi e li porta a sentire come ingiusta la propria condizione. La crisi della grecità tragica sta nell’ottimismo socratico che crede nell’insegnabilità della virtù e nell’attesa di un mondo felice. Il popolo tedesco, che ha sconfitto la Francia socratica della rivolta servile, deve essere l’erede della civiltà greca. Se questa critica alla sovversiva idea di felicità comune è diffusa fra Sette e Ottocento, l’originalità di Nietzsche consiste proprio nel procedere il più indietro possibile nell’individuare l’origine della sovversione. Mentre l’ottimismo moderno porta alla rivolta e il cristianesimo alla fuga dal mondo, l’arte-religione greca promuove la felicità dell’esistenza, nonostante la coscienza del dolore della schiavitù che è a fondamento di ogni civiltà. Riflessione estetica e politica sono così strettamente unite ed è la politica a costituire l’aspetto principale che permette di cogliere l’unità tra i riferimenti al movimento socialista e alla guerra franco-prussiana e le analisi della tragedia eschilea e wagneriana. Siamo in presenza di una filosofia della storia caratterizzata dalla polemica contro lo «spirito del tempo» (Zeitgeist), dalla «critica del tempo presente» (Zeitkritik), in ultima analisi dal rifiuto della modernità (pp. 66-67). Il mondo non necessita di alcuna giustificazione estrinseca: al posto di una teodicea si pone così una cosmodicea che, oltre a eliminare la trascendenza cristiana, elimina anche qualsiasi trascendenza rivoluzionaria.
Lo stesso concetto universale di uomo è un’astrazione che non appartiene al mondo greco: la differenza tra uomo e uomo emerge nella celebrazione della personalità eccezionale. È però solo con Nietzsche che questa metafisica del genio, presente in Lagarde, Wagner, Schopenhauer, Mill, diviene il centro di un programma politico di contrapposizione radicale alla modernità e alle tendenze sovversive e massificanti ad essa connesse (p. 101).
Nietzsche spera che con l’affermarsi dell’essenza dionisiaca del popolo tedesco si possano superare le lacerazioni della modernità: la Nascita della tragedia non fa che tradurre in linguaggio dionisiaco questo ideale nato dalla vittoria sulla Francia illuminista e rivoluzionaria. Vi sono però altri miti genealogici che cercano di legittimare il Secondo Reich: quello cristiano-germanico di Wagner, quello puramente germanico dei teutomani e quello ariano-greco-germanico di Schopenhauer. Nella loro diversità, questi miti hanno in comune l’antiebraismo e, nel giovane Nietzsche, le antitesi grecità tragica/modernità e pessimismo/ottimismo coincidono con le dicotomie Germania/Francia e germani/ebrei. Il Nietzsche pre-illuminista è allora un antisemita? È forse più corretto parlare di un antigiudaismo (critica che non mette in discussione l’eguaglianza civile e politica) che può sconfinare nella giudeofobìa (ostilità che porta alla discriminazione politico-sociale); inoltre, l’ebraismo non viene definito da Nietzsche in termini razziali e la successiva presa di distanza da questa giudeofobìa emerge in contrasto con la rozzezza naturalistica dell’antisemitismo wagneriano. L’analisi della modernità, in cui l’antigiudaismo svolge un ruolo significativo, in certa misura si autonomizza rispetto a questi elementi giudeofobi che pure l’hanno accompagnata.

È possibile individuare quattro tappe nell’evoluzione di Nietzsche. Dopo la Nascita della tragedia, nelle Considerazioni inattuali, si delinea la delusione per il Secondo Reich del suffragio universale e dell’istruzione di massa. Il bersaglio polemico è costituito dalla categoria hegeliana di eticità, in cui riecheggiano gli ideali giacobini. La liquidazione della modernità richiede una decostruzione delle categorie di storia e di ragione e, per mettere in discussione il ciclo bimillenario iniziato con Socrate, bisogna confrontarsi con le tesi hegeliane della razionalità del reale e del processo storico: la filosofia della storia non è altro che una versione secolarizzata del cristianesimo medievale e la storia universale dissolve il genio in una massa amorfa, vero soggetto del processo storico. In realtà siamo di fronte non alla liquidazione della filosofia della storia in quanto tale, ma alla sostituzione di una filosofia della storia tendenzialmente democratica con una filosofia della storia squisitamente aristocratica (pp. 215-216). In questa lotta contro la rivoluzione, il culto della tradizione è solo paralizzante: rispetto alla prima fase, le Considerazioni inattuali non criticano più l’uomo teoretico che vuole trasformare la realtà, ma chiamano all’azione, e alla comunità popolare, rispettosa del mito e della tradizione, si sostituisce il ribelle solitario.
La crisi del mito genealogico greco-germanico impone un ripensamento delle categorie filosofiche e politiche ed il passaggio alla terza fase. La critica dello sciovinismo e della teutomanìa comporta l’approdo illuminista: i ribelli Wagner e Schopenhauer sono ormai superati. Ora non è più la Germania a essere paragonata alla Grecia: con Umano, troppo umano l’Europa ha il sopravvento e di questa positiva razza mista europea l’ebreo costituisce l’anticipazione migliore. L’azione rivoluzionaria viene delegittimata mostrandone le radici morali e si evidenzia come l’amore dell’eguaglianza in nome della giustizia sia solo invidia. I sentimenti morali, sottoposti a indagine storica, perdono ogni assolutezza: risulta così ridicolo contestare l’ordinamento sociale in nome della giustizia e di norme etiche. Il progetto rivoluzionario è delegittimato, prima negandone il fondamento che si riferisce all’oggettività del processo storico, e poi quello che si appella ai sentimenti e alla morale. In questo periodo, il pathos dei lumi si salda con quello dell’Occidente come luogo esclusivo della civiltà in antitesi col mondo esterno dei bruti. La nuova dicotomia è così Occidente/barbari e, se Nietzsche condanna lo sciovinismo intraeuropeo, d’altro canto celebra le guerre coloniali.
L’approdo all’ultima fase è databile 1882, con la pubblicazione della Gaia scienza. Se nelle fasi precedenti Nietzsche era stato vicino alle posizioni dei nazional-liberali tedeschi prima e a quelle del liberalismo conservatore poi, ora si impone una lotta contro il movimento democratico e socialista, ma senza compromissioni con liberalismo e conservatorismo. Per questa lotta frontale il programma filosofico illuminista non serve più. Se sul piano politico siamo di fronte a un radicalismo aristocratico, su quello filosofico si proclama l’innocenza del divenire e la rivendicazione della giustizia da parte degli schiavi in rivolta trova una confutazione radicale: ritenere ingiusto l’ordinamento sociale significa inventare, a partire dal rancore per il proprio fallimento, responsabilità che non esistono. Ciò che permane comunque immutato in queste quattro tappe è la critica e la denuncia della rivoluzione.

Altro tema abitualmente rimosso è quello della condivisione della schiavitù. Il progetto nietzscheano è in realtà chiaro: essendo ormai impossibile reintrodurre, dopo la guerra di secessione statunitense, la schiavitù in Occidente, o si trasforma la classe operaia europea in una cineseria operaia o, se no, devono essere i barbari a formare, in seguito alla colonizzazione o all’immigrazione, la classe servile del mondo civile. Un ceto di schiavi, fosse anche nelle forme del moderno proletariato, deve permanere e non deve ribellarsi, pena la caduta della civiltà. A fondamento dell’otium dei dominatori Nietzsche individua, con la spregiudicatezza che lo caratterizza e utilizzando una categoria comune a Marx, il pluslavoro. Lavoro e servaggio si identificano, ma non vi è spazio per una concezione razziale della schiavitù, che resta una condizione oggettiva della civiltà indipendentemente dal colore degli schiavi.
Nietzsche individua un bimillenario ciclo rivoluzionario che ha sempre avuto di fronte signori e servi e che ha le sue radici nella tradizione ebraico-cristiana e nella filosofia socratico-platonica. L’elemento di continuità fra profetismo ebraico, cristianesimo e socialismo è dato dall’attesa messianica del mutamento, quindi da una visione del tempo. Se la visione morale del mondo viene contrastata mediante la tesi dell’innocenza del divenire, la visione unilineare del tempo (l’altro essenziale elemento costitutivo dell’ideologia rivoluzionaria) è confutata mediante la tesi dell’eterno ritorno dell’identico (p. 504).
Nella tradizione ebraico-cristiana e in quella rivoluzionaria vi è la svalutazione del mondo come insopportabile valle di lacrime e l’aspirazione a un futuro totalmente altro, che è sinonimo di nulla. Produrre un mutamento politico che elimini dall’esistenza il negativo vuol dire condannare la vita. Il ciclo della rivoluzione coincide con quello del nichilismo.
Invece di contrapporre la razza europea dei signori alla marmaglia socialista e ai barbari delle colonie, agli occhi del filosofo, la Germania è ormai la sede della sovversione e la soluzione prospettata da Nietzsche è quella di un colpo di Stato che ponga fine al governo cristiano-socialista di Guglielmo II. La sfida sovversiva richiede l’unità delle classi dominanti e un vero programma eugenetico di fusione dell’aristocrazia prussiana con il grande capitale ebraico. Tre sono comunque le figure sociali in cui si incarna l’ebraismo: il proletario-artigiano spesso immigrato, l’intellettuale sovversivo ed il capitalista. La nota avversione di Nietzsche verso gli antisemiti riguarda solo la difesa di quella componente che, nel suo progetto eugenetico, deve andare a rafforzare il blocco dominante e non certo le altre due categorie che vanno a rafforzare il socialismo e la plebaglia.
Se la questione sociale ha in realtà una genesi psicopatologica e fisiologica, in quanto nasce dal risentimento che i falliti nutrono per le nature superiori, l’unica soluzione è l’eugenetica e se l’emigrazione nelle colonie è utile, ma non sufficiente a smaltire le scorie delle metropoli europee, è necessaria una regolamentazione dei matrimoni e delle nascite. Nietzsche elabora un programma eugenetico radicale in cui si parla espressamente di annientamento di milioni di malriusciti e di razze decadenti. Queste dichiarazioni, espressione comunque di un clima spirituale diffuso, sono abitualmente tralasciate dagli interpreti.

Per poterlo apprezzare in quanto grande filosofo, Nietzsche deve essere in primo luogo difeso contro i suoi apologeti (p. 654) che gli attribuiscono una ben limitata capacità d’intendere e di volere sul piano dell’analisi storica e politica (p. 651), nascondendo i suoi pensieri più radicali sotto il velo della metafora. D’altro lato, se è legittimo chiedersi, come fa Lukács, se vi sia continuità fra la difesa della schiavitù e il nazismo, è però dall’Ottocento che bisogna partire e soprattutto non bisogna separare la storia della Germania dalla storia dell’Occidente: bellicismo, darwinismo sociale, eugenetica e culto del superuomo esistono ugualmente negli altri paesi occidentali. La prospettiva comparata, su cui è impostato il lavoro di Losurdo, evidenzia semmai il radicalismo politico, il rigore teoretico e la finezza psicologica di Nietzsche. Costante il riferimento all’economia politica che, nel passaggio dalla cultura inglese a quella tedesca, si trasforma in elemento metafisico e diventa una sorta di economia della conservazione della specie. Comune alla tradizione liberale di Malthus, Tocqueville, fino a Hayek e Mises, è il tema dell’innocenza delle istituzioni: la miseria è frutto di una legge di natura e Nietzsche radicalizza il tutto giungendo a teorizzare l’innocenza del divenire. Più che l’inattualità, ciò che meglio definisce Nietzsche, è il tentativo di dare rigore e coerenza a tendenze già in atto. Se nell’idealismo tedesco si ha la traduzione epistemologica e filosofica della Rivoluzione francese e, invece, in Schopenhauer e Nietzsche la critica della stessa rivoluzione, siamo sempre di fronte a grandi filosofi capaci di inserire i singoli problemi in una complessiva visione del mondo e della storia. Senonché, soprattutto per quanto riguarda Nietzsche, l’ermeneutica oggi dominante trasfigura in pura metafora e in pura espressione artistica la grandiosa traduzione epistemologica e filosofica di un discorso eminentemente politico (p. 763)

I teorici dell’innocenza riescono a trasformare una donna intellettualmente mediocre, come Elisabeth Nietzsche, in una sorta di Rasputin in gonnella, in una falsificatrice al servizio del Terzo Reich, quando in realtà né la lettura della biografia scritta dalla sorella né quella della Volontà di potenza possono accreditare una tesi simile. Il fatto è che questa lettura apolitica di Nietzsche è dominante solo fra i filosofi, che si preoccupano di distribuire fra Elisabeth e Lukács le responsabilità manipolatorie o gli equivoci di una lettura in chiave politica reazionaria, mentre ben diversa è la posizione di storici e sociologi.
Più utile per comprendere Nietzsche è vedere come, ben lontano da un’idea di schiavitù razziale, tutta la sua evoluzione sia invece volta alla razzizzazione trasversale delle classi subalterne (malriusciti/benriusciti, nobili/plebei indipendentemente dall’appartenenza nazionale o etnica), tema che riprende e radicalizza dal pensiero protoborghese. La razzizzazione antisemita, nella sua contrapposizione tra ariani-tedeschi ed ebrei, è invece orizzontale, ma questo sentimento è repellente per Nietzsche, perché non fa altro che incarnare, nel suo attacco alla finanza ebraica, il risentimento dei falliti contro i benriusciti.
È necessaria un’analisi dei processi che portano dalla reazione aristocratica al nazismo, tenendo presente le due rotture epocali della prima guerra mondiale e della rivoluzione d’ottobre, e ricordando come il processo di preparazione ideologica di qualsiasi crisi storica sia sempre un insieme di continuità e discontinuità. Ad esempio, la razzizzazione trasversale cade in crisi con la prospettiva della guerra totale e dell’imperialismo che richiedono una razzizzazione orizzontale per poter gerarchizzare paesi e razze differenti. La parabola che porta al Terzo Reich segna proprio il passaggio da un tipo di razzizzazione all’altro. Se netta è la discontinuità con Nietzsche, in quanto quella nazista è una schiavitù razziale al servizio della razza germanica, l’elemento di continuità è dato dalla teorizzazione di uno strato sociale servile quale garanzia per la civiltà. Comune col nazismo è la denuncia del ciclo rivoluzionario come minaccia della civiltà, ma comunque l’alternativa all’ermeneutica dell’innocenza non è l’appiattimento di Nietzsche sul Terzo Reich (p. 886). Lo stesso concetto di Untermensch viene derivato dallo statunitense Stoppard, sostenitore di una razzizzazione orizzontale che i colpisce i neri all’interno e popoli coloniali e barbari bolscevichi all’esterno. Nettissime sono dunque le differenze rispetto a Nietzsche che, pure, con la sua decostruzione nominalistica del concetto di umanità e con la sua teorizzazione del «superuomo», ha in qualche modo ispirato la teorizzazione anche dell’Untermensch (p. 887).

Solo facendo riferimento alla critica della rivoluzione e della modernità è possibile salvare l’intera coerenza del percorso nietzscheano. Nietzsche legge la storia in termini di lotta di ceti e di classi in modo ancor più radicale di Marx che cerca di mantenere la scienza in una sfera trascendente il conflitto.
Nietzsche afferma che «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni» e da qui Foucault è giunto alla conclusione che in Nietzsche l’interpretazione sia sempre incompiuta. In realtà, una chiave c’è: vi sono tre dicotomie: verità/errore, coraggio/pavidità, salute/malattia in cui la seconda fonda la prima e la terza fonda la seconda. La lotta fra valori diversi è la lotta fra salute e malattia. L’analisi della storia delle idee e dei conflitti politici e ideologici giunge all’elaborazione di tipologie psicologiche e antropologiche, le varie visioni del mondo sono così incomunicabili tra di loro e permanentemente gerarchizzate. La catena delle interpretazioni è allora conclusa. Più che ad un errore, l’interpretazione da respingere rinvia alla malattia, e, per di più, ad una malattia che è insanabile. Ecco che il dissacratore scettico si trasforma in positivista dogmatico (p. 979).

Vi è comunque in Nietzsche una radicale carica demistificatrice: straordinaria l’analisi critica della divisione del lavoro e importante la denuncia anticipata di processi che si imporranno nel Novecento, come la nazionalizzazione delle masse o la demistificazione delle pratiche schiavistiche ed etnocide del colonialismo. È proprio il difensore esplicito di una concezione schiavistica che denuncia l’ipocrisia dell’imperialismo che usa le «abbaglianti parole d’ordine» del cristianesimo, dell’abolizione della schiavitù, della pace in funzione di qualcosa di opposto: nessuno più di Nietzsche ha contribuito a decostruire e ridicolizzare il mito genealogico e quindi l’ideologia della guerra dell’Occidente (p. 1038).
Nietzsche è stato anche visto come una sorta di profeta del postmoderno. In realtà in lui forte è il pathos della specie e la rivoluzione viene condannata proprio per i suoi dannosi effetti individualistici. I malriusciti, non sussumibili nella categoria di uomo, sono sacrificabili proprio in nome della conservazione di un universale cui non appartengono: estremo nominalismo antropologico e olismo vorace sono due facce della stessa medaglia (p. 1059). In Nietzsche e nel protoliberalismo vengono rispecchiate due esperienze differenti della società borghese: il valore autonomo dell’individuo per l’élite e l’argomentazione olistica quando si tratta di giustificare la ristrettezza della comunità degli individui. Locke e Nietzsche sono due autori che molto possono insegnare a proposito dello sviluppo di una libera individualità, ma in entrambi la categoria di individuo non è universalizzabile. Se, sul piano politico, Nietzsche è molto più reazionario di Locke, dal punto di vista teorico gli è nettamente superiore, perché perfettamente consapevole degli elementi servili e schiavistici presenti nei rapporti lavorativi della società capitalistica e nel rapporto con le colonie e conosce bene le clausole di esclusione del pensiero e della società liberale.

Il volume si chiude con un’appendice, che vuole essere un contributo al miglioramento dell’edizione italiana delle opere di Nietzsche, che mostra come le sviste e gli errori dell’edizione Colli-Montinari siano determinati dalla preoccupazione di rimuovere l’elemento storico-politico; sparisce così la giudeofobìa del giovane Nietzsche o viene sublimata la tesi dell’inevitabilità della schiavitù.

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