Idee. Rivista di filosofia

Domenico Losurdo

 

Il libro di Domenico Losurdo ha suscitato un acceso dibattito sulla stampa ed è già un caso editoriale. Filosofia.it vi propone un resoconto completo degli articoli che si sono occupati del volume.


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Idee. Rivista di filosofia, n. 54, 2003, pp. 25-47
Nietzsche sottratto agli "ermeneuti dell'innocenza"

di Antimo Negri

Intervengo con molto ritardo sul libro che Domenico Losurdo ha dedicato al filosofo di Zarathustra (Nietzsche il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati Boringhieri Torino 2002, pp. 1167). La ragione? Ho vinto "l'inevitabile senso di stanchezza" che, secondo Franco Volpi, bisognava vincere per arrivare all'ultima pagina di esso.
Cosa posso farci, caro Volpi. Io, che non ho mancato di fare qualche peccatuccio ermeneutico sulle pagine del "principe Vogelfrei", ho letto fino all'ultima pagina anche il Nietzsche di Jaspers, anche il Nietzsche di Heidegger; e, del resto, ho letto fino all'ultima pagina, l'opera del meno nietzscheano, ante litteram, dei filosofi, di quel Comte tanto dileggiato da Nietzsche proprio in forza del suo credo ermeneutico di filosofo visceralmente antipositivista. Per me, leggere le milleduecento pagine circa del libro di Losurdo è stata una vera e propria bazzecola. E, dopo averlo letto, questo è il problema, non sono neppure riuscito a ricorrere all'adagio alessandrino; "grosso libro, cattivo libro". Che se poi dovessi spiegare perché, risponderei così: il libro di Losurdo su Nietzsche non è "cattivo" perché è "grosso", bensì è "grosso" perché e "cattivo", anche se è meno "cattivo" - e, quindi, meno "grosso" - di quanto poteva e doveva essere.
Vediamo, cominciamo a vedere un po’. Losurdo è uno storico del pensiero filosofico e scientifico. Quanto si vuole tendente a vedere in ogni pensatore un filosofo totus politicus (per lui lo è naturalmente anche Nietzsche; cfr. Parte VI, cap. 28, pp. 897-934), ma uno storico serio, molto serio, filologicamente addestrato, severamente attento al contesto strutturale, storicamente determinato, in cui un pensatore necessariamente si muove ed opera, per dir così, teoreticamente. Storiografia filosofica alla Lukács, come qualcuno ha sostenuto, o da storico del tipo di quelli della Germania dell'est? No. Non che l'esercizio storiografico di Losurdo non sia caratterizzato da un certo storicismo piuttosto culturalmente un po’ "preistorico" soprattutto perché sempre un po’ ideologicamente greve. Ma un fatto è certo. Non si può non condividere con lui il fastidio nei confronti di quegli studiosi della storia del pensiero filosofico e scientifico i quali ritengono, quasi büchneriane creature dal "naso color del cielo", che quelle della filosofia sono "forme incielate", come ironizzava Marx, o che le idee cascano, contrariamente a quanto sosteneva il vecchio Antonio Labriola, dal cielo.
Su questo punto, pure educato alla scuola dell'idealismo attuale, o proprio perché educato a questa scuola, convinto che l'interpretazione, non è un giuoco ermeneutico, ma fatica conoscitiva, sono dalla parte di Losurdo: non si può pretendere, anche quando si legge Nietzsche, di ermeneutizzare, ermeneutizzare, ermeneutizzare, sino a perdere di vista il contesto storico in cui si inscrive la sua opera; e ciò, si badi, in una stagione culturale complessa, che si può dire "di moda del nietzscheanesimo" (rubo l'espressione a Croce, recensore nel 1907, delle Origini della tragedia), in cui capita spesso, molto spesso, di ricevere qualche libercolo o qualche libraccio scritto da presunti interpreti che non solo non conoscono il contesto storico in cui si inscrive l'opera di Nietzsche, ma che non sanno neppure una parola di tedesco ecc. ecc., e nondimeno pretendono "ascoltarlo", per servirci di un'espressione di Mazzino Montinari, opportunamente citato da Losurdo (p.1077), come si "ascolta la musica".
E’ vero, intanto, che lo storico del pensiero filosofico e scientifico di professione non può "ascoltare" Nietzsche "come si ascolta la musica", se non addirittura come si ascolta la messa. Tra gli interpreti di Nietzsche ci sono molti presunti musicologi e preti. Paradossalmente, direi, autorizzati dallo stesso Nietzsche, anche questo criticamente interpellato da Losurdo (soprattutto pp. 767 sgg.), dal Nietzsche secondo il quale "proprio i fatti non ci sono, bensì ci sono solo infinite interpretazioni" (fr. postumo 7[60] fine 1887). Anche il "fatto" costituito dal testo di Nietzsche finisce col non esserci più in mano agli ermeneuti tutti di un pezzo, sempre pronti a qualsiasi gesto interpretativo, sia pure quello destinato a deformare il senso dello stesso testo o a fraintenderne il senso, quando non addirittura a dargli ogni senso. Del resto, Michel Foucault, chiamato in causa da Losurdo (p. 1077) scrive: "il solo segno di riconoscenza che si possa testimoniare ad un pensiero come quello di Nietzsche è proprio di usarlo, di deformarlo, di farlo stridere, gridare. Che poi i commentatori dicano se si è fedeli o no, non ha nessun interesse".
Ecco: Nietzsche si è lasciato e si lascia "usare" ermeneuticamente: "sono come tu mi vuoi", egli, soprattutto perché è un "pensatore poetante” o un “poeta pensante" (Heidegger), potrebbe dire ad ogni lettore. Sempre meno se stesso, Nietzsche; e sempre più il suo lettore. Autore e lettore si identificano esaustivamente. Il "fatto"-testo scompare, resta solo l'interpretazione. Ma che cosa significa, poi, che anche il "fatto"-testo nietzscheano scompare? Né più né meno che questo: esso non c'è mai stato; e se non c'è mai stato, in quale "contesto storico" si può collocarlo? Se non c'è "fatto"-testo, non c'è, non può esserci un "contesto storico" in cui collocarlo. Con un risultato: a non esserci più è lo stesso autore, è lo stesso Nietzsche; ad esserci è solo il lettore, è solo l'interprete di Nietzsche. E lo storicista, storicista, quanto si vuole lukácsiano Losurdo non ci sta. Da storico serio egli non si atteggia a philosophus philosopho additus, fino al punto da non fare esistere neppure più il filosofo cui il filosofo si aggiunge; restituisce una distinzione tra l'autore e il lettore, caricando quest'ultimo (se stesso) della responsabilità di tener conto del "fatto"-testo nietzscheano, collocato e collocabile in un determinato "contesto storico", necessariamente da considerare come un oggetto di studio, esso stesso, senza il quale non si può assolutamente comprendere lo stesso "fatto"-testo. Altro che "ascoltare" questo "come una musica" ed anzi come una messa. Lo studioso serio di Nietzsche non può e non deve essere né un musicologo né un prete. Un musicologo, un prete non vuol essere e non è Losurdo. Egli vuol essere ed è uno storico, quand'anche non un sociologo, che ha a che fare con le cose, con i fatti, nella loro più concreta dimensione temporale.
Questo spiega la sua acre presa di posizione critica nei confronti di lettori di Nietzsche come, poniamo, Foucault, Vattimo: "nessuno storico (e nessun sociologo) potrebbe permettersi il gesto sovrano di Foucault che, senza troppo preoccuparsi di distinguere tra ricostruzione storica e utilizzazione teoretica, rivendica il diritto alla 'deformazione' del pensiero di Nietzsche; ovvero il gesto sovrano di Vattimo, così poco interessato alla contestualizzazione storica e alla ricostruzione filologica da voler depurare Nietzsche dei suoi stessi fraintendimenti" (p. 791). Vero è, però, che né Foucault né Vattimo intendono essere storici del pensiero filosofico e scientifico, e, in quanto tali storici, assoggettarsi alla fatica della "ricostruzione filologica". Foucault e Vattimo intendono essere filosofi. Ed il problema, se mai, è quello di vedere se essi intendono essere philosophi philosopho additi o filosofi in proprio, quale che sia l'"utilizzazione teoretica" e solo l'"utilizzazione teoretica" che essi fanno, in sostanza, di Nietzsche. Mi è capitato di dire che il libro "grosso" e "cattivo" di Losurdo, posto che sia tale, avrebbe potuto e dovuto essere anche più "grosso" e "cattivo", ad esempio non interrompendo di botto il discorso sull'"utilizzazione teoretica"- quand'anche non sullo "sfruttamento teoretico"- che non solo Foucault e Vattimo, ma anche parecchi altri lettori di Nietzsche, accademicamente professionali e non, hanno fatto o vanno facendo del filosofo, sino a ritenere che ad essere autori de La gaia scienza, poniamo, o de L'aurora siano loro e non Nietzsche.
A voler confortare, per quel che dice di questi interpreti di Nietzsche, a voler sostenere, posto che ne abbia bisogno, Losurdo, su questo punto, vorrei ricordargli che, tra gli ultimi anni cinquanta e i primi sessanta, in Urbino, dove gli fui casuale, effimero e indegno maestro, bazzicava un professore di filosofia che, incontrando Paolo Volponi e me, ci tenne molto a darci conto delle sue profonde riflessioni per concludere che, nientemeno, Cristo "la pensava come lui". È un episodio, questo, che mi ritorna in mente ogni volta che mi ritrovo a parlare, magari nelle giornate di studio che si organizzano quasi ogni anno a Palermo in occasione del conferimento del Premio Nietzsche, con Emanuele Severino (già, perché Losurdo non l'ha ricordato come interprete di Nietzsche?): egli finisce sempre col dire, con la massima imperturbabilità, che Nietzsche "la pensava come lui". Ed è ovvio, intanto, che se "la pensava come me", Nietzsche sono io ed io sono Nietzsche, l'autore scompare ed il lettore dimentica anche di essere philosophus philosopho additus e, per ciò stesso, si alleggerisce di ogni responsabilità di studiare il "contesto storico" in lungo e in largo, in superficie ed in profondo. La filosofia cessa di essere "sapere storico": il "fatto"-testo, coinvolto nell'orizzonte culturale del lettore, perde ogni carattere che lo distingua effettivamente dall'atto storiografico o dall'atto ermeneutico; si accende nel lettore la presunzione dell'"autoralità"; anche il più recente passato speculativo cessa di essere un oggetto di indagine nel tempo della lettura, ogni distanza, cessa di essere un oggetto di indagine da ricostruirsi filologicamente, da contestualizzare storicamente ecc., con il risultato di sottrarre ad una fatica storiografica e interpretativa, senza la quale non è affatto possibile neppure seguire la Wirkungsgeschichte, la "storia degli effetti", di un pensatore la cui opera, tra quegli "effetti", ne ha avuto qualcuno in forza del quale non lo si può non ritenere macchiato da qualche colpa, o non si può ritenerlo così teoreticamente libero da volare alto, altissimo, fuori dal suo tempo, se non addirittura da ogni tempo.
Comunque, per Losurdo, Nietzsche bisogna inchiodarlo al suo tempo. Senza compiere sulla sua opera alcun gesto ermeneutico prevaricatore, così soggettivisticamente violento da sciuparne o anche vanificarne il senso originario, storicamente determinato. Historein significa vedere e un "veditore" è lo storico (da histor). Il compito dello storico è quello di vedere le cose, magari il più possibile, così come sono; il compito dello storico della filosofia è quello di "vedere" nel caso specifico, Nietzsche, di "rispecchiarlo" nella sua determinata storicità e, direi, "oggettività" di pensatore, figlio e portatore delle idee del suo tempo, tutt'altro che "inattuale", come egli pretende, cioè contro se non fuori del suo tempo, in cui egli pure è calato fino al collo o di cui è attento osservatore e ascoltatore. Il compito dello storico, anche o soprattutto per Nietzsche, si dilata, si allarga, si ingrossa: se vuoi capire il pensiero di Nietzsche, devi capire il suo tempo: perché, in verità, le idee di Nietzsche sono le idee del suo tempo. E, se è così, è proprio vero, non c'è posto per quello che si è detto il giuoco ermeneutico, in particolare se a non capire, ed anzi a rifiutarsi di capire il tempo di Nietzsche, le idee del tempo Nietzsche, c'è stato tutto un esercito di niccisti, di nicciofili, di nicciomani inclini ad "ascoltar musica", ad "ascoltar messa", sino a fraintenderlo perché il filosofo vuol essere frainteso ecc.
Come si può pretendere che non fosse "grosso" il libro di Losurdo su Nietzsche? In un'intervista rilasciata ad Antonio Gnoli ("La Repubblica", I° ottobre 2002), polemizzando con certa produzione critica e storiografica, molto ermeneutizzante e pochissimo storicizzante, Losurdo: "Il mio lavoro parte dal presupposto che finora ci si è misurati poco sul piano della ricostruzione e della contestualizzazione storica di Nietzsche. Su di lui si è fatto spesso un lavoro arbitrario. Si è colto un aspetto ignorando l'intero". Un'affermazione, questa, che, ben letta, può significare o significa di fatto: il carattere arbitrario della letteratura critica e storiografica su Nietzsche, alla quale si accennava, dipende dal fatto che in essa viene, di volta in volta, privilegiato un aspetto ed un aspetto soltanto del filosofo di Zarathustra. Naturalmente, se questo significa l'affermazione di Losurdo, gli si può, senz'altro, attribuire l'idea che una lettura di Nietzsche si può ritenere non arbitraria unicamente quando sia una lettura dell'intero Nietzsche e, conseguentemente, la presunzione che unicamente, e finalmente, la sua lettura, essendo quella dell'intero Nietzsche, sia non arbitraria.
Sì, sto facendo un discorsetto sul metodo storiografico di Losurdo. Un metodo che ritengo si debba impiegare quando si fa storia del pensiero filosofico e scientifico; sì, proprio perché proveniente, come avvertivo, dalla scuola dell'idealismo attuale che non esonera, insisto, pur quando sostiene che non c'è passato speculativo intatto e intangibile del gesto "contemporaneizzante" di questo o quello storico, dalla fatica di conoscere quel passato anche in quanto tale, in modo che non perda del tutto il suo carattere di passato (cfr. il mio Rappresentazione e interpretazione del mondo. Fenomenologia, ermeneutica, attualismo, a cura di Adele Patriarchi e Roberto Spirito, Roma 2002, soprattutto pp. 117 sgg.). Ritengo, più precisamente che Losurdo abbia ragione quando avverte che non bisogna cadere nell'"amabile irenismo" gadameriano di un "dialogo" tra testo e interprete, tra autore e lettore, tale che faccia perdere di vista l'alterità originaria del testo rispetto all'interprete, dell'autore rispetto al lettore: un'alterità che vale storicità o inevitabile collocazione del testo e dell'autore in un determinato "contesto storico" ( Hegel, Marx e la tradizione liberale. Libertà uguaglianza Stato, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 40).
Ritengo che abbia ragione Losurdo, anche se sono indotto a pregarlo di non pensare affatto all'idealismo attuale quando, con Habermas o con H.J. Sandkühler, parla del "carattere idealistico dell'ermeneutica di Gadamer" o, senz'altro, dell'"idealismo di Gadamer" (Ivi, p. 459). Io da idealista non gademeriano- o da ermeneuta attento a non far perdere a qualsiasi testo il carattere di "fatto" – sto, anche quando studio Nietzsche, dalla sua parte.
A Losurdo si può, certo, obiettare: non è arbitraria anche la sua lettura, almeno se, essa stessa, parziale, "prospettica", ideologica, sino a far emergere l'immagine di un Nietzsche totus politicus? Più misuratamente, credo, Losurdo avrebbe potuto dire: il Nietzsche politicus, anche se non sempre totus politicus, è stato il più trascurato criticamente e storiograficamente. E se avesse detto questo, Losurdo avrebbe detto cosa più vera: soprattutto se si tien conto che veramente lettori di Nietzsche, non solo come Vattimo e Severino, tutto sommato lettori minori ed "epigonali", ma anche Jaspers o Heidegger, essi sì grandi lettori e tali veramente come philosophi philosopho additi, se ne sono infischiati della "contestualizzazione storica" di Nietzsche, con la conseguenza di alimentare un "bla bla" teoreticistico, spesso anche gergalmente tale, del tutto indifferente al fatto che Nietzsche non vive solo sui monti o si isola sulle marine, ma resta pur sempre un uomo della città, quella oltre la quale vuole andare, sì, il suo Zarathustra, ma unicamente perché gli fa schifo (Zarathustra, III, Del passare oltre), che Nietzsche non è solo il filosofo dell'"eterno ritorno dell'eguale" (La gaia scienza, IV, 341), la cui "idea terribile" accende l'immaginazione di un narratore come Milan Kundera (L'insostenibile leggerezza dell'essere), ma anche il filosofo che si mostra attento ai grandi problemi politici, sociali ed economici della sua epoca.
Solo se si tien conto di quest'altro Nietzsche, anche di quest'altro Nietzsche, si ha il Nietzsche intero cui accenna Losurdo. Ma tant'è: Losurdo tende ad assolutizzare quest'altro Nietzsche e finisce col trovarsi, ancora una volta, tra le mani, un Nietzsche dimidiatus. Il punto serio, però, è che io non so dargli torto se fa oggetto di studio - assiduo, incalzante, come allargantesi in cerchi di ricerca intrecciati - quest'"altro" e solo quest'"altro" Nietzsche. La ragione è questa: troppo si è fatto passare anche Nietzsche come una creatura filosofica col "naso color del cielo" e la sua filosofia come "forma incielata". Ed è vero: Nietzsche resta, tuttora, come la luna della quale non si è vista ancora o si è vista poco l'altra metà, pur in una selva di appropriazioni politiche e di spoliazioni idealistiche.
Pensavo a Nietzsche quando, nel 1993, ho pubblicato Nietzsche nella pianura. Gli uomini e la città (Spirali, Milano); pensavo a questo Nietzsche quando nel 2001, ho pubblicato Il superuomo antieroe. Nietzsche, Stein, Bruno (Seam Roma). Pensavo a questo Nietzsche anche quando, nel 1994, ho pubblicato Nietzsche e/o l'innocenza del divenire (Liguori, Napoli). Pensavo a questo Nietzsche anche quando, nel 1994, ho pubblicato Nietzsche. La scienza sul Vesuvio (Laterza, Roma-Bari). Pensavo a questo Nietzsche quando, nel 1994, ho pubblicato Interminati spazi ed eterno ritorno. Nietzsche e Leopardi (Le Lettere, Firenze). Pensavo a questo Nietzsche anche quando, nel 1978, ho pubblicato Nietzsche storia e cultura (Armando, Roma), che Losurdo, con qualche rilievo critico, sul quale ritornerò, mi fa l'onore di citare (p. 49). Si tratta di peccatucci ermeneutici, cui accennavo, da me commessi nei confronti di Nietzsche. Peccatucci ermeneutici, sì, ma giammai come i peccati contro i quali Losurdo, preso da sacra collera contro quelli che egli chiama gli "ermeneuti dell'innocenza", spara a zero. Invoco comprensione, anzi avanzo qualche piccolo merito dinanzi a Losurdo che, veramente, risolve, nel suo libro, il "bilancio critico" in una spietata inchiesta giudiziaria e in un'arringa accusatoria. No, ad esempio, non ho commesso il peccato, non ho avuto la colpa di procedere ad una "lettura in chiave sovranamente artistica e metaforica della tesi della necessità della schiavitù quale fondamento della civiltà" né ad una "lettura freddamente descrittiva della celebrazione dell'umanità ariana, assolutamente pura, assolutamente originaria" (p. 1093); non ho commesso il peccato, non ho avuto la colpa di procurare, con l'una o l'altra lettura, a Nietzsche una "innocenza" che egli non ha e che gli si può procurare solo rinunciando di proposito, programmaticamente, secondo un piano ermeneutico o secondo una precisa e mirata strategia editoriale e culturale, ad una "contestualizzazione storica" di Nietzsche. E, se Losurdo mi chiedesse perché io non ho commesso quel peccato, non mi sono macchiato di quella colpa, gli risponderei, chiaro, forte e netto: perché non ce n'era bisogno, giacché la "colpevolezza" di Nietzsche non può cancellarla nessuna "ermeneutica dell'innocenza" e perché nessuna "ermeneutica dell'innocenza" può essere facilmente condotta, soprattutto se essa ha il fine, calcolatamente perseguito, di "rimuovere o neutralizzare le pagine più inquietanti o più ripugnanti di Nietzsche" (pp. 1093-1094), soprattutto quelle che lo fanno risultare, per così dire, un nazista ante litteram: quello che taluni lettori, anche non troppo radicalmente ideologizzati e ideologizzanti come intellettuali di sinistra (non tanto Lukács, poniamo, quanto Löwith), hanno messo in evidenza in lui in quanto "distruttore della ragione". Come si può, infatti, procurare un'"innocenza" a Nietzsche, come si può "denazificarlo" quando quelle pagine "inquietanti" e repugnanti ci sono e, a toglierle di mezzo - o che in esse si riproponga il dualismo classico (ed anche, tutto sommato, cristiano) tra "padroni" e "schiavi" o che in esse si inscriva il più energico antisemitismo o che in esse si persegua un progetto eugenetico ecc. – non può riuscirci nessuno?
Mi accorgo che sto insistendo molto su questo punto. Ma, anche qui, si capisce, c'è una ragione. La quale si può esprimere ponendo a Losurdo questa domanda di fondo: sono radiate nell'impresa editoriale e culturale dell'edizione critica, curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, delle opere di Nietzsche, anzi tutto di quella tedesca (de Gruyter), quelle che Losurdo dice – e non si può non dargli ragione – le "pagine più inquietanti e repugnanti"? Assolutamente no. E si può pensare, allora, che gli stessi responsabili – non poco benemeriti, bisogna dirlo – dell'impresa editoriale e culturale accennata, siano stati "costantemente" ossessionati dalla "preoccupazione di rimuovere, come elemento allotrio e di disturbo, il mondo storico e politico", dal quale non si può distaccare l'opera di Nietzsche (p. 1087)? Soprattutto a livello di traduzione, nel caso specifico di traduzione italiana, nella quale Colli e Montinari si sono serviti di un'equipe di traduttori eccellenti come Sossio Giametta, Ferruccio Masini, Giuliano Campioni ecc.? Certo, si può ammettere, con lo stesso Losurdo, che Colli e Montinari e la loro équipe di traduttori - del resto loro stessi fattisi interpreti, non solo traducendo, di Nietzsche – siano caduti in "imprecisioni" in "sviste", in "errori" (p. 1078); ma può, la caduta in queste "imprecisioni", in queste "sviste", in questi "errori", essere addebitata alla volontà esplicita, metodologicamente fatta agire, di "rimuovere il mondo storico e politico", ricondotto e condizionato al quale il testo nietzscheano resta un "fatto" ineludibile per l'interpretazione che non voglia, a qualunque costo, "innocentizzare" Nietzsche? Già nell'intervista citata, Losurdo non esita a sostenere che "la traduzione elude abbastanza sistematicamente il contesto storico". Dice "la traduzione", Losurdo; e, ovviamente, accenna alla traduzione italiana, all'impresa editoriale-culturale dell'Adelphi. E questo induce a ritenere che, secondo Losurdo, un Nietzsche storicamente decontestualizzato, purificato, censurato, "denazificato" ecc. sia un Nietzsche consegnato per espresso al povero lettore italiano incapace di leggerlo, purtroppo, nel testo tedesco, in cui taluni termini hanno un senso preciso, il senso che bisogna saper cogliere per non decontestualizzarlo storicamente o che si può cogliere solo contestualizzandolo storicamente. D'accordo, ma bisogna, in questo caso, immediatamente aggiungere che lo stesso Losurdo potrebbe tranquillamente ammettere che Colli, Montinari e compagni, se un tale Nietzsche hanno consegnato al lettore italiano, non l' hanno fatto apposta, se non apposta nelle "imprecisioni", nelle "sviste", negli "errori" di traduzione, che non sempre poi innocentizzano Nietzsche, sono essi incorsi.
Sulla questione è utile, forse, spendere qualche altra parola. Ad un certo punto, Losurdo si trova di fronte ad un passo di Ecce homo: "il concetto di 'anima', di 'spirito' e infine anche di anima immortale, inventati per spregiare il corpo, per renderlo malato – “santo” - per opporre un'orribile incuria a tutte le cose che meritano di essere trattate con serietà nella vita, i problemi dell'alimentazione, dell'abitare, della dieta spirituale, della cura dei malati (Krankenbehandlung), della pulizia, del tempo che fa" (Perché io sono un destino, 8, in Opere, ed. Adelphi, VI, 3 p.384). Il traduttore – nel caso specifico, Roberto Calasso- traduce Krankenbehandlung con "cura dei malati". Con un risultato, oppone immediatamente Losurdo, quello di perdere di vista "il chiaro significato del termine (p. 1090). Ma Calasso non l'ha fatto apposta a perdere di vista il "chiaro significato eugenetico" di Krankenbehandlung . Per Losurdo Krankenbehandlung ha questo significato e solo questo significato. Quella di curare i malati è un'idea che non alberga affatto nelle meningi di Nietzsche, secondo il quale, come si legge subito dopo, è proprio dell'"uomo buono" prendere il "partito di tutto ciò che è debole, malato, malriuscito (Missrathen), sofferente di se stesso, di tutto ciò che deve perire ( zu Grunde gehn soll) ", non può essere "invertita (gekreuzt) la legge della selezione (das Gesetz der Selektion) e a sopravvivere deve essere unicamente l'uomo "fiero e ben riuscito (wohlgerathen)". Per il filosofo che distingue tra i "ben riusciti" e i "mal riusciti", e che, anche in forza di una concezione organicistica, olistica della vita, della stessa vita sociale, ritiene che bisogna eliminare i "mal riusciti" in quanto la parte malata di un corpo che può portare alla rovina l'intero corpo, non c'è alcun dubbio: che senso ha la "cura dei malati", dei "malriusciti"? Eppure, come tradurre in italiano Krankenbehandlung, per non fargli perdere il "chiaro significato eugenetico"? E' un fatto che Losurdo stesso non traduce il termine. E, d'altra parte, non è da escludere che, quale che siano i convincimenti eugenetici di Nietzsche, espressi subito dopo, il termine è usato all'interno di un'argomentazione che il Nietzsche più feroce contro "dispregiatori del corpo" (Zarathustra, I) lancia, facendo valere, lui attentissimo all'alimentazione o al clima, precise istanze materialistiche contro uno spiritualismo fiacco, detrattore ad oltranza della materia ecc.
Sto scagliando anch'io qualche frecciata polemica contro la lettura losurdiana di Nietzsche? Assolutamente no. Solo, ritengo che, mentre gli involontariamente cattivi traduttori e gli interpreti "innocentisti" (in questo caso, quelli che non sanno niente o fanno finta di non sapere niente dell'eugenetica da lui teoricamente disegnata) decontestualizzano storicamente Nietzsche, lo stesso Losurdo finisce col far pesare sulle loro spalle la responsabilità - che essi, forse, non hanno - di dissuadere volontariamente dalla "contestualizzazione storica" del filosofo. Questa contestualizzazione, d'altra parte, è il compito di cui si carica espressamente lo storico delle idee –delle idee che, ricorderei ancora, non cascano dal cielo – Losurdo. Ed è questo Losurdo che bisogna guardare all'opera. Anche quando dissoda l'ambito storico delle idee eugenetiche che saranno, certo, anche idee "naziste", ma che sono, anzi tutto, idee del tempo di Nietzsche e che, in quanto tali idee, sono quelle sulle quali si spende anche l'eccezionale, apprezzabile, encomiabile fatica storiografica di Losurdo, della quale si deve tener conto, anche se essa stessa ci restituisce un'immagina parziale di Nietzsche, per conoscere un Nietzsche almeno più "intero".
Non c'è dubbio, intanto, che, anche su quest'aspetto del pensiero di Nietzsche, la "contestualizzazione storica" di Losurdo apre squarci di luce sul "fatto"-testo del filosofo. Ci si trova, sì, di fronte ad un metodo di lettura che, puntigliosamente e sagacemente usato, procura un'immagine di Nietzsche, di un Nietzsche irremovibile, di un Nietzsche che resta quello che è o è diventato, per servirci di un'espressione di Pindaro a lui molto cara (Pitiche, II, 72: ghenoi oios essi, "diventa quel che sei"), "quel che è". Intendo mostrare, per un momento soltanto, all'opera, questo Losurdo. Esemplificando, si capisce, ancora una volta. Seguendolo, nel caso specifico, nella lettura di Al di là del bene e del male, 61-62.
In questi paragrafi, sempre aforisticamente fiammeggianti e scattanti come frecce, Nietzsche affronta il tema della religione, in particolare della religione cristiana, come strumento di potere. In quanto tale strumento, la religione, in particolare la religione cristiana, interessa a Nietzsche. E, certamente, strumento di potere è, è stata la religione, in particolare la religione cristiana, soprattutto quella istituzionalmente fortificata, più "romana", più ebraizzante, più "paolina" (da leggere, tutte, le pagine di Losurdo, sul Paolo nietzscheano). L'analisi del modo e soprattutto dei mezzi in cui si esercita il potere della religione così istituzionalizzata è condotta da Nietzsche con la persuasione di fondo che un potere non c'è e non può esserci, se non c'è, da un lato, qualcuno che lo esercita e, dall'altro, qualcuno sul quale viene esercitato. Un tema ghiotto per Losurdo che dell'"innocentizzazione" o della "decontestualizzazione storica" di Nietzsche ne ha piene le tasche. Allora egli si butta, come su una preda, sui paragrafi in questione, non senza prima aver provveduto a correggere alcuni errori, da ultimo ermeneutici, che ricorrono nella traduzione, stavolta del mio buono, caro, compianto amico Ferruccio Masini, autore, intanto, di un libro molto bello su Nietzsche, Lo scriba del caos (1978). Le religioni? In quanto strumento di potere sono, più precisamente, "Züchtungs-und Erziehungsmittel”, dice Nietzsche nell'uno e nell'altro paragrafo in questione. Traduce Masini: “Strumenti di plasmazione culturale e di educazione". Con "plasmazione culturale" Masini traduce, più esattamente, il termine Züchtung che ricorre già nel paragrafo 61, in un passo nel quale più espressamente si parla dei modi e dei mezzi della religione o delle religioni di esercitare il potere, Losurdo propone, intervenendo sul modo in cui Masini rende in italiano anche altri termini, la seguente traduzione: "Il filosofo come lo intendiamo noi, noi spiriti liberi - come l'uomo che ha la responsabilità più vasta e per cui lo sviluppo complessivo dell'uomo (Gesamt-Entwickung des Menschen) è un fatto di coscienza: questo filosofo si servirà della religione per la sua opera di allevamento e educazione ("Züchtungs-und Erziehungswerke) " (p. 478).
Il problema è che, per Losurdo, anche a Masini sfugge il "chiaro significato eugenetico" di Züchtung; e non dovrebbe sfuggirgli, ritiene sempre Losurdo, se lo stesso Nietzsche, nel Crepuscolo degli idoli (quelli che migliorano l'umanità, 2), "non può fare a meno di parlare di allevamento (Züchtung)", usando in sostanza un termine che appartiene al lessico zoologico (pp. 1088-1089). Ciò osservando, intanto, Losurdo ricorda come ha già tradotto (e doveva essere tradotto) il termine Züchtung: e commenta: "Nel tener presente la sua responsabilità per lo sviluppo complessivo dell'uomo (Gesamt-Entwicklung des Menschen), l'autentico filosofo saprà servirsi anche delle religioni per la sua opera di allevamento e di educazione (Züchtungs-und Erziehungs-werke), senza mai perdere di vista l'influenza nella selezione e nell'allevamento (der auslesende, züchtende…Einfluss), di carattere dunque tanto distruttivo quanto creatore e plasmatore, la quale può essere esercitata grazie alle religioni (Al di là del bene e del male, 61)" (p.1089). E, naturalmente, a questo Losurdo non va bene, non può andar neppure il fatto che si traduca l'espressione die Gesamt-Entwicklung des Menschen (Al di là del bene e del male, 61) con "completo sviluppo dell'umanità" (Opere, VI, 2, p. 66), giacché è lo stesso Nietzsche, poi, a parlare, nel Crepuscolo degli Idoli (quelli che migliorano l'"umanità", 3), di un "allevamento di una determinata razza o specie (Züchtung einer bestimmten Rasse und Art)" (e, da parte mia, ricorderei, che, qui, la traduzione è sempre di F. Masini).
Non c'è dubbio che, a voler seguire Losurdo lungo gli andirivieni della sua ricerca volta a "contestualizzare storicamente" Nietzsche, a togliere l'"innocenza" a Nietzsche, viene il mal del capogiro. Ma si tratta del mal del capogiro che bisogna farsi venire quando si fa ricerca severamente storica. Una tale ricerca conduce, ha condotto Losurdo. Sbaglia, ha sbagliato chi gli rimprovera, gli ha rimproverato di non aver tenuto conto, nella sua ricerca, di questo o di quello, di questa o quell'interpretazione. Nella citata intervista, a Gnoli che gli obietta di aver ignorato una "lettura teorica" di Nietzsche come quella di Colli, Losurdo, imperturbabile, risponde: "Non ci si può occupare di tutto". Ed è, questa risposta, un modo preciso e sincero di ammettere che, sì, anche il Nietzsche che esce dalla sua ricerca non è, poi, così "grosso" – e, quindi, così "cattivo" – quanto doveva. D'altra parte, non c'è ricerca, relativa anche ad un piccolo pensatore, che non riesca, da ultimo, parziale. Figuriamoci una ricerca su Nietzsche. Ora, la parzialità della ricerca di Losurdo su Nietzsche dipende dal fatto che egli si è voluto per espresso interessare di un Nietzsche del quale un suo recensore tedesco ha detto: der Unzeitgemässe, zeitgebunden, traducibile con "l'inattuale, prigioniero del tempo" (K. Flasch, Und er war doch ein Zerstörer der Vernunft, "Frankfurter Allgemeine Zeitung", 21, 2 2002, p. 42). Ora, è vero che anche il solo Nietzsche "inattuale", ma "legato al proprio tempo" è un oggetto di ricerca molto, molto "grosso". Ed io insisto: anche quello che assume ad oggetto di ricerca solo questo Nietzsche poteva e doveva risultare un libro più "grosso" – e quindi più "cattivo". Ciò, soprattutto perché, come già ho cominciato a rilevare, nel prendere in considerazione un rilievo critico fattomi da Losurdo, in questo libro si tende a fare, o si fa, di Nietzsche un pensatore che finisce con l'essere, per così dire, un megafono teoretico del suo tempo, quindi tutt'altro che credibile quando pretende di essere "inattuale (unzeitgemäss)". Losurdo ritiene che Nietzsche, in quanto zeitgebunden, tutto ciò che si pensa ed accade nel suo tempo accoglie, accettandolo, nel suo pensiero. Le idee eugenetiche di Nietzsche, sulle quali mi sono rapidamente fermato, sono del tempo di Nietzsche? Sono idee anche "naziste"? Ma Losurdo non esita a sostenere che, quelle idee, in quanto idee del tempo di Nietzsche, in quanto "naziste", non sono altro che le idee stesse del tempo di Nietzsche, fortemente radicalizzate. Naturalmente, Nietzsche ha anche altre idee. Esse stesse, idee del suo tempo, accolte magnanimamente, o passivamente, tutte, così come sono, nel largo abbraccio teoretico di Nietzsche? E ciò che, qui, si chiede relativamente alle idee del suo tempo, si può chiedere anche relativamente a fondamentali fenomeni di ordine teorico e pratico del tempo di Nietzsche, poniamo quello della prassi già avanzata di quella che, mutuando il termine stesso di Nietzsche, si potrebbe definire la Züchtung – sì l'allevamento – degli uomini perseguita con uno dei già diffusi mezzi di comunicazione di massa (tali non perché si rivolgono ad una massa, ma fanno massa) come il giornale.
Non "inattuale", ma solo "prigioniero del suo tempo", Nietzsche, anche di fronte a questo fenomeno? "Inattuale" di fronte a questo fenomeno, ritenevo e ritengo Nietzsche. Ma da Losurdo, che legge il mio citato Nietzsche. Cultura e storia (1978), ne ricevo un piccolo rimprovero: naturalmente di cadere nella trappola di una "ermeneutica dell'innocenza", assegnando a Nietzsche un atteggiamento di ripulsa, naturalmente reazionaria e aristocratica, nei confronti di un fenomeno storico come quello di una prassi giornalistica volta ad informare, istruire, educare un numero sempre più ampio di uomini. E, chiamando in causa il mio libro, Losurdo: "Anche in questo motivo (il "leggere giornali", di cui in Al di là del bene e del male, 239, in cui prende atto di un altro fenomeno, quello delle donne che stanno "montando in signoria"), come in tanti altri della filosofia di Nietzsche, si è voluta rileggere una riprova del suo rifiuto di accomodamento filisteo all'esistente, del suo spirito ribelle, della sua inattualità. In realtà, per il momento in cui cade, questa posizione polemica si rivela quanto mai 'attuale' "(p. 479). Ed io che pensavo che la polemica di Nietzsche contro la stampa prussiana fosse "inattuale"! Mi dissuade da una tale opinione Losurdo, scaricandomi addosso un cumulo di riferimenti ( da p. 479 a p. 483), tale da far stramazzare anche un lettore che ha la forza di un bue, volti a provare che la "condanna del giornale è l'altra faccia della celebrazione del torpore degli strati popolari, della celebrazione del carattere benefico dell'oppio ideologico" (p. 483).
Tra i riferimenti di Losurdo anche quello da me fatto nel mio libro Nietzsche. Cultura e storia (p. 29): all'aforisma dello Hegel jenese secondo il quale "la lettura dei giornali al mattino è una specie di preghiera realistica", giacché con essa "si orienta la propria azione nel mondo o in ciò che è il mondo" ed "ambedue danno la stessa sicurezza di sapere come ci si deve comportare (Losurdo, p. 483). Dopo aver citato questo aforisma hegeliano, aggiungevo nel mio libro: "E' la preghiera realistica, quella di cui qui si parla, che né Hölderlin né Nietzsche sanno fare. Di qui, soprattutto, il loro disorientamento nel mondo, la loro inattualità. Ed è la stessa cosa che dire: il loro antifilisteismo". Ma Losurdo smentisce questa mia affermazione. Nietzsche, con attitudine conservatrice e reazionaria, radicalmente aristocratica, vede - e non può non vedere – di malocchio l'accesso all'acquisto culturale favorito dalla giornalistizzazione della cultura delle classi inferiori, coerentemente con un punto di vista diffuso in un epoca in cui, senza dubbio, guardando a queste classi, la stampa quotidiana, dei poteri dominanti, di un governo o di un partito ecc., va sempre più svolgendo il ruolo di opinions leader o di opinions maker.
Altro che unzeitgemäss, su questo punto, Nietzsche. Eppure, a me par vero che, su questo punto, Nietzsche sia abbastanza "inattuale". Non per tirarmi presuntuosamente in ballo come studioso di Nietzsche, anch'io ho esaminato, altrove (Interminati spazi ed eterno ritorno. Nietzsche e Leopardi cit., pp. 30 sgg.), la presa di posizione polemica di Nietzsche nei confronti del ruolo dei giornali. Chiamando in causa anche Goethe e Leopardi, nomi che si possono affiancare a quelli che fa Losurdo (pp. 479 sgg.), per spiegare taluni atteggiamenti polemici, certo "inattuali", assunti da filosofi, letterati ecc., di fronte al processo inarrestabile dell'inevitabile processo di volgarizzazione, e del suo conseguente impoverimento, della cultura. Nietzsche è tra questi e, tra questi, è troppo antihegeliano, per farsi "legionario del momento" (Inattuale sulla storia, 8). Del resto, basta fermarsi a ciò che egli scrive in Sull'avvenire delle nostre scuole (1872): "Nel giornalismo, difatti confluiscono insieme le due tendenze: qui si porgono la mano l'estensione della cultura e la riduzione della cultura. Il giornale si presenta, ad un certo punto, come cultura, e chiunque coltivi ancora pretese culturali, anche come studioso, si appoggia abitualmente a quel vischioso tessuto connettivo, che stabilisce le giunture fra tutte le forme della vita, tutte le classi, tutte le arti, tutte le scienze, e che è solido e resistente come suole esserlo appunto la carta da giornale. Nel giornale culmina il vero indirizzo culturale della nostra specie".
Il Nietzsche che questo scrive è quanto si vuole zeitgebunden, ma è, senza alcun dubbio, anche un- zeitgemäss. Spero che voglia persuadersene un poco Losurdo, il quale, certo, ben sa che questo scrive Nietzsche in un testo in cui prende la difesa, "inattuale", di una scuola che, a suo avviso, deve restare Bildungsanstalt, "istituto di cultura", non ossequente all'ordine – alla domanda – di una società civile ubbidiente, in un tempo di avviata industrializzazione, come ho già avvertito, a quelli che, qui, Nietzsche chiama i "sacri dogmi dell'economia politica", e, per ciò stesso, impegnantesi a fornire "uomini correnti", "correnti" come si dice "corrente" una moneta. E, su questo punto, vorrei aggiungere che il Nietzsche di Sull'avvenire delle nostre scuole cercò fortuna in Italia, senza tuttavia trovarne, in un paese di fresca costituzione unitaria e alle prese con i più ineludibili problemi di carattere sociale ed economico (cfr. il mio Nietzsche e/o l'innocenza del divenire, ultimo capitolo: Nietzsche educatore?), in un paese in cui, necessariamente, finì con l'aver successo la pedagogia positiva dei Gabelli, dei Villari ecc. Qui, per lo meno, liberamente aristocratico, Nietzsche, ma "inattuale".
Ma ha ragione Losurdo: "non ci si può occupare di tutto". E’ vero che non ci si può occupare di tutto, soprattutto quando una ricerca è condotta con un obiettivo preciso, magari presupposto, e magari anche suggerito da una diffusa leggenda che poi leggenda non è, quella secondo la quale le idee di Nietzsche sono anche idee, come idee del suo tempo, "naziste". E, certo, del suo tempo, non che "nazista", è un'idea fondamentale di Nietzsche, quella che ci sono, per dirla con Brecht, "due specie di uomini". Su questa idea, in particolare, ha ragione Losurdo di trattenersi molto. Comincia a farlo già quando, come si è visto, guarda a Nietzsche come al filosofo che distingue tra "mal riusciti" e "ben riusciti", gli uni destinati a perire e gli altri degni, solo essi, di vivere e sopravvivere. Il dualismo tra due classi di uomini, una delle quali si dà come "casta", è, così come si configura nella coscienza di Nietzsche, un tema molto importante, se non il più importante, del libro di Losurdo. Ed è uno di quei temi di cui non si può eludere lo svolgimento procuratone da Nietzsche, almeno se non si vuole "innocentizzarlo". Sì, su questo punto come faccio a dar torto a Losurdo? I Klossodwski, e Deleuze, i Colli, i Montinari, i Vattimo, i Severino ecc.? E' un fatto che essi non assumono a tema lo svolgimento del tema nietzscheano del dualismo in questione. Vattimo, ad es.? Vattimo che traduce Übermensch con "oltreuomo", se ne infischia del fatto che, per Nietzsche, radicalista aristocratico o aristocratico radicale, Übermensch è un termine che significa, più propriamente, un uomo che appartiene ad una specie, ad una razza superiore. Anche quella dell' Übermensch – e, conseguentemente, quella dell'Untermensch (l’Underman di L. Stoddard: cfr . pp. 886-887) - è, intanto, un'idea del tempo di Nietzsche, non che "nazista" (in proposito, cfr. soprattutto, del libro di Losurdo, p.V, 26, La civiltà alla ricerca dei suoi schiavi, 3, Il mito greco-germanico del Secondo e Terzo Reich, pp. 843-850). Il torto di Vattimo, dunque, e di ogni lettore che non contestualizza storicamente Nietzsche? Risponde, leggendo Zarathustra, I, Della virtù che dona, Losurdo: "Un aspetto essenziale del discorso di Zarathustra è la contrapposizione del "superuomo" e della “super-specie” alla dilagante “degenerazione”. E di nuovo siamo rinviati ad un tema che, assieme e inestricabilmente intrecciato a quelli della trasmissione ereditaria del crimine e dell'eugenetica, domina la cultura europea e occidentale nella seconda metà dell'Ottocento, occupando un ruolo centrale anche nella cerchia degli autori e degli amici cari a Nietzsche: lo conferma l'occorrenza, nelle loro lettere dei nomi di Galton, Lombroso, Gobineau. E da questo corposo contesto storico non si lascia rimuovere anche se ci decidessimo a tradurre Übermensch e Über-Art rispettivamente con “oltreuomo” e…”oltre-specie”! È impresa vana separare in Zarathustra il grande e fascinoso moralista dal brutale teorico del radicalismo aristocratico" (pp. 1086-1087).
Ma l'"impresa" che qui si dice "vana" è facilmente attuata dallo studioso di Nietzsche che, semplicemente, così, programmaticamente, trascinandolo nel suo giuoco ermeneutico, ignora il "corposo contesto storico" in cui il filosofo scrive lo Zarathustra, in cui Zarathustra parla anche come Galton, come Lombroso, come Gobineau. E questo Nietzsche–Zarathustra è pur sempre il Nietzsche che, nella Dissertatio su Teognide di Megara (1864), studia, sì, un autore antico, ma non perde di vista la realtà sociale, economica e politica contemporanea. Da Teognide Nietzsche ricava la coppia dei termini che, da ultimo, nel suo lessico, saranno, da un lato, l' Übermensch, dall'altro l'Untermensch: agathos (o anche esthlos) e kakos, tradotto (Genealogia della morale, I, 5) anche con niger=melas. Ma ciò che più conta è che Nietzsche legge Teognide, in cui trova anche il lamento contro la mistione matrimoniale dei "buoni" e dei "cattivi", responsabile della contaminazione della razza, guardando contemporaneamente a ciò che sta avvenendo nel mondo e, particolarmente, nell'America del Nord. A Losurdo non sfugge la circostanza che a me sfuggì curando, nel 1985, la prima traduzione italiana (con introduzione e commento) della Dissertatio nietzscheana (Teognide di Megara, Laterza, Roma-Bari), che, comunque, egli utilizza (p.1128). Ma è vero che, procurando quell'edizione dalla Dissertatio nietzscheana, io mi rendevo conto di ciò che, più esplicitamente, mette ora in evidenza Losurdo: il filologo classico Nietzsche trovava in Teognide la spinta a gettare una distinzione tra padroni e schiavi, tra "bianchi" e "negri" - o se si vuole, anche tra "bianchi" e "pellerossa"- cara ai "crociati della purezza della razza” non ignoti al filosofo che esalta, proprio non dimenticando Teognide, "la razza dei conquistatori e dei signori, quella degli ariani" (Genealogia della morale, I, 5).
Anch'io non mi sottraevo ad una ricerca per spiegare "quel che Nietzsche deve agli antichi" (così suona il titolo di un capitolo del Crepuscolo degli Idoli); e, nell'allestimento di un'altra edizione della Dissertatio nietzscheana, terrò in gran conto, dal momento che non "ascolto" Nietzsche come un musicologo e come un prete, il fatto che "lo studio su Teognide" è "attraversato dal tema della schiavitù" e, soprattutto, il fatto che esso è scritto da un "giovane filologo" che "guarda con attenzione agli Stati Uniti", il fatto che nel 1865, l'anno successivo alla stesura della Dissertatio, nella guerra di secessione, "i sudisti sono stati praticamente sconfitti" (pp. 408-409). Già, sono cose, queste, che possono non interessare o non interessano di fatto l'"ermeneutica dell'innocenza" che non sa che farsene della "contestualizzazione storica" di Nietzsche: ma che a un tale ermeneuta queste cose possano non interessare o non interessino di fatto significa che egli si sottrae alla fatica immensa che si compie leggendo, poniamo, anche la Kritische Geschichte der Nationalökonomie und des Sozialismus (1871) di Eugen Dühring, The Slave Trade (1853) di Henry Charles Carey ecc. e, perché no, l'Uncle Tom's Cabine (1852) di Harriet Beecher Stowe, la cui "pietà" per i negri ed il cui impegno per la lotta contro la schiavitù non le risparmiano – e Losurdo è, naturalmente, pronto ad annotarlo (p. 411) – gli strali polemici di Nietzsche (fr. p. 25 …[178] primavera 1884). E va da sé che, quando ci si sottrae alla fatica cui si è sottoposto Losurdo (una fatica che mostra un Nietzsche veramente "colpevole" di sostenere l'istituto della schiavitù), l'"innocenza" del filosofo è assicurata: naturalmente, solo perché si rimuovono dalla lettura, sì, le "pagine più inquietanti o più ripugnanti" di Nietzsche: né non possono non dirsi tali le pagine nietzscheane sui kakoi, sui negri, sugli schiavi contemporanei, visti con l'occhio, che ne "naturalizza" la condizione, dell'antico poeta.
Pagine "inquietanti" o "repugnanti" anche quelle sul mondo del lavoro? Si tratta di un mondo che attira l'attenzione di Nietzsche; e, nel mio Nietzsche sulla pianura (1993), ho letto con attenzione le sue pagine più significative su questo mondo. Ciò può spiegare perché il "grosso" e "cattivo" (soprattutto per gli "ascoltatori" musicologi e preti di Nietzsche) libro di Losurdo sollecita ad una ricerca relativa ad un "contesto storico", entro il quale il kakos, il niger di Teognide, caro al giovanissimo Nietzsche filologo, acquista una fisionomia nuova, sì, ma poi non tanto nuova da non fa pensare al vecchio schiavo, doulos physei, come voleva Aristotele: quella del lavoratore di fabbrica legato alla catena del lavoro diviso (già, Smith, i "sacri dogmi dell'economia politica"), sofferente e pure bisognoso di quella catena (il problema della disoccupazione ecc.), in un mondo del lavoro "capitalisticamente" organizzato, in cui il vecchio dualismo agathos-kakos si ripropone come dualismo – e naturalmente conflitto – tra capitalista e lavoratore. Questo nuovo dualismo caratterizza più propriamente il "contesto storico" in cui vive Nietzsche. Ed è questo il contesto in cui vive anche Marx che ha cominciato, ben presto, ad osservarlo, assieme a Engels, per denunciare la presenza, in esso, di una "condizione operaia" in cui si aggiorna l'antica schiavitù. La condizione, quella alla quale si accenna, di un lavoratore ridotto, volendo dirla con un'immagine più volte chiamata in causa da Losurdo (p. 420; ma cfr. Hegel e la libertà dei moderni, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 174), ad instrumentum vocale – (Varrone Reatino, De re rustica, I, 17), cioè ad un uomo, ad un homo loquens, sì, ma trattato come uno strumento, non altrimenti, poniamo, che un aratro (per Varrone instrumentum mutum) o un bue (per Varrone instrumentum semivocale). Neppure per il lavoratore, ridotto a questo strumento, in un’epoca in cui pure, come denunciano Marx ed Engels, c’è tanto uso capitalistico delle macchine, cioè di instrumenta che potrebbero fare meno ponos il lavoro umano, neppure per questo lavoratore ha “pietà” Nietzsche. E non è, questa, una "colpa" di Nietzsche, in sostanza quella di ritenere la schiavitù un "fondamento irremovibile non solo della civiltà greca, ma della civiltà in quanto tale" (p. 427)? E, certo, il trascurare questa "colpa" di Nietzsche può dipendere o dipende unicamente da un'ermeneutica, dell'"innocenza", appunto, che "non si cale" del "contesto storico" in cui vive Nietzsche e in cui ci sono anche altri a "naturalizzare" la nuova forma di schiavitù.
Ci si trova, a questo punto, di fronte ad uno dei momenti più importanti della ricerca nietzscheana di Losurdo. E ad uno studioso come me, interessato ai problemi del lavoro, e alla storia di questi problemi (Filosofia del lavoro, 7 voll., Marzorati. Milano 1980-1982), non può apparire il momento più importante: quello che gli stessi "ermeneuti dell'innocenza" non farebbero assolutamente male a considerare. Non farebbero male, questi ermeneuti, neppure a mettere un po' il naso nella pagine che Losurdo, continuando una ricerca in atto già nei suoi massicci studi hegeliani (ad es. nella parte III di Hegel e la libertà dei moderni), dedica al ruolo che Nietzsche assegna al lavoro nella civiltà in generale, al ruolo che egli vuole sia assegnato al lavoratore anche nella sua epoca in cui pure è in pieno svolgimento la grande battaglia per la dignità di uomo di questo: ne trarrebbero la possibilità di conoscere un Nietzsche che difficilmente si può far passare per un pensatore così "inattuale" da non rendersi conto di quella grande battaglia in corso e da non prendere partito in proposito.
Come al solito, le idee sul lavoro, e sulla situazione storica dei lavoratori, di Nietzsche, sono da Losurdo criticamente commisurate con quelle di filosofi come Schelling e Schopenhauer o di autori come Dühring o Taine. La ricerca si fa articolata e lascia scoprire aspetti singolari del dibattito sulla "questione del lavoro" (e, ad esempio, del 1865, l' Arbeiterfrage di F. A. Lange): chi avrebbe detto, per cogliere uno soltanto di questi aspetti, che Nietzsche potesse trattare come un “anarchico” Eugen Dühring – sì, quello dell'Antidühring engelsiano – per il semplice fatto che "mette in discussione le fondamenta stesse di ogni ordinamento sociale e della civiltà in quanto tale" perché "condanna la schiavitù in senso stretto e in senso lato", investe con la sua analisi critica "gli Stati Uniti della guerra di Secessione e l'Europa della rivoluzione industriale" ecc. (pp. 432-433)?
Bisogna saperle, queste cose, anche queste cose, per non "innocentizzare" Nietzsche. Losurdo, che non ha nessuna intenzione di "innocentizzare" Nietzsche, queste cose le sa e le fa sapere. Naturalmente, per saperle e farle sapere, lavora sul contesto storico, muovendosi tra una caterva di testi, scandagliando centinaia se non migliaia di pagine di autori che bisogna pur conoscere se si vuol conoscere Nietzsche. Un Nietzsche, intanto, che Marx non conosce, come Marx non conosce Nietzsche. Eppure, Nietzsche può "servire" a Losurdo per spiegare la fondamentale nozione marxiana di "pluslavoro". Si tratta del Nietzsche della celebre Vorrede sullo Stato greco, in cui si giustifica così il dualismo, più volte considerato, tra gli agathoi e i kakoi, tra i padroni e i servi, tra i ricchi e i poveri, tra gli Übermenschen e gli Untermenschen: "A spese di questa maggioranza (dei lavoratori) e attraverso il suo pluslavoro (Mehrarbeit) quella classe privilegiata deve essere sottratta alla lotta per l'esistenza, per produrre un nuovo mondo di bisogni e per soddisfare a questi".
Allora, Losurdo: "Nel parlare di ‘pluslavoro’ [Nietzsche] si esprime con lo stesso linguaggio di Marx, secondo il quale l'estorsione di ‘pluslavoro’ (Mehrarbeit) o ‘plusvalore’ (Mehrwert) è non già il fondamento naturale e insuperabile della civiltà in quanto tale, bensì di una società fondata sullo sfruttamento di classe (p. 432). Certo, Nietzsche “naturalizza” ed assegna ai lavoratori sfruttati, alienati, un destino insuperabile (natura non facit saltus); Marx “storicizza” e fa della società fondata sul lavoro sfruttato, alienato, un fenomeno storico superabile. Nietzsche contra Marx; e Marx contra Nietzsche. Senza conoscersi, anche se avrebbero potuto conoscersi. Comunque, Losurdo: "Se avesse potuto, Marx avrebbe inserito anche Nietzsche […] nelle sue Teorie del plusvalore , fra quegli autori moderni che non esitano a pronunciare senza infingimenti il segreto dell'accumulazione capitalistica (il tabù inviolabile dell'apologetica volgare), senza neppure nascondere quanto di schiavistico vi è nel moderno lavoro salariato" (p. 433).
In verità Nietzsche, pur giustificandolo, cioè "naturalizzandolo", spiega il fenomeno storico dell'"accumulazione capitalistica". Ma il punto serio è che Nietzsche, proprio mentre lo spiega, lo giustifica, certo "naturalizzandolo". Un tale Nietzsche, in particolare, non può essere "innocente", per uno studioso come Losurdo, sul quale cade, frequente, l'accusa di essere uno studioso ideologicamente settario che si batte sul terreno pratico, contro l'assetto capitalistico della società. Sarà anche ideologicamente settario, Losurdo; ma non si può affatto rinunciare, unicamente perché egli è tale, agli innumerevoli, intelligenti e documentati acquisti conoscitivi che ci offre relativamente ad un Nietzsche che resta, inesorabilmente, il filosofo dell'Übermensch, da intendere anche o soprattutto o assolutamente in senso razzistico.
Né l’analisi martellante, spietata - rigorosamente condotta sui testi di autori che non si possono non interpellare quando lo si legge – delle idee sul lavoro di Nietzsche viene arrestata qui, da Losurdo. Si presti attenzione ad uno dei paragrafi, dottissimi e persuasivi, quale è quello dedicato al tema lavoro e servitus nella tradizione liberale (pp. 417-422). La "condizione operaia" che si vede e si vuole come una forma della nuova schiavitù? Ma, questa non è solo un'idea di Nietzsche. La trovi diffusa nel pensiero liberale dell'epoca, anche di un tempo immediatamente anteriore o immediatamente posteriore, di Nietzsche. E’ inutile rimanere "fortemente perplessi a vedere pienamente assimilati Tocqueville e J. S. Mill a Nietzsche sotto la categoria della reazione aristocratica" (G. Bedeschi, Il “risentimento” del Superuomo, "Il Sole 24 Ore", 9 marzo 2003). E' un fatto che liberali come Locke, Constant, Mandeville, Burke ecc. mostrano di avere la stessa idea, che ha Nietzsche, della necessità, non solo storica, ma naturale, di una classe di lavoratori ridotti a nuovi schiavi, perché favoriscano lo sviluppo integrale di una minoranza felice, sottratta al lavoro destinato a produrre beni e ad allestire servizi, naturalmente anche per essa. Del resto, è, nientemeno, anche un'idea del liberale Kant, del quale l'inflessibile Losurdo cita (p.421) il paragrafo 84 della Critica del Giudizio (1790). "La cultura [veramente Kant dice Geschicklichkeit] non può essere ben sviluppata nella specie umana che per mezzo della diseguaglianza tra gli uomini perché il più gran numero di essi cura la necessità della vita quasi meccanicamente, senza aver bisogno di una arte particolare, per l'agio e l'otium [veramente, Kant: zur Gemütlichkeit und Muße] degli altri, i quali elaborano gli elementi meno necessari della cultura (sì Kant, qui, dice Kultur), tenendo questi in uno stato di oppressione, nel quale lavorano duramente e godono poco".
Non c'è dubbio, in questo testo (anche se egli aggiunge: "mentre gradualmente si propaga tra essi parte della cultura superiore"), Kant esprime la stessa idea di Nietzsche, cioè che il duro lavoro delle masse continua ad essere il presupposto dell'otium della civiltà" (p. 421). E, con questo riferimento a Kant, si è voluto solo dar conto del modo di lavorare storiograficamente di Losurdo su Nietzsche e sul suo "contesto storico". Questa osservazione serve a spiegare una mia affermazione precedente: che il libro di Losurdo avrebbe potuto diventare anche più "grosso" (e, a questo punto, non so neppure se più "cattivo") di quanto è. Magari, facendo un opportuno riferimento a Schiller che, nella VI delle sue Lettere sull'educazione estetica dell'uomo (1795), giustifica la divisione sociale del lavoro che fa "mutilata" la "natura" dell'uomo per preparare una generazione veramente beata, se in essa l'uomo è destinato ad essere un Ganzmensch, un "uomo intero". E questo perché Losurdo non manca di toccare il tema, svolto anche da Nietzsche, della divisione del lavoro sociale (soprattutto pp.856-859). Anche la trattazione di questo tema avrebbe potuto e dovuto fare più "grosso" il libro di Losurdo. Certo, egli potrebbe oppormi il suo "non ci si può occupare di tutto". E Losurdo si occupa ben di troppe cose per poter occuparsi anche di ciò di cui io avrei voluto si occupasse: nel caso specifico, del modo in cui Nietzsche guarda, nel suo tempo, a quella divisione del lavoro sociale, una colonna portante della società borghese e capitalistica, alla quale cominciano, significativamente, a muovere aspra critica, anche un po’ fouriereggiando o utopizzando, Marx ed Engels (ad es. nell' Ideologia tedesca, comunque dagli autori abbandonata alla "critica roditrice dei topi"). Interessarsi alla trattazione nietzscheana della divisione del lavoro sociale può essere, infatti, utile a misurare il tasso di "inattualità", alla quale Losurdo non crede affatto, del filosofo.
Sempre "attuale" o tutt'altro che "inattuale" Nietzsche? Eppure, a me, è sempre parso che Nietzsche svolgesse tutta una accorata lamentatio sui Teilmenschen della sua epoca (anche Teilmenschen del mondo della cultura), mettendosi nell'itinerario della riflessione neoumanistica, propria della Goethezeit o della filosofia classica tedesca, da Schiller a Marx. In questo itinerario solo Nietzsche e Goethe "santificano" ideologicamente la divisione del lavoro sociale o, in una parola, l'"uomo parte" (tutto sommato, l'uomo dell'economia classica, chiamato da Smith ad essere lo specialista della diciottesima parte di uno spillo). "Santifica" ideologicamente, almeno in parte, la divisione del lavoro sociale, l'uomo dell'economia classica, Schiller, tuttavia "storicizzandolo". A lamentare neoumanisticamente il frazionamento, la lacerazione, la frammentazione dell'uomo vincolato alla parte inevadibile del suo lavoro diviso resta il grande ed infelice Hölderlin, di cui Nietzsche è, senz'altro, un fratello spirituale.
Losurdo fa riferimento a Hölderlin una sola volta (p. 102). Poco, troppo poco, direi, in una "biografia intellettuale" di Nietzsche. Comunque, ben fa riferimento, Losurdo, all'Hölderlin dell'Iperione: "Tu vedi operai, ma non uomini; sacerdoti, ma non uomini; padroni e schiavi […] ma non uomini: non è come un campo di battaglia, ove giacciono alla rinfusa mani e braccia e membra mutile?" Sì, ha ragione, Losurdo, di ritenere che Nietzsche "riprende" e riecheggia questo Hölderlin nel suo Zarathustra: "Vago tra gli uomini come tra frammenti e membra di uomini!…"(II, Della redenzione). Lo "spettacolo" dell'uomo ridotto a Teilmensch, descritto da Hölderlin (ne sa qualcosa Marx attraverso la lettera di Arnold Ruge del maggio1843) e da Nietzsche, è quello che offre il mondo del lavoro dell'epoca. Solo "attuale" – mi chiedo – Nietzsche di fronte a questo "spettacolo", lui "antisocialista" e senza "pietà" per la pena dell'uomo? Ho sempre ritenuto che, di fronte a questo "spettacolo", Nietzsche è stato anche, hölderlinianamente, "inattuale": sono anche io un "ermeneuta dell'innocenza"?
Sì, il libro di Losurdo è "grosso" e meritava un discorso "grosso". Ma non voglio, pur potendo, farlo più "grosso". Mi basta aver accennato a qualcuno dei tanti temi che Losurdo affronta e svolge con un'enorme, sbalorditiva capacità di indagine, con un mirabile potere di dominare i "dati” necessari per procurare, di Nietzsche, l'immagine di un "aristocratico ribelle": di uno scrittore, intanto, non così aforismatico da non permettere di cogliere il suo discorso organicamente "sistematico" dal punto di vista logico (cfr. il paragrafo Aforisma, saggio e sistema, pp. 931-934). Mi rimane un po’ il fastidio, proprio dello studioso insoddisfatto, di non poter seguire Losurdo in altri momenti della sua intricatissima ricerca: sul femminismo, poniamo, sulla democrazia, sulla nazione, sulla Germania ecc. nel pensiero di Nietzsche e sulle interpretazioni di questo durante il nazismo ecc. Ma su un momento particolare della ricerca losurdiana, nondimeno, avrei voluto più dettagliatamente soffermarmi: quello in cui egli tratta della “dissoluzione del soggetto in Nietzsche e nella cultura europea" (pp.720-724).
Certo, anche quello della "dissoluzione del soggetto" – o, senz'altro, dell'"io" – è un tema diffuso nella cultura europea. Lo stesso Losurdo, leggendo Al di là del bene e del male, (16-17), non dimentica il più antikantiano Lichtenberg: il filosofo tedesco del Settecento che oppone al kantiano Ich denke il più impersonale Es denkt, usato per indicare il fenomeno del pensare come un fenomeno naturale. La "dissoluzione del soggetto" sta tutta qui: nell'assumere il pensare come un qualcosa che non dipende dalla volontà di un "soggetto", di un “io" che, di fatto, non esisterebbe, non esiste. Ed anche su questo punto Losurdo accumula una vera e propria antologia di riferimenti: scendendo, per dir così, lungo i tornanti della cultura europea sul tema, sino a Galton, Girardet, Le Bon. Ed io, forse perché contemporaneamente leggo l'ottimo libro di Hans-Joachim Pieper (Musils Philosophie. Essaysmus und Dichtung im Spannungsfeld der Theorien Nietzsches und Machs, Königshausen & Neumann, Würzburg, 2002), gli chiedo, sono costretto a chiedergli: possibile che Losurdo – così paziente, così attento, così dotto – non abbia "incontrato" l'Analisi delle sensazioni(1885) di Ernst Mach? In Analisi delle sensazioni di Mach, si legge das Ich ist unrettbar, "l'io è insalvabile" e, subito dopo (I, I2): "L’ideale etico che si fonderà su tale concezione della vita sarà altrettanto lontano da quello dell'ascesa, ideale che risulta biologicamente insostenibile per lui stesso e che si spegne con lui alla sua morte, e da quello dell'impudente "superuomo" nietzscheano, che i suoi simili non possono sopportare e che speriamo non sopporteranno".
Perché "appioppo" questo Mach a Losurdo? So bene, come lui, che, in una ricerca, "non ci si può occupare di tutto". Ma un po’ di Mach sarebbe stato opportuno che se ne occupasse. Se non altro perché un rapporto tra Mach e Nietzsche è anche filologicamente fondabile (cfr. il mio Nietzsche. La scienza sul Vesuvio cit.). Perché occuparsene? Perché in Mach "la tesi della dissoluzione del soggetto" non è – e non lo è o non lo è del tutto nemmeno in Nietzsche – "il controcanto alla proclamazione rivoluzionaria dei diritti dell'uomo" (pp.784). Intanto, spero che egli non mi inscriva, d'autorità, unicamente perché nella "tesi della dissoluzione del soggetto" nietzscheana e machiana leggo anche qualcos'altro, al partito degli "ermeneuti dell'innocenza" di un filosofo quanto si vuole teoreticamente responsabile di fare cadere nell'"innocenza del divenire" persino quelle che saranno "operazioni di annientamento su vasta scala". Comunque, buona fortuna ad un libro su Nietzsche che ci voleva: anch'io non ne posso più degli "innocentizzatori", più storiograficamente fannulloni, di Nietzsche. E scusami, caro Losurdo, se io, pur non essendo uno di questi “innocentizzatori”, non ho visto in Nietzsche solo un filosofo totus politicus, ma anche il pensatore che, ad esempio, detesta Parmenide e ama Eraclito, sente con Anassimandro il “male” del mondo, ma con Euripide non teme di vivere ancora una volta.

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