Belfagor. Rassegna di varia umanità

Domenico Losurdo

 

Il libro di Domenico Losurdo ha suscitato un acceso dibattito sulla stampa ed è già un caso editoriale. Filosofia.it vi propone un resoconto completo degli articoli che si sono occupati del volume.


Torna all'indice degli articoli

 

 

 

 

Belfagor. Rassegna di varia umanità, anno LIX, fascicolo 349, 31 gennaio 2004, pp. 1-13

GLI OCCHIALI E L’OMBRELLO DI NIETZSCHE
di Domenico Losurdo

Più d’uno ha creduto che la nuova edizione critica, pubblicata da Colli e Montinari, provocasse un nuovo e decisivo arricchimento e approfondimento della comprensione di Nietzsche. Ora è certamente vero che per la prima volta possediamo i quaderni di appunti di Nietzsche in forma criticamente sicura e cronologicamente ordinata e che non dipendiamo più dalla redazione e dalla selezione in cui la sorella di Nietzsche e gli editori successivi avevano compilato i suoi frammenti postumi; tuttavia è ingenuo credere che oggi, con a disposizione il vero Nietzsche, siamo definitivamente affrancati dalle preoccupazioni che hanno tormentato gli interpreti precedenti. Valga per ciò questo esempio. In un recente opuscoletto di Derrida: Les épérons de Nietzsche, un intero capitolo è dedicato a una brevissima affermazione di Nietzsche che recita testualmente: «Ho smarrito il mio ombrello». Derrida scrive un saggio molto elegante su queste due righe. Forse Nietzsche smarrì veramente il suo ombrello. Ma chi è in grado di sapere se in questo fatto si cela qualcosa di importante, di significativo? Comunque stiano le cose, l’esempio chiarisce come la smania di pubblicare tutto di un autore sia anche un modo caratteristico di nascondere cose essenziali fra altre che tali non sono (Gadamer).

Pur assai prezioso, il lavoro editoriale di Colli e Montinari non è quella sorta di ermeneutica plenitudo temporum, religiosamente annunciata da interpreti smaniosi di sbarazzarsi delle domande inquietanti che la lettura di Nietzsche comporta. E’ del 1986 la messa in guardia di Gadamer, e già da un pezzo quelle domande erano state bandite in nome della correttezza politica e del bon ton. Eppure, era la stessa edizione Colli-Montinari a confermare la presenza, in un filosofo peraltro straordinariamente ricco e stimolante, di motivi che oggi non possono non suscitare echi sinistri: celebrazione dell’eugenetica e della «super-specie», teorizzazione da un lato della schiavitù, dall’altro dell’«allevamento» della «specie superiore degli spiriti dominatori e cesarei», invocazione dell’«annientamento delle razze decadenti» e dell’«annientamento di milioni di malriusciti», affermazione della necessità di «un martello con cui frantumare le razze in via di degenerazione e morenti, con cui toglierle di mezzo per aprire la strada a un nuovo ordine vitale».

Il disappunto di Gadamer

Ma come spiegare che l’«ombrello» da Nietzsche smarrito susciti più attenzione che non i motivi precedentemente accennati? E qui interviene la seconda parte della messa in guardia di Gadamer, da me evidenziata sempre col corsivo. Dobbiamo allora guardare con diffidenza al fatto che tutti i frammenti del filosofo vengano pubblicati allo stesso titolo e con lo stesso rilievo, sicché i brani più inquietanti finirebbero con l’essere sommersi da una massa di dettagli relativi agli episodi più minuti della vita di Nietzsche? Forse Gadamer spinge qui troppo oltre l’esercizio dell’ermeneutica del sospetto. D’altro canto, non è esatto che l’edizione Colli-Montinari pubblichi tutto allo stesso modo senza far intervenire alcuna distinzione. Nella Großoktav-Ausgabe (vol. XIII, p. 43) possiamo leggere questo brano:

Chi come uomo della conoscenza ha riconosciuto che in noi, accanto alla crescita di ogni genere, vige al tempo stesso la legge del perire, e che inesorabilmente s’impongono l’annientamento e la decomposizione al fine di ogni creazione e generazione: questi deve imparare a provare una sorta di gioia dinanzi a tale spettacolo, in modo da poterlo sopportare; diversamente non è più adatto alla conoscenza. E cioè: egli dev’essere capace di una raffinata crudeltà e abituarsi ad essa con cuore risoluto. Se la sua forza è ancora più in alto nella gerarchia delle forze, è lui stesso un creatore e non solo uno spettatore: non basta allora che egli sia capace della crudeltà solo nel vedere tanta sofferenza, tanto estinguersi, tanto annientamento; un tale uomo dev’essere capace di arrecare lui stesso dolore con piacere, dev’essere crudele con la mano e con l’azione e non solo con gli occhi dello spirito»
.
Riportato in un’edizione pur sempre prestigiosa, inserito da Baeumler nella sua antologia nietzscheana dedicata all’illustrazione o alla celebrazione dell’«innocenza del divenire», il frammento viene poi ripreso da Nolte che se ne serve per ribadire la sua lettura: reagendo con un progetto di «controannientamento» all’«annientamento» della borghesia invocato da Marx, Nietzsche avrebbe «fornito al radicale antimarxismo politico del fascismo, con decenni di anticipo, il modello spirituale, cui lo stesso Hitler non seppe mai essere del tutto all’altezza». E’ una tesi provocatoria, che forse avrebbe meritato una discussione assai più ampia di quella che ha conosciuto. Ma cosa avviene del frammento in questione nell’ambito dell’edizione Colli-Montinari? In quanto versione preparatoria del § 229 di Al di là del bene e del male, esso viene riportato tra le «Notizie e Note» dell’edizione Adelphi di Al di là del bene e del male e nei volumi degli apparati critici della Kritische Gesamtausgabe e della Kritische Studienausgabe, mentre dilegua del tutto nella versione digitale della Kritische Studienausgabe che, sino a questo momento, non riproduce il volume degli apparati critici.
Di Socrate e la tragedia, la conferenza da Nietzsche pronunciata il 1 febbraio 1870, ci siamo occupati su «Belfagor» del 30 settembre 2002. Mentre è relegata nei volumi degli apparati critici della Kritische Gesamtausgabe e della Kritische Studienausgabe, la conclusione originaria del testo («Questo socratismo è la stampa ebraica»), che rispecchia l’intenzione autentica dell’autore, dilegua del tutto sia nella versione digitale sia nella versione italiana dell’edizione Colli-Montinari.
Emerge così un pericolo più grave di quello contro cui mette in guardia Gadamer. Non è che «la smania di pubblicare tutto di un autore» finisce col «nascondere cose essenziali fra altre che tali non sono». Avviene invece che annotazioni del tutto banali (non solo «ho smarrito il mio ombrello», ma anche «non inforcare gli occhiali per la strada!», «di sera abiti caldi!» ecc.) tendono a mettere ai margini e persino a far dileguare l’inno alla gioia dell’annientamento e la denuncia del ruolo nefasto della stampa ebraica.


«Accanimento» e «miglioramento»

A riconoscere, in un modo o nell’altro, la serietà di questi problemi sono anche voci insospettate. Dopo aver proceduto ad un confronto assai critico con la lettura sviluppata nella monografia da me dedicata a Nietzsche, Sossio Giametta tuttavia osserva: «Un gran merito comunque il libro lo ha: quello di porre fine, con gli strumenti storici, filologici e critici più validi, all’ermeneutica dell’innocenza, che strappa Nietzsche dal suo contesto storico e dalle sue stesse radici»; si tratta di una «tendenza» ermeneutica che «si è impadronita anche degli ingegni migliori, fra cui i due editori [Colli e Montinari], inducendoli a qualche errore su cui Losurdo si accanisce».
Che dire di questa presa di posizione? Intanto, non si può non apprezzare l’onestà intellettuale di chi, pur avendo fornito un contributo di primissimo piano alla versione italiana della nuova edizione critica, non si limita a riconoscere la presenza (comprensibile e persino inevitabile) di errori di traduzione e di altro genere. Più importante è il riconoscimento che questi errori rispondono in qualche modo ad una logica, ad una precisa «tendenza» interpretativa. Quanto al mio presunto «accanimento», conviene notare che, mentre io mi limito a evidenziare il peso che, sull’edizione Colli e Montinari, nonostante i suoi meriti innegabili, pur sempre esercita l’ermeneutica dell’innocenza, Giametta si lascia sfuggire che tale ermeneutica «si è impadronita» dei due editori.
In altra occasione, Giametta formula un giudizio ancora più drastico su Montinari, sia pur soffermandosi in questo caso sul suo lavoro di interprete più che di editore:

Anche in politica egli fa valere l’esigenza di tener conto di Nietzsche, della sua critica e della sua dimensione. Non delle sue verità accecanti e laceranti. E non dei suoi errori e orrori, quale “la morale cannibalesca che dovrebbe essere imposta dittatorialmente”, come dice Rohde, e che scoppia appunto, in modo inequivocabile, in Al di là del bene e del male […] Tutte le cose che Montinari predica di Nietzsche hanno l’aria di essere importanti. Sono invece, duole dirlo, anodine quando non false.

Non so se «tutte» le osservazioni di Montinari siano «anodine» o «false», ma è certo che la tendenza a rimuovere «errori e orrori» si fa sentire anche nel suo lavoro di editore, se non altro nelle note e nei commenti che accompagnano la versione italiana. Ribadisco allora quanto ho già scritto su «Belfagor» e nell’Appendice al mio libro: intendo contribuire al «miglioramento» della nuova edizione critica. Per accennare qui solo ai problemi di più semplice soluzione: ha diritto il lettore dell’edizione italiana ad essere informato che la conferenza del 1 febbraio 1870 termina mettendo in stato d’accusa la stampa ebraica? Ed è accettabile che il lettore, mentre viene messo al corrente dell’agitazione suscitata dalla conferenza in Cosima e Richard Wagner, nulla viene a sapere del motivo (la pubblica denuncia dell’ebraismo come sinonimo di socratismo) di tale agitazione? Può essere considerato filologicamente corretto riportare, della lettera da Nietzsche inviata a Wagner il 22 maggio 1869, la celebrazione della «serietà germanica della vita», tacendo però della contrapposizione di questa visione del mondo all’«ebraismo invadente»? E, per fare un rapidissimo cenno al problema della traduzione, non sarebbe opportuno porre fine all’allegra confusione di «civiltà» e «civilizzazione», due termini ai quali Nietzsche attribuisce un significato ben diverso e persino antitetico? E’ un buon segno il riconoscimento che alcune mie «puntualizzazioni» sulla traduzione «possono essere accolte». Va da sé che non sono in discussione la «buona fede» e la «probità intellettuale» di Colli e Montinari, ma non si vede perché queste caratteristiche debbano essere misconosciute in Lukács, come fa «la Repubblica» in un articolo anonimo (un tocco di eleganza!), che usa l’aggettivo «lukacciano» come sostanziale sinonimo di «poliziesco»: far valere rozzamente il sospetto per i propri avversari ma respingerlo con sdegno da sé e dalla propria parte è la definizione stessa del dogmatismo!

Emerson e Nietzsche

Tra le reazioni dialoganti alla messa in discussione dell’ermeneutica dell’innocenza bisogna inserire in posizione eminente anche quella di un interprete, pur da me criticato quale esponente di primo piano di tale ermeneutica. Gianni Vattimo riconosce che, se anche ammirava Emerson, Nietzsche «non ne condivideva certo l’impegno per l’abolizione della schiavitù»: la celebrazione della schiavitù come fondamento ineliminabile della civiltà non è dunque una semplice metafora! Vattimo richiama inoltre l’attenzione su «certe contraddizioni dell’individualismo con cui ancora oggi ci troviamo a fare i conti»: può essere considerata realmente individualistica una visione del mondo che, come avviene nel teorico del radicalismo aristocratico e nella tradizione liberale alle sue spalle, mentre celebra gli individui eletti, bolla la stragrande maggioranza dell’umanità come un insieme di strumenti di lavoro e di macchine bipedi? L’emancipazione di cui parlano la tradizione liberale classica e, in termini decisamente più radicali e più fascinosi, Nietzsche non riguarda mai l’individuo nella sua universalità. E’ per questo che il filosofo tedesco, rivelando una consapevolezza critica nettamente superiore a quella dei suoi predecessori liberali, si guarda bene dal fare professione di individualismo; al contrario egli sottolinea che, al pari della «morale collettivistica», anche quella «individualistica» ha il torto di far valere parametri egualitari, rivendicando la «medesima libertà» e la medesima spregiudicatezza per tutti. Il vizio di fondo del cristianesimo e del socialismo è quello di presupporre e inventare anime o individui là dove siamo in presenza soltanto di strumenti di lavoro. Infine Vattimo, sempre a proposito di Nietzsche, si sforza giustamente di valorizzare i «tratti meno “nazisti” del suo pensiero»: resta fermo che non abbiamo a che fare con un autore impolitico; è ora di dare l’addio all’ermeneutica dell’innocenza!
E, tuttavia, non mancano le esitazioni e le oscillazioni. Accostando Nietzsche a Emerson, Vattimo crede di poter recuperare almeno parzialmente la lettura in chiave impolitica: dopo tutto - egli suggerisce - nessuno vorrà far valere nei confronti dello scrittore americano i sospetti e le accuse avanzati nei confronti del filosofo tedesco. In realtà, l’ermeneutica dell’innocenza si rivela inconsistente anche in riferimento a Emerson. Certo, questi non ha vissuto il trauma della Comune di Parigi e di un interminabile ciclo rivoluzionario che, dopo aver devastato la Francia, sembra trovare il suo terreno di elezione nella Germania di fine Ottocento, caratterizzata dall’avanzata minacciosa della socialdemocrazia, di un partito cioè celebrato o bollato come la punta di diamante della rivoluzione da tutta la cultura del tempo. E, tuttavia, motivi torbidi non mancano neppure nello scrittore statunitense, come emerge in particolare dalla celebrazione dei grandi uomini (essi soli danno senso ad un mondo infestato di «pigmei» e dunque hanno pieno diritto di immolare «milioni di uomini», «senza risparmio di sangue e in modo impietoso»), dall’insistenza sul ruolo della razza («sappiamo quale peso la razza esercita nella storia») e sul carattere fatale dell’espansione delle «razze istintive ed eroiche», dall’esaltazione delle guerre che «sgombrano il campo dalle razze corrotte e dai covi della malattia». Significativa è anche la storia della fortuna di Emerson. A certi aspetti del suo pensiero si richiamano più tardi Chamberlain e, con un entusiasmo tutto particolare, Henry Ford, il grande fustigatore del complotto ebraico-bolscevico incombente sul mondo e cioè l’autore che, proprio in virtù di tali temi, gode di grande fortuna nel Terzo Reich. Com’è noto, Emerson è in eccellenti rapporti con Carlyle, il quale ultimo, nella Germania del 1935, viene chiamato, assieme a Chamberlain, a tenere a battesimo il nuovo regime: i «due britannici» hanno un merito comune, quello di aver fatto valere «l’idea di Führer e il pensiero della razza»; grazie a questa aristocratica visione del mondo, essi hanno stretto ulteriormente i legami tra tedeschi e inglesi, due popoli destinati a primeggiare. E’ un riconoscimento che potrebbe essere esteso anche allo scrittore statunitense, il quale a sua volta sottolinea e celebra la comune origine razziale e la comune missione imperiale di tedeschi, inglesi e americani. E, dunque, non ha molta fortuna il tentativo di mettere almeno Emerson all’asciutto sul terreno della cultura pura. Il fatto è che, nonostante l’asprezza della sua polemica con Lukács, Vattimo sembra condividerne un presupposto di fondo: entrambi argomentano come se il processo di formazione dei motivi più torbidi dell’ideologia di fine Ottocento, successivamente ereditati, radicalizzati e trasformati dal nazismo, fosse una vicenda tutta interna alla Germania!
Per quanto riguarda Emerson, c’è un capitolo di storia della sua fortuna che forse risulta di sorprendente attualità. Innalzato nel pantheon degli «intelletti imperiali della sua razza» subito dopo la dichiarazione di guerra alla Spagna ad opera degli sciovinisti più esaltati, egli viene invece riletto in modo impietoso dai critici della sporca guerra contro il Vietnam: «E’ Emerson che ha liberato la nostra politica e i nostri politici da ogni senso di restrizione».

Il pubblico ministero e l’imputata: una strana convergenza

E, tuttavia, nonostante il permanente dissenso con Vattimo, resta il fatto che il suo intervento è sintomatico: l’ermeneutica dell’innocenza relativa a Nietzsche non è più un tabù intoccabile. Forse comincia a vacillare la tendenza che, pur di sbarazzarsi dalle «preoccupazioni» cui fa riferimento Gadamer, le mette sul conto di due capri espiatori. Il primo è, com’è noto, costituito da Elisabeth, che avrebbe adattato la filosofia di Nietzsche alle esigenze del nazismo. E’ una tesi sulla quale tuttora pochi osano formulare dei dubbi. Che importa se la biografia da lei dedicata al filosofo si colloca a cavallo tra i due secoli e se La volontà di potenza è stata pubblicata nel 1901 e, in seconda edizione, nel 1906, nell’Europa della belle époque, allorché nessuno era in grado di prevedere, nonché l’ascesa di Hitler, neppure lo scoppio della prima guerra mondiale? Pur di non essere turbati nella loro buona coscienza, gli ermeneuti dell’innocenza non esitano ad attribuire straordinarie capacità divinatorie alla disprezzata Elisabeth. Ne scaturisce una sorta di Nostradamus in gonnella che, per di più, lungi dal limitarsi a prevedere un futuro remoto, lavora attivamente e con successo per la sua infausta realizzazione.
Il bello è che, nonostante l’asprezza della requisitoria, l’inflessibile pubblico ministero finisce col rivelare insospettati punti di contatto con la sciagurata imputata. Nel suo tentativo di recuperare, su base più debole, l’ermeneutica dell’innocenza, Vattimo accosta Nietzsche a Emerson, ma già Elisabeth, nella sua biografia, sottolinea che il filosofo «amava in modo particolare» lo scrittore americano. Colli e Montinari insistono sull’estraneità di Nietzsche all’antisemitismo e alla giudeofobia? E’ esattamente il punto di vista di Elisabeth. Se i due editori, nel riportare Socrate e la tragedia, rimuovono negli apparati critici o cancellano del tutto la conclusione della conferenza («questo socratismo è la stampa ebraica»), in modo analogo procede la vilipesa sorella del filosofo. Questa, nella sua biografia, riferisce ampiamente della conferenza in questione ma tace della sua conclusione; riporta le reazioni al tempo stesso ammirate e preoccupate di Cosima e Richard Wagner, ma senza precisare che a provocarle è l’esplicita identificazione di socratismo e ebraismo. D’altro canto, sono proprio Colli e Montinari a suggerire, negli apparati critici dell’edizione tedesca, che a strappare la pagina finale, con la conclusione già vista di Socrate e la tragedia, forse non è stato l’autore della conferenza. E come potrebbe essere spiegata l’operazione di Elisabeth se non col desiderio di mettere il filosofo al riparo dall’accusa di antisemitismo?
Elisabeth è la destinataria delle lettere in cui il giovane Nietzsche dà libero sfogo alla sua giudeofobia: egli si compiace per aver «finalmente» trovato una trattoria dove è possibile godersi il pasto senza dover subire la vista di «brutti ceffi giudaici», nonché, sempre con riferimento agli ebrei, di «disgustose scimmie prive di spirito e altri commercianti»; egli esprime invece il suo disappunto per il fatto di imbattersi a teatro, in occasione di una rappresentazione dell'Afrikanerin di Meyerbeer (il musicista di origine ebraica sbeffeggiato da Wagner) in «ebrei e compari di ebrei dovunque si rivolga lo sguardo». Giunge persino a scrivere, rivolgendosi alla sorella: «Come puoi pretendere da me che io ordini un libro da uno scandaloso antiquariato ebraico?». Elisabeth si guarda bene dallo strombazzare queste lettere, anzi stende su di esse un velo pietoso di silenzio: ma non è in modo analogo che procede l’edizione Colli-Montinari? C’è un altro particolare interessante. Dopo la stroncatura subita dalla Nascita dalla tragedia, Nietzsche bolla Wilamowitz, come un «giovanotto affetto da arroganza ebraica» mentre ironizza sulla freddezza del maestro o ex-maestro Ritschl, mettendola sul conto della sua cultura di impronta alessandrina ovvero «ebraico-romana». Toni analoghi caratterizzano anche la reazione della cerchia di amici del filologo-filosofo di Basilea. Più freddamente, nella sua biografia, Elisabeth si limita a criticare la ristrettezza d’orizzonti dei filologi di professione. In ultima analisi, se per tanto tempo è rimasta in ombra la violenta giudeofobia del giovane Nietzsche, lo si deve in primo luogo alla cortina che su di essa stende l’amorevole sorella.
Ben lungi dall’adattare (con decenni di anticipo e di preveggenza!) il pensiero del fratello alle esigenze ideologiche del nazismo, Elisabeth tende semmai a smussare o a rimuovere le dichiarazioni più ripugnanti. E’ invece Brandes, il discepolo a sua volta assai stimato dal Maestro, a dare di Nietzsche un’interpretazione che fa di lui il campione delle forme più radicali e più ripugnanti di eugenetica (quelle ereditate poi dal nazismo): «L’igiene che mantiene vivi milioni di esseri deboli e inutili, i quali dovrebbero piuttosto morire, non costituisce per lui un vero progresso»; in realtà, «la grandezza di un movimento si deve misurare dai sacrifici che esso richiede». In conclusione, identica è la preoccupazione che ispira da un lato gli odierni apologeti dall’altro la sorella di Nietzsche: si tratta di erigergli un monumento; va da sé che un monumento post-moderno non può non differire da un monumento di età guglielmina.
L’unico appiglio cui cerca disperatamente di aggrapparsi la tesi del complotto di Elisabeth è costituito dall’omaggio che nel 1934, a lei ancora viva, e l’anno dopo, alla sua salma, rende Hitler. Ma come è scivoloso questo appiglio! Chiaramente, il Führer intende rendere omaggio non già alla vedova Förster bensì, per l’appunto, alla sorella del filosofo cui egli si richiama. E non del tutto a torto, stando almeno ad Heidegger che nel 1936 osserva: «Mussolini e Hitler, i due uomini che hanno introdotto un contromovimento nei confronti del nichilismo, sono stati entrambi alla scuola di Nietzsche, sia pure in modo essenzialmente diverso». E’ vero, Elisabeth mostra di gradire gli inchini e i salamelecchi del Führer: finalmente il fratello era divenuto un monumento nazionale! E, tuttavia, non mancano le riserve e persino una certa ironia: dopo la visita di Hitler a Weimar, Elisabeth osserva che egli dava «l’impressione di un uomo significativo sul piano religioso più che su quello politico». Ben più scomposto nel suo entusiasmo si rivela Heidegger, così affascinato dal Führer da mettere a tacere i dubbi e le timide obiezioni di Jaspers con questo argomento: «Ma osservi le sue mani meravigliose!». Perché allora mettere sul conto di una povera donna piuttosto che di un grande interprete la rottura dell’incanto della lettura impolitica di Nietzsche? Senza lasciarsi impressionare da questa obiezione, gli ermeneuti dell’innocenza si cavano d’impaccio immergendo tranquillamente anche Heidegger in un bagno purificatore che lo deterge da ogni scoria politica.

Il conflitto delle facoltà: filosofi e storici

Per rendersi conto dell’insostenibilità anche del secondo mito (quello che individua il capro espiatorio non più in Elisabeth bensì in Lukács), basta un semplice esperimento intellettuale. Immaginiamo uno studente che voglia studiare Nietzsche. Comincia col frequentare un dipartimento di filosofia: vi dominano pressoché incontrastati Kaufmann, Deleuze, Foucault, Bataille, Vattimo, Cacciari, tutti con modalità diverse impegnati a denunciare il complotto di Elisabeth e il delirio ideologico di Lukács. Ma se per avventura si deciderà a varcare un’aula di storia, lo studente s’imbatterà in una linea interpretativa del tutto diversa: storici eminenti quali Ritter, Hobsbawm, Elias, Mayer, Nolte, tutti concordano, sia pure a partire da orientamenti tra loro assai diversi, nel collocare Nietzsche nell’ambito della reazione antidemocratica di fine Ottocento, dalla quale prende le mosse il movimento sfociato poi nel fascismo. Nelle aule di filosofia è d’obbligo l’ermeneutica dell’innocenza, ma ecco come a proposito della filosofia di Nietzsche si esprime Mayer: «Tutto può dirsi della nuova Weltanschauung, tranne che fosse innocente». Se poi lo storico statunitense qui citato dovesse essere considerato troppo sbilanciato a sinistra (il libro cui si fa riferimento è dedicato a Marcuse), ci si può rivolgere a Nolte: come abbiamo visto, agli occhi del campione del revisionismo storico, Hitler è una sorta di discepolo un po’ timido e impacciato di Nietzsche!
Piuttosto che prendersela con Lukács, gli ermeneuti dell’innocenza farebbero bene ad aggiustare il tiro. Nei confronti del filosofo marxista ungherese esibisce un sovrano disprezzo anche Lichtheim, il quale tuttavia afferma: «Non è esagerato affermare che se non fosse stato per Nietzsche, le SS - le truppe d’assalto di Hitler, nerbo dell’intero movimento - non avrebbero avuto l’ispirazione che permise loro di svolgere un programma di genocidio nell’Europa orientale». Si tratta di una tesi errata. Per un verso, quando teorizza l’«annientamento delle razze decadenti», Nietzsche non pensa certo agli slavi che, alla fine dell’Ottocento, sono ancora considerati parte integrante del mondo «civile» (di questa opinione è anche Chamberlain). Per un altro verso, è un abbellimento della tradizione coloniale e dell’Occidente liberale istituire un rapporto immediato ed esclusivo tra questo invocato «annientamento» e il Terzo Reich, come se la cancellazione dalla faccia della terra dei pellerossa ovvero degli aborigeni dell’Australia e dell’Africa australe non fossero in atto già alla fine dell’Ottocento!
E, tuttavia, un problema si pone: perché piuttosto che prendersela con Lukács, gli ermeneuti dell’innocenza non si misurano con gli storici sopra citati e con gli studiosi più recenti e più accreditati del Terzo Reich (ad esempio Kershaw), i quali sottolinenano il forte peso che la lettura di Nietzsche esercita nella formazione ideologica di Hitler? A suo tempo, è stato oggetto di ampio dibattito e di diffuso disappunto il divario tra le due culture, ma in tal caso si faceva riferimento alla scarsa comunicazione tra cultura scientifica e cultura umanistica. Ora, invece, nell’ambito della stessa cultura umanistica, sembra esserci incomunicabilità tra ricerca filosofica e ricerca storica, la quale ultima appare, agli occhi dei filosofi-sacerdoti del culto di Nietzsche, come la profanazione di un rito sacro.

Le rimozioni della «nuova destra» e della sinistra post-moderna

Emerge così tutta l’inconsistenza dell’accusa tradizionalmente rivolta a Lukács di aver ripreso, sia pur con un giudizio di valore contrapposto, il ritratto di Nietzsche tracciato da Baeumler. E’ un’accusa che ignora disinvoltamente da un lato Heidegger degli anni ’30, dall’altro tutta una serie di storici contemporanei.
Ai giorni nostri, in realtà, come la sinistra post-moderna anche la nuova destra tende a rimuovere le dichiarazioni più ripugnanti di Nietzsche: nel suo sforzo di acquisire nuova rispettabilità, essa si trova in forte imbarazzo dinanzi all’invocazione dell’«annientamento delle razze decadenti» e di «milioni di malriusciti». E’ quello che emerge con particolare chiarezza dalla recente traduzione italiana del libro al filosofo dedicato nel 1931 da Alfred Baeumler, che due anni dopo aderisce al partito nazista. Ed ecco che ora la Zucht e la Züchtung di cui parla Nietzsche diventano l’«addestramento». Il termine qui utilizzato ha qualcosa di militare e di guerresco e dunque si distingue dalla banale e filistea «educazione», il termine cui fanno volentieri ricorso i traduttori e interpreti post-moderni. Epperò, come l’«educazione» neppure l’«addestramento» riesce a spiegare il programma eugenetico del «nuovo partito della vita» caro a Nietzsche, che intende incoraggiare la prolificità delle coppie benriuscite, mentre auspica il divieto di matrimonio per i malriusciti e persino la loro «castrazione» o il loro «annientamento». E’ per questo che, con esplicito riferimento a Galton, il «nuovo partito della vita» non si limita a raccomandare l’«educazione» ovvero l’«addestramento» della razza dei signori e della razza dei servi, ma esige il loro «allevamento». Senonché, come per la sinistra post-moderna, anche per la nuova destra, che cerca di ridefinire il suo programma anti-egualitario in termini culturali piuttosto che naturalistici e biologici, l’eugenetica nietzscheana è qualcosa di ingombrante di cui conviene sbarazzarsi.
Analogamente, Übermensch viene reso, nella recente traduzione italiana di Baeumler, non con il tradizionale «superuomo» bensì con «sovrauomo». Anche in questo caso balza agli occhi l’analogia con la traduzione cara a Vattimo di «oltreuomo». Nel discorso di Zarathustra il «superuomo» rinvia alla «super-specie»: e di nuovo si affaccia l’ombra dell’eugenetica. Ma in agguato c’è un’ombra ancora più inquietante, l’ombra proiettata da una categoria centrale, e particolarmente funesta, del discorso ideologico nazista. Alludo alla categoria di Untermensch, che ben difficilmente può essere separata da quella di Übermensch: sono i due termini costitutivi di un’unica dicotomia concettuale. In effetti, a richiamare l’attenzione sul pericolo mortale che per la civiltà rappresenta l’Untermensch (la massa dei «selvaggi e barbari», «essenzialmente incapaci di civiltà e suoi nemici incorreggibili»), è un pubblicista che ha letto o orecchiato Nietzsche e che sulla sua scia, scimmiottandone anche il linguaggio e agitando gli stessi autori di riferimento, polemizza contro il «feticcio» ovvero l’«idolo» della «democrazia», evoca una «nuova aristocrazia» ovvero una «nuova nobiltà» ed esprime la sua ammirazione per Teognide e per la battaglia da lui condotta contro i matrimoni misti tra nobiltà e plebe. L’«oltreuomo» caro alla sinistra post-moderna ovvero il «sovrauomo» caro alla nuova destra viene invocato a operare il miracolo della rimozione, oltre che dell’eugenetica, anche e soprattutto dell’Untermensch!
C’è però un colpo di scena in questa vicenda linguistico-ideologica: l’autore di cui qui si parla non è un tedesco, bensì uno statunitense che ha studiato in Germania e che nel 1922 per primo conia il termine Under Man, sulla cui minaccia richiama l’attenzione già il sottotitolo del libro da lui pubblicato. E’ un libro subito tradotto in Germania: l’Under Man diviene così l’Untermensch, una categoria appassionatamente celebrata da Rosenberg, il quale riconosce il suo debito nei confronti di Lothrop Stoddard, l’autore statunitense in questione, al quale peraltro esprimono il loro plauso due presidenti americani, e cioè Harding e Hoover. Come si vede, l’alternativa all’ermeneutica dell’innocenza non è la linea retta di continuità da Nietzsche a Hitler! Prima ancora che al bolscevico orientale e asiatico, l’Untermensch preso di mira dall’ideologo statunitense rinvia ai neri e ai pellerossa oggetto, negli anni successivi alla fine della guerra di Secessione, di una violenza terroristica ovvero di pratiche genocide. Considerazioni analoghe si possono fare per l’altro termine della dicotomia concettuale qui analizzata. Agli inizi del Novecento vediamo un poeta inglese, John Davidson, per un verso richiamarsi con calore alla teoria del superuomo, per un altro verso criticarla a causa del suo carattere cosmopolitico. A Nietzsche era così sfuggita una verità fondamentale: «L'inglese è il superuomo e la storia dell’Inghilterra è la storia della sua evoluzione». Di opinione diversa è invece, in quello stesso periodo di tempo, un altro cantore dell’imperialismo, un autore italiano, Angelo Mosso, affascinato in modo tutto particolare dall’epopea del Far West: «il yankee rappresenta il superuomo».
E, dunque, per comprendere i motivi più ripugnanti della filosofia di Nietzsche (l’altra faccia del radicale e fascinoso progetto di emancipazione che egli pensa per l’élite ristrettissima della casta aristocratica e dei superuomini), non solo bisogna prendere le mosse dalla fine dell’Ottocento piuttosto che dal 1933, ma è da aggiungere che, prima di essere ereditata e radicalizzata dal nazismo, la torbida ideologia diffusasi a cavallo tra i due secoli investe, ben al di là della Germania, l’Occidente nel suo complesso.
Ritorniamo così alle «preoccupazioni» e alle domande inquietanti cui accennava Gadamer: non converrebbe riprenderle e ridiscuterle in una prospettiva nuova, piuttosto che ostinarsi a rimuoverle? Oppure gli occhiali e l’ombrello di Nietzsche continueranno ad avere il sopravvento?

TESTI CITATI. Alfred BAEUMLER (a cura di), Friedrich Nietzsche. Die Unschuld des Werdens, Leipzig, Kröner, 1931 (vol. I, p. 252); Nietzsche, der Philosoph und Politiker (1931), tr. it., a cura di Luigi Alessandro Terzuolo, Nietzsche filosofo e politico, Padova, Edizioni di Ar, 2003; Piero BAIRATI (a cura di), I profeti dell’impero americano. Dal periodo coloniale ai nostri giorni, Torino, Einaudi, 1975 (per la celebrazione in chiave imperialistica di Emerson, p. 242); Neil BALDWIN, Henry Ford and the Jews. The Mass Production of Hate, New York, PublicAffairs, 2001; Giuliano CAMPIONI, Il frammento scomparso, in «la Repubblica», 1 ottobre 2002, p. 43 (sui problemi della traduzione e sul § 229 di Al di là del bene e del male); Houston S. CHAMBERLAIN, Die Grundlagen des neunzehnten Jahrhunderts (1898), Ungekürzte Volksausgabe, München, Bruckmann, 1937, p. 328; Jacques DERRIDA, Éperons. Les styles de Nietzsche (1978), tr. it., di Giovanni Cacciavillani, Sproni. Gli stili di Nietzsche, Milano, Adelphi, 1991; Ralph Waldo EMERSON, Essays & Lectures, a cura di Joel Porte, New York, The Library of America, 1983, pp. 732-745, 950, 954 e 1084; Joachim C. FEST, Hitler. Eine Biographie, Frankfurt a. M. – Berlin – Wien, Ullstein, 1973 (per il giudizio di Elisabeth su Hitler, pp. 458-9); Elisabeth FÖRSTER-NIETZSCHE, Das Leben Friedrich Nietzsche’s, Leipzig, Naumann, 1895-1904 (per il rapporto Nietzsche-Emerson, vol. II, p. 176); Hans Georg GADAMER, Das Drama Zarathustras (1986), tr. it., di Carlo Angelino, Il dramma di Zarathustra, Genova, Il melangolo, 1991; Sossio GIAMETTA, Saggi nietzscheani, Napoli, La Città del Sole, 1998 (per la critica a Montinari, pp. 260-1); L’antisemitismo nostalgico di Nietzsche, in «Il Giornale», 31 gennaio 2002 (sulla «buona fede»); L’individuo scatenato, in «Il domenicale» del 12 aprile 2003, p. 7 (per la critica alla mia monografia su Nietzsche); Karl JASPERS, Philosophische Autobiographie (1977), Erweiterte Neuausgabe, München-Zürich, Piper, 1984 (per le «mani» di Hitler, p. 101); «la Repubblica», Quale Nietzsche è stato censurato, 27 dicembre 2002, p. 39; Michael LOPEZ, La retorica della guerra in Emerson, in Giorgio Mariani (a cura di), Le parole e le armi. Saggi su guerra e violenza nella cultura e letteratura degli Stati Uniti d’America, Milano, Marcos y Marcos, 1999 (per la lettura critica di Emerson dopo la guerra contro il Vietnam, p. 198); Domenico LOSURDO, Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico», Roma, Gamberetti, 1977, per il riferimento a Angelo Mosso, p. 82); Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Torino, Bollati Boringhieri, 2002 (per il quadro generale); Intervista immaginaria. Nietzsche, l’innocenza e l’indignazione, in «Belfagor» del 30 novembre 2002; Ernst NOLTE, Der Faschismus in seiner Epoche (1963), tr. it., di Francesco Saba Sardi e Giacomo Manzoni, I tre volti del fascismo, Milano, Mondadori, 1978, p. 617); Gianni VATTIMO, Anticipatore di Nietzsche ci aiuta a capirlo meglio, in «La stampa», 25 maggio 2003, p. 19 (per il confronto Emerson-Nietzsche); Wilhelm VOLLRATH, Th. Carlyle und H. St. Chamberlain, zwei Freunde Deutschlands, München, Lehmanns, 1935.

SocialTwist Tell-a-Friend
Feed Filosofia.it

Cerca tra le risorse

AUDIO



Focus

  • Laicità e filosofia Laicità e filosofia
    Che cosa significa essere laici nel nostro Paese, dove forte è l'influenza politica della Chiesa? Grandi personalità del pensiero e della cultura riflettono, per la prima volta insieme, su questa questione...
    vai alla pagina
  • 1
  • 2

_______________________________________________________________________________________________________________________________________________
www.filosofia.it - reg. ISSN 1722 -9782  Tutti i diritti riservati © 2016