Intervista sulla multimedialità

Renato Parascandolo

 

 

 

 

Intervista sulla multimedialità
a Renato Parascandolo

a cura di Teodosio Orlando



1) Teo Orlando: Mi piacerebbe cominciare questa conversazione con una definizione del concetto di “multimedialità”. In varie occasioni Lei si è contrapposto all’uso prevalente di questo termine che contemplava due diverse accezioni: quella dell’informatica di consumo, dell’editoria elettronica e dei produttori di personal computer, e quella delle multinazionali delle telecomunicazioni. Ci vuole parlare della sua posizione?

Renato Parascandolo: Comunemente viene definito multimediale un processo di convergenza di prodotti provenienti da molti media (il disco, la musicassetta, la videocassetta, il libro, la fotografia, la pellicola cinematografica) su un supporto digitale, che può essere off line (Cd rom, Dvd, ecc.) oppure on line (Internet). Questo processo di convergenza è un processo che possiamo definire centripeto, poiché in questo caso i contenuti convergono dalla periferia verso il centro per amalgamarsi o giustapporsi su un medium digitale. Ma io credo che la multimedialità non esaurisca le novità insite nella rivoluzione digitale, perché negli ultimi vent’anni, insieme alla nascita e allo sviluppo tumultuoso dei new media, dai Cd rom ai telefonini, abbiamo assistito a un processo altrettanto rilevante sebbene meno appariscente: la digitalizzazione di tutti i media tradizionali, dai giornali alla televisione. Bisogna, infatti, ricordare che già nel 1978 i più importanti quotidiani italiani - la Repubblica e il Corriere della Sera - erano informatizzati, nel senso che tutta l’organizzazione del lavoro redazionale, la trasmissione a distanza di testi e immagini e la stessa composizione tipografica erano profondamente influenzate dalla rivoluzione digitale. A vent’anni di distanza possiamo dire che il giornale è un medium completamente digitalizzato, in quanto è non solo prodotto con tecnologie numeriche ma è anche distribuito, in maniera crescente, in modalità on line: probabilmente, nel giro di poco tempo, la parte cartacea, che comunque è diventata superflua in linea di principio, addirittura scomparirà. La stessa cosa è successa con la televisione. La televisione digitale è ormai una realtà: una legge fissa al 2006 la data in cui in Italia tutta la televisione sarà digitale. Quindi la vera rottura, oserei dire la vera rivoluzione, sul piano tecnologico è stata certamente segnata dai new media, ma ancora più radicale è stato il passaggio dall’analogico al digitale, che ha prodotto la digitalizzazione di tutti i media e ha aperto una nuova strada, prima assolutamente inaccessibile: questa strada ci consente di far dialogare prodotti e opere che provengono da media diversi e da supporti diversi: la tela di un dipinto, la carta su cui è scritto un poema, la celluloide di un film, il nastro magnetico su cui è incisa una sinfonia, ecc. Infatti, grazie alla convergenza multimediale, noi abbiamo la possibilità di far dialogare mezzi e opere tradizionalmente incommensurabili tra di loro.

2) Teo Orlando: Alle due accezioni ricordate prima, Lei ha contrapposto una terza, che potremmo definire anche “multimedialità forte” e che in qualche modo ingloberebbe e supererebbe le altre due, per la quale ha coniato il termine di “intermedialità”…

Renato Parascandolo: Nel processo centripeto di cui parlavamo prima avevamo tanti prodotti provenienti da molti media, che convergevano su un medium digitale. Adesso, al centro di questo disegno, invece di collocare un medium, mettiamo un contenuto. Se noi ci assegniamo il compito di diffondere questo contenuto, dobbiamo anche immaginare le forme in cui si dovrà sviluppare la sua “circolazione” (non uso a caso questo termine). Potremmo presentare un caso concreto, quello dell’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, un’opera iniziata nel 1987, quando i Cd rom ancora non erano in circolazione e pochi al mondo conoscevano l’esistenza di Internet. Il contenuto, la materia prima di quest’Enciclopedia è costituita da circa duemila interviste-lezioni televisive, della durata media di un’ora ciascuna, a filosofi, scienziati ed economisti di tutto il mondo. Se di volta in volta condisco questa materia prima con gli ingredienti giusti per confezionare prodotti destinati a media diversi, che hanno linguaggi diversi, ma anche pubblici diversi o quanto meno poco omogenei, io riesco con lo stesso contenuto a ottenere una molteplicità di prodotti, ciascuno dei quali avrà un suo linguaggio specifico. Uno punterà di più sulla divulgazione, un altro sulla suggestione, un altro ancora sull’approfondimento. In tal modo io avrò ottenuto da uno stesso contenuto dieci prodotti che parlano dello stesso argomento: tuttavia, lo fanno, secondo i casi, nelle forme più proprie alla televisione generalista o alla televisione tematica, ad Internet, al Cd rom, al Dvd, al libro, ecc. Ora, questo è un processo che possiamo definire centrifugo, perché partendo da un contenuto lo abbiamo fatto “esplodere” e lo abbiamo distribuito su tutto l’arco dei media. Ora, se io metto in contatto e faccio dialogare i diversi media, facendoli anche interagire in modo che il fruitore possa spaziare da un medium all’altro fino a percorrere l’intero circuito intermediale, egli potrà ottenere un approfondimento dei contenuti che nessun medium, da solo, avrebbe potuto garantirgli.

Ecco un esempio: un telespettatore vede un programma di filosofia, su Rai Tre, nel corso del quale c’è un intervento di Umberto Eco. Alla fine della trasmissione, si fa scorrere un cartello in cui si dice: se si vogliono approfondire i temi affrontati in questa trasmissione, si può andare sul canale satellitare Rai-cultura dove si trova l’intervista integrale ad Umberto Eco. Mentre ascoltiamo il semiologo, appare una scritta che ci invita a visitare il sito Internet di quel programma dove troveremo decine di altre interviste, una dettagliata bibliografia e i link con tutti gli altri siti di filosofia presenti in rete che affrontano lo stesso tema. Sullo stesso sito scopriremo che sono in vendita le videocassette, i Dvd e i Cd-rom di Eco.

Ecco come funziona quella che io chiamo “giostra intermediale”: un carosello imperniato sui contenuti con i media che gli ruotano intorno e si rincorrono l’un l’altro; un processo centrifugo in quanto i contenuti si diffondono dal centro alla periferia, al contrario di quanto avviene con la multimedialità tradizionale. Poiché qui siamo in presenza di una interazione tra i media, preferisco parlare di intermedialità, non più di multimedialità, come era giusto chiamarla nella sua prima accezione, quella centripeta.

3) Teo Orlando: Il primo risultato tangibile della intermedialità è stata l’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, un’opera, come Lei ha ricordato, nata verso la metà degli anni Ottanta e che contiene, attualmente, oltre duemila interviste-lezioni a filosofi, scienziati, economisti, storici e uomini di cultura di trentacinque paesi del mondo…

Renato Parascandolo: Potremmo dire che alla base della Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche c’è stata la volontà di rispondere ad una questione che considero fondamentale: come fosse possibile nell’epoca della riproducibilità digitale delle opere - e non mi riferisco soltanto alle opere d’arte - stringere una nuova alleanza tra l’alta cultura e i mezzi di comunicazione di massa, che andasse al di là della mera divulgazione, che è sempre semplificatrice, e a volte francamente banalizzante.

Quindi la prima intuizione da cui è nata l’Enciclopedia è stata quella di far dialogare alta cultura e mezzi di comunicazione di massa, lasciandosi alle spalle l’idea della semplice divulgazione di nozioni scientifiche o culturali, cui è destinata necessariamente la programmazione televisiva tradizionale, quella che oggi chiamiamo la programmazione televisiva generalista, nella misura in cui essa è rivolta a tutti. Non dimentichiamo però che la televisione e la radio hanno avuto un grande merito, quello di rendere accessibile l’informazione anche a chi era analfabeta. Pertanto, se, per un verso, ha promosso l’alfabetizzazione e la partecipazione civile dei cittadini, che hanno potuto prendere cognizione di quello che accadeva nel mondo, per un altro verso sicuramente la televisione non ha favorito la diffusione dell’alta cultura - né era suo compito -, anche perché è un mezzo che affida i suoi contenuti a un flusso irripetibile rigidamente predeterminato dal palinsesto. Concetti troppo complessi che meritano molta attenzione ed esigono di essere riascoltati non possono evidentemente essere veicolati da un medium di flusso che non mi consente di tornare indietro, come invece accade con la videocassetta, o di rileggere la pagina, come è il caso del libro.

La televisione, diffondendo notizie, informazioni e conoscenze, ha conseguito in passato eccellenti risultati. Cinquant’anni fa con “Non è mai troppo tardi” ebbe luogo una grande operazione di alfabetizzazione degli italiani, rinnovata recentemente da Piero Angela per quanto riguarda l’educazione scientifica. Con l’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche si è pensato di fare un passo avanti, di rivolgersi a quel pubblico che, avendo già un’educazione scolastica da scuola media inferiore o superiore, potesse accedere anche ai temi e ai problemi della cultura più elevata, come la filosofia.

La seconda intuizione è stata quella di concepire un’opera modulare, ma nel senso del lego piuttosto che del puzzle: ogni pezzetto del lego è un modulo non indefinito, come la tessera del puzzle, ma polifunzionale, con cui posso costruire diversi oggetti - una casetta, un alberello, un ponte -, per poi smontare tutto e ricominciare da capo a costruire altri oggetti: l’importante è che ognuno di questi oggetti, che andrà a far parte di un paesaggio complessivo, abbia già di per sé un senso, un’autonomia funzionale.

Questa è stata la seconda intuizione: non ho pensato a un’enciclopedia intesa soltanto come un’opera di consultazione, cosicché, se manca anche un solo volume, l’opera perde il suo senso. Ho pensato piuttosto alla creazione di tante opere ciascuna delle quali avesse un suo piano dell’opera: in questo modo possiamo disporre di una o più versioni dell’opera su videocassette, uno o più programmi televisivi, uno o più Cd rom, una o più collane di libri, a partire da un’unica materia prima, ossia dai pezzetti del lego. I pezzetti del lego, i “mattoni” con cui è stata costruita l’Enciclopedia, sono le singole domande-risposte delle interviste che si possono pertanto scomporre e ricomporre per dare luogo di volta in volta a prodotti diversi. Questo è un concetto fondamentale perché alla base di un’Enciclopedia Multimediale così intesa non c’è più un piano dell’opera, ma una mappa dei temi in cui vengono determinati in precedenza gli argomenti fondamentali, la cornice concettuale e i singoli soggetti che dovranno essere trattati dall’opera; la mappa rinvia a tanti singoli piani dell’opera corrispondenti ad altrettanti prodotti che verranno realizzati attingendo alla mappa.

Il vantaggio che ne deriva è che, partendo ogni volta dalla materia prima, cioè dai contenuti, io non ho nessun vincolo rispetto alla creazione di nuovi media, perché ogni volta che nasceranno nuovi media, con i loro linguaggi, i loro standard di trasmissione, i loro utenti, il loro pubblico, io potrò adattare di nuovo quella materia prima ai media di nuova creazione.

Torna utile qui l’esempio di un medium analogico come il cinema: se devo produrre un film, comincio con lo scrivere la sceneggiatura; in un certo senso so esattamente che cosa voglio fare e girerò tutte le scene e soltanto quelle che mi serviranno per trasformare in immagini la sceneggiatura. Non girerò immagini che non siano previste della sceneggiatura. Soltanto un cattivo regista farebbe una cosa del genere. Immaginiamo, allo stesso modo, un documentarista che vada alla Galleria degli Uffizi per realizzare uno speciale su Leonardo e che, invece di riprendere solo le opere di Leonardo, riprenda anche quelle di Raffaello o di Piero della Francesca o di Botticelli: sicuramente farebbe una cosa inutilmente dispendiosa. Un bravo documentarista si limita a riprendere ciò che gli serve per il prodotto finale, per quel prodotto finale. Invece, lavorando con il criterio dell’Enciclopedia Multimediale, come adesso l’ho esposto, cioè con la mappa dei temi, se io vado a Firenze per girare agli Uffizi, riprenderò non solo Leonardo, perché in quel momento sto realizzando un prodotto su Leonardo, ma coglierò l’occasione per fare la ripresa di tanti altri quadri, allo scopo di realizzare in futuro, su un altro medium probabilmente, altri documentari previsti dalla mappa dei temi. Naturalmente la mappa dei temi deve essere ben circoscritta, perché altrimenti diventa un bazar; tuttavia, una volta che ho definito, come nel caso della filosofia, quali sono i temi che devo affrontare - l’etica, l’estetica, la religione, la fisica ecc. -, e da un punto di vista storico i periodi che devo prendere in considerazione, a quel punto avrò delle caselle “vuote” che potrò riempire con i contenuti che di volta in volta acquisisco; quando avrò riempito l’intera mappa dei temi potrò realizzare prodotti per i media esistenti, senza vedermi preclusa la possibilità di utilizzare la stessa materia prima per i media che verranno.

L’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche è un laboratorio di sperimentazione di nuovi linguaggi, nuove tecnologie e modelli organizzativi. Questa ricerca non è fine a sé stessa ma è finalizzata ad un obiettivo preciso: diffondere la filosofia nel mondo sulla base dell’alleanza, cui accennavo prima, fra alta cultura e universo dei mass media. Un’impresa ardua ma confortata da un paradosso: la cultura infatti è l’unico bene dell’umanità che invece di diminuire, poiché ciascuno ne riceverebbe solo una parte, diventa più grande se molti vi partecipano. Questa peculiarità della cultura, che spiazza le rigide leggi del mercato, forse può spiegare perché quest’opera sia nata all’interno della Rai piuttosto che in una televisione commerciale. La Rai, in modo accorto, senza trascurare gli esiti commerciali peraltro già tangibili e prima ancora di qualunque altro ente televisivo europeo, americano o giapponese, ha dimostrato ancora una volta di saper svolgere un’insostituibile funzione etico-civile legata alla sua vocazione di pubblico servizio.

Noi abbiamo avuto il tempo di sperimentare, di commettere errori e di porvi rimedio. Soprattutto abbiamo avuto il tempo di riflettere criticamente su ciò che stavamo facendo fino a delineare un nuovo paradigma ideativo-produttivo che coniugasse la natura della Rai-azienda, che opera sul mercato, con quella della Rai-servizio-pubblico che deve promuovere la crescita culturale dei cittadini. Ma tutto ciò è avvenuto nell’enclave nascosto di un territorio traversato da quiz demenziali e lottizzazioni selvagge in cui l’unico criterio professionale nella scelta dei dirigenti era l’“affidabilità” e in cui le sentenze degli indici d’ascolto erano più ineluttabili di quelle dell’oracolo di Delfi. Questa condizione di cattività che, a dire il vero, ha trovato maggiore solidarietà nei vertici aziendali che nei quadri burocratici intermedi, se per un verso ha costituito una sorta di protezione, per un altro verso ne ha limitato la visibilità. E questo spiega, in parte, perché ancora non ci siano stati tentativi di imitazione.

4) Teo Orlando: Riprendiamo un attimo la nozione della mappa dei temi, cioè l’universo degli argomenti che verranno trattati, necessariamente molto vasti, sicché non si possono determinare a priori tutte le modalità del loro svolgimento. In effetti, prerogativa di questa materia prima multimediale è la sua fungibilità indefinita. Si potrebbe dire che l’opera è fungibile, ma non nel senso in cui lo era l’opera d’arte per Walter Benjamin, il quale parlava piuttosto di fungibilità dell’opera d’arte sotto l’aspetto della sua riproducibilità tecnica. Naturalmente il filosofo tedesco vedeva in ciò un limite, nel senso di qualcosa che finiva per degradare l’opera d’arte, mentre noi qui non possiamo certo parlare di degradazione, ma semmai di moltiplicazione virtuosa, per così dire. Può chiarire questo punto, riprendendo quanto ha appena detto?

Renato Parascandolo: Sicuramente nel passaggio dalla riproducibilità tecnica alla riproducibilità digitale avvengono dei fatti nuovi, che prima non erano possibili. Nella riproducibilità tecnica viene sottratta all’opera la sua aura, mentre nella riproducibilità digitale noi possiamo, in un certo senso, restituire all’opera la sua aura, per lo meno un’aura virtuale, perché non dobbiamo dimenticare che il 95% delle opere d’arte - l’Italia è un’eccezione da questo punto di vista - è stato già sottratto alla sua aura originale, dal momento che si trova nei musei. E i musei sono dei luoghi assolutamente accidentali, dove, tranne che in casi eccezionali, come la Galleria Borghese di Roma, quasi mai un quadro è stato commissionato all’artista per essere collocato all’interno proprio di quel museo e su quella precisa parete dell’esposizione. Ne consegue che il museo è una specie di zoo - Michel Leiris lo paragonava al bordello - dove si trovano tanti quadri disposti in collezioni che nascono casualmente dal fatto che ci sono stati acquirenti e ricercatori che si sono procurati collezioni o singoli pezzi. Ai tempi di Benjamin siamo già di fronte a una perdita dell’aura da parte dell’opera d’arte. Adesso invece, con gli esperimenti che abbiamo fatto di recente, ad esempio con i quadri di Caravaggio, siamo in grado di riprodurre non solo il quadro di Caravaggio, ma anche il contesto all’interno del quale o per il quale era stato creato.

5) Teo Orlando: C’è comunque un contenuto pedagogico nell’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche.Come vede il suo utilizzo nelle scuole e in generale che rapporti vede tra la televisione e il mondo della scuola?

Renato Parascandolo: Io a questo punto non parlerei più di televisione, ma parlerei di media in generale: la televisione infatti non è il mezzo più adatto per diffondere conoscenze e saperi, per il motivo, che abbiamo menzionato prima, del suo carattere di flusso, della sua irripetibilità e per la diffusione del segnale televisivo che arriva indistintamente a tutti, anche a persone che non sono motivate ad ascoltare e tanto meno a imparare qualcosa. Parlerei dunque del rapporto tra i mezzi di comunicazione di massa e la scuola. Ora, sicuramente la rivoluzione digitale ha espresso una potenzialità, producendo una moltiplicazione degli strumenti e dei sussidi utili per la didattica. In passato, grosso modo si aveva a disposizione soltanto il libro, qualche volta una lavagna luminosa e un proiettore di diapositive; oggi invece noi abbiamo la possibilità, grazie alla digitalizzazione dei media tradizionali, di utilizzare attraverso un computer la fotografia, il documentario televisivo, il cinema, cioè tutte quelle forme espressive dell’arte, della narrazione e della saggistica, che prima erano praticamente inaccessibili allo studente, sia a scuola, sia a casa.

Tuttavia, io credo che bisognerebbe evitare due errori nell’uso dei nuovi media per la didattica.

Il primo è quello di considerare questi media alternativi alla didattica in aula. È una tentazione molto forte, soprattutto quando si tratta di fare corsi di formazione rivolti a decine di migliaia di persone contemporaneamente. È evidente che c’è un risparmio talmente straordinario nella formazione a distanza rispetto alla formazione in aula che si è tentati di sostituire quest’ultima con la prima. Questo è il primo errore enorme da evitare, perché il dialogo, cioè il vero valore dell’istruzione, ossia il rapporto tra il docente e il discente, è un rapporto che non si esaurisce nella trasmissione di nozioni: è un rapporto anche e sempre educativo, che non si può limitare alla valutazione, ma si svolge anche sul piano del metodo, dell’argomentazione, della capacità di giudizio e del gusto, tutti aspetti che si possono sviluppare soltanto attraverso il dialogo.

Il secondo errore è quello di pensare di poter risolvere o attenuare la crisi che investe il sistema scolastico in tutto il mondo con il palliativo dei computer e dei nuovi sussidi didattici. Io credo che bisognerebbe utilizzare le potenzialità enormi espresse dai new media nella didattica, non per razionalizzare la scuola, ossia il modello di apprendimento scolastico così com’è, ma, al contrario, per scalzarlo, per rivoluzionarlo. Non deve essere, ripeto, uno strumento di razionalizzazione, ma uno strumento di rottura di una crosta che si presenta incredibilmente dura. Mi permetto di addurre un esempio. Se prendessimo un chirurgo di un secolo fa e lo facessimo entrare in una sala operatoria di oggi, io credo che rimarrebbe sgomento, non si renderebbe forse neanche conto di trovarsi in una sala operatoria. Poi probabilmente non saprebbe fare assolutamente nulla di quello che è possibile fare oggi e quindi non sarebbe in grado di operare. Ad ogni modo, si troverebbe davanti a un’organizzazione della sala operatoria radicalmente mutata, con cinque o sei assistenti, tecnologie avanzatissime, ecc. Allo stesso modo possiamo immaginare di far entrare in una scuola di oggi un insegnante di un secolo fa: credo che si troverebbe perfettamente a suo agio, non si accorgerebbe neanche che sia cambiato qualcosa. Questo ci fa rendere conto delle potenzialità che ci potrebbero essere nella didattica multimediale, ma che non vengono assolutamente sfruttate, oppure vengono innestate su una struttura antiquata e non sortiscono alcun effetto, se non quello di rendere un po’ meno noiosa la lezione tradizionale.


6) Teo Orlando: Riprendiamo l’argomento del rapporto tra filosofia e televisione: si può evidenziare la dialettica che intercorre tra rigore scientifico da una parte e esigenze divulgative dall’altra - dialettica che un’opera del genere necessariamente implica? In buona sostanza, che cosa ha significato occuparsi di filosofia per la televisione?

Renato Parascandolo: Prima di tutto facciamo una considerazione di questo tipo: fino ad oggi la televisione e tutti i mezzi di comunicazione di massa - lo dice la stessa espressione “di massa” - si sono rivolti a quella che io ho definito “opinione di massa”, cioè qualcosa che non è una semplice estensione dell’opinione pubblica borghese, come ce l’ha descritta Jürgen Habermas trent’anni fa nel suo celebre saggio Storia e critica dell’opinione pubblica: si intendeva con tale espressione quella frazione colta della borghesia che attraverso l’uso della stampa e la diffusione dei libri, grazie cioè a Gutenberg, riesce a dialogare, a coagulare interessi, visioni del mondo, ideologie politiche, e che poi genera quella che possiamo chiamare una religione civile, il cui breviario, come diceva Hegel, è il giornale quotidiano. Tutto questo non ha niente a che fare con l’opinione di massa, di cui parlo io, perché l’opinione pubblica borghese, mi preme sottolinearlo, era in realtà un’élite, non aveva alcun carattere di massa, nel senso che era circoscritta a quelli che sapevano leggere e scrivere; ancora più ristretto era il numero di coloro che potevano accedere ai giornali, che potevano scrivere un articolo sui giornali, che si potevano permettere di scrivere un libro, avendo un editore che glielo pubblicasse ecc. Soprattutto era un’opinione pubblica cresciuta intorno alla sfera argomentativa. Tutto quello che si trasmetteva a livello comunicativo doveva essere argomentato. Penso al J’accuse di Émile Zola scritto in occasione dell’affaire Dreyfus: lì tutto è argomentato. La suggestione, la propaganda fine a sé stessa, la superficialità, erano estranee all’opinione pubblica borghese. E ancora oggi, se noi leggiamo dei quotidiani come la Repubblica, il Corriere della Sera, Il Sole-24 Ore, notiamo che c’è uno sforzo continuo del giornalista di riferire la notizia nel modo più dettagliato e in più di aggiungere dei commenti, che poggiano su argomentazioni forti e sulla ricerca delle ragioni, che mettono in opera una complessa arte retorica.

La radio e la televisione non possono offrire nulla di tutto questo: sono il regno dell’approssimazione, proprio perché sono strumenti nati per rivolgersi alle masse, anche alle masse analfabete, o in genere a masse marginalizzate rispetto alla vita civile. Sono mezzi che hanno nella loro natura il germe - per così dire - della suggestionabilità, perché il loro modo di comunicare non passa attraverso l’argomentazione. Per questo ci vuole la carta stampata, o anche la possibilità di rivedere e riascoltare quello che si dice: tutte cose che la televisione e la radio, come dicevo prima, non consentono. Ma con la radio e con la televisione si è venuta a creare una nuova situazione; non solo possono essere viste e ascoltate da tutti, ma tutti vi possono essere protagonisti. Infatti, chiunque può parlare alla radio e alla televisione, mentre l’analfabeta non poteva certo scrivere su un giornale. Dunque questi due mezzi hanno creato un’opinione di massa che, a mio parere, non ha nulla a che fare con l’opinione pubblica borghese, cioè non ne rappresenta un allargamento o un’estensione; anzi, è addirittura, politicamente e culturalmente, l’opposto dell’opinione pubblica borghese. È lo strumento attraverso il quale si è ottenuta, nell’arco di oramai quasi un secolo, una manipolazione delle masse, da parte soprattutto della politica - e da parte dell’economia, attraverso gli spots pubblicitari -, che non ha precedenti. Quindi le masse che, proprio in virtù della loro ignoranza e della loro estraneità alla vita pubblica, sono sempre state masse di manovra, lo sono diventate ancora di più dal momento in cui sono state create la radio e la televisione. Non è un caso che il fascismo e il nazismo si siano accorti di questa potenzialità della radio e l’abbiano sfruttata a pieno. Ancora oggi noi vediamo quante ferite possano essere inferte allo Stato di diritto dal controllo dei mezzi di comunicazione di massa: nonostante si sia imposta la scolarizzazione diffusa e si possa constatare una sensibilità maggiore dei cittadini, una fascia sempre troppo larga della popolazione è collocata ancora all’interno di questa opinione di massa che viene creata con gli strumenti della suggestione, piuttosto che con gli strumenti dell’argomentazione, come avviene con i giornali. Quindi, la crisi dei giornali e dei libri è al tempo stesso crisi della democrazia.

Questo è un discorso preliminare importante, perché entrare nell’universo dell’opinione di massa, per cercare di portarvi le regole e gli strumenti tipici dell’opinione pubblica borghese, e in primis l’argomentazione, tipica del discorso filosofico, è stato senza dubbio un’operazione coraggiosa e insolita. Nessuno aveva mai pensato di “osare tanto”. Tant’è che se si va a vedere e spulciare, come io ho fatto all’inizio del lavoro che ho intrapreso, in tutte le cineteche delle televisioni pubbliche del mondo (per non parlare di quelle private, dove naturalmente non avremmo trovato nulla), tranne qualche rarissima eccezione rappresentata dalla BBC e dalla vecchia ORTF francese, si trovano pochissimi programmi di filosofia. Oggi la Rai, grazie all’Enciclopedia Multimediale, ha trasmesso in prima emissione circa cinquemila ore di filosofia in tredici anni. Attraverso le repliche si sale a venti-trentamila ore di trasmissione; in più abbiamo in commercio più di cento videocassette di filosofia, alcune delle quali tradotte in inglese in francese, in giapponese, in coreano, un Cd-Rom e un sito internet, che probabilmente è il più importante sito italiano di filosofia.

7) Teo Orlando: Qui si ripresenta anche in modo quasi necessario il vecchio tema platonico della dicotomia tra oralità e scrittura, a cui prima Lei accennava. Certamente l’intervista a un filosofo può essere, quando è ben realizzata, un dialogo maieutico, vivo e intenso, tra lui e l’intervistatore. Ma una volta registrata e archiviata, diventa inerte e autoritaria, o almeno rischia di diventarlo, come la pagina di un libro. Non è più suscettibile di offrirsi realmente al dialogo. Ancora più sottilmente potremmo dire che, una volta elaborata in formato intermediale (Cd- Rom, Internet ecc.), l’intervista può anche dare l’illusione del dialogo, della comunicazione viva, “in carne ed ossa”, come direbbero i fenomenologi; ma questo non è che l’ennesimo inganno della cultura di massa, come aveva capito Adorno, di cui esiste una preziosa intervista rilasciata a Umberto Eco, che è quasi un precorrimento dell’Enciclopedia Multimediale. Come valuta questo giudizio?

Renato Parascandolo: Non sono d’accordo. Per quanto riguarda la comprensibilità, quindi la circolazione dei saperi, è evidente che il filosofo, che viene messo di fronte alla telecamera, è stato “costretto” da noi a parlare non tanto ai suoi colleghi, o ai suoi studenti universitari, quanto a un target generico che, senza fare demagogia, abbiamo individuato in un pubblico con la licenza media o media superiore, che attinge molte delle sue conoscenze proprio - anche se non esclusivamente - dalla televisione. Ma si commette un grave errore quando si tenta di distinguere tra mezzi di comunicazione interattivi e mezzi di comunicazione passivi. Per mezzi di comunicazione interattivi intendiamo appunto quegli strumenti che, grazie alla rivoluzione digitale, consentono un dialogo tra l’uomo e la macchina, così come è stata progettata da un altro uomo: si tratta della possibilità da parte di chi si confronta con il testo ipermediale, collegato con immagini e suoni, di poter incidere su quelle immagini, su quei suoni e su quei testi per darne una sua interpretazione attiva, cioè per modificarli. Ora, io credo però che questo tipo di interattività sia un tipo di interattività molto debole. Prima di tutto perché la vera interattività è quella del dialogo tra due o più persone: siamo in presenza di un confronto dialettico dove ci sono spesso anche delle contrapposizioni e dove quindi si può sviluppare in senso hegeliano una sintesi, andare cioè al di là delle posizioni di ciascuno. Un dialogo tra due persone è un’avventura: quando si è in buona fede, quando non si hanno posizioni pregiudiziali, non si sa dove si va a finire. Quindi potremmo dire che l’interazione che viene dal computer, cioè il rapporto uomo-macchina, è un’interazione debole rispetto al dialogo. Del resto, quando parliamo di dialogo, che cosa intendiamo? Non certo un chiacchericcio vacuo. Talvolta è capitato a ciascuno di noi di incontrare degli scocciatori, che continuano a parlare a lungo di qualcosa che non ci interessa. Noi a quel punto ci distraiamo, pensiamo ad altro e diamo delle risposte stereotipate: il dialogo è puramente formale, non avviene nessuno scambio. Ma il dialogo è prima di tutto un’osmosi, una comunicazione di concetti, di stati d’animo: dunque non può essere un fatto meramente tecnico. Quello che c’è di veramente sostanziale nel dialogo tra due persone non è il fatto tecnico che stiamo parlando, perché potremmo anche parlare a vuoto; c’è invece dialogo quando ciò che l’altro dice ha un’influenza su ciò che io sto pensando o pensavo prima di parlare con quella persona. Voglio andare ancora più a fondo: se io cambio idea rispetto a ciò che pensavo prima, grazie a quanto mi ha detto il mio interlocutore, è perché in quel momento io ho fatto una riflessione su ciò che lui mi ha detto. Quindi il vero dialogo, in ultima istanza, è la riflessione. Se non c’è riflessione su ciò che mi viene detto, non c’è dialogo. E la riflessione - lo dice la parola stessa - è un dialogo con me stesso. Io, mettendo a confronto ciò che pensavo prima con ciò che ho assimilato e che quindi penso adesso, opero un cambiamento nel mio modo di pensare. Ora, se la riflessione è la vera ed esclusiva forma di dialogo (considerando tutto il resto come le cause che producono la riflessione, o i suoi effetti), allora non c’è più nessuna differenza tra un medium interattivo e un medium cosiddetto passivo. Infatti, se io leggendo Il Capitale di Marx o I Malavoglia di Verga acquisisco delle nozioni, o vengo a conoscere una storia, in modo tale che quella storia mi modifica, cioè mi impone di riflettere su quello che ho letto e cambia il mio modo di pensare o lo arricchisce, allora io ho interagito con quei libri molto di più di quanto non interagisca con un videogioco. Pertanto, se noi poniamo la questione nel modo giusto, in termini di interazione forte, per usare un’espressione mutuata dalla fisica, invece che di interazione debole, allora non c’è più una distinzione tra media interattivi o meno, ma tra contenuti che sono in grado di suscitare in me una riflessione, e contenuti che non sono in grado di farlo. Quindi, io riporterei ancora una volta il discorso sull’interattività dal piano dei mezzi al piano dei contenuti. Pertanto non parlerei di autoritarismo, come facevano Adorno e la Scuola di Francoforte, perché la possibilità di mettere in moto il mio cervello, contenuta nella lettura di un libro, è propriamente ciò che lo rende interattivo. Non c’è niente di autoritario, se quel libro non è un vangelo, ovvero se non è qualcosa che io debba apprendere come un testo sacro. Se invece lo leggo in quel modo, allora sono io che sono limitato. Ne consegue che la distinzione tra media interattivi e media che non lo sono risulta assolutamente opinabile. Piuttosto direi che il linguaggio scritto, per il solo fatto di essere codificato da una grammatica, da una sintassi e da uno stile, è un linguaggio che per sua natura presenta dei limiti. La comunicazione in generale è un fatto molto complesso, nel senso che si avvale di numerosi fattori: mentre la comunicazione scritta si avvale di un solo elemento, il grafema, la comunicazione verbale non è soltanto una comunicazione più a portata di mano, ma è anche una comunicazione che si arricchisce dei gesti, delle espressioni del viso, degli sguardi, della tonalità della voce. Ne deriva che l’intervista televisiva ha qualcosa di meno rispetto a un testo scritto, perché spesso il suo linguaggio è meno preciso, ma anche molti elementi in più, perché nell’oralità emerge un sapere che si esprime anche attraverso un páthos e non solo attraverso un lógos.

8) Teo Orlando: La televisione, con buona pace di Popper, può contribuire potentemente a diffondere in modo democratico la cultura. Vede analogie tra questa fase e quella in cui la televisione ha alfabetizzato gli italiani, come Tullio De Mauro non si stanca di ripetere? Peraltro Lei stesso, nel suo saggio La televisione oltre la televisione, pubblicato dagli Editori Riuniti, sostiene che “la separazione tra televisione di massa e televisione d’élite potremmo definirla, con un termine fuori moda, ‘classista’, in quanto offrirebbe cultura a chi già la possiede ed è provveduto di risorse economiche”. Dato che solo l’impianto per la ricezione della TV satellitare digitale senza l’abbonamento annuale alla pay tv costa circa 500 euro, di questa offerta qualitativamente superiore si avvantaggerebbero in pochi, mentre le “masse incolte” rimarrebbero abbandonate al loro destino.

Renato Parascandolo: Precisiamo prima questo concetto. Ci sono mezzi di comunicazione molto popolari, come la televisione generalista, di cui si può usufruire gratuitamente - parlo di quella pubblica - solo pagando il canone che costa poco più di un quarto di euro (500 lire) al giorno. Ci sono mezzi invece che bisogna acquistare, come per esempio la televisione digitale, anche se pubblica, perché il decoder digitale e la parabola oggi costano effettivamente sui 400 euro. Che cosa succede, invece, per quello che riguarda la televisione pubblica? I sostenitori di una televisione pubblica di qualità spesso quando parlano di qualità pensano a ciò che, in quanto intellettuali, amerebbero vedere alla televisione: parlano di una televisione fatta di film d’autore, di inchieste giornalistiche sulla politica estera, o comunque di programmi d’arte e di cultura: sono persone che sicuramente esprimono una richiesta legittima. Ma se noi generalizzassimo questa richiesta, ci troveremmo di fronte a una televisione pubblica che avrebbe un ascolto non superiore al 3% di tutto il pubblico che in quel momento sta guardando la televisione - quello che si chiama share. È evidente che inevitabilmente quel buon 30% della popolazione che, nel nostro paese, ha soltanto la licenza elementare si terrebbe lontano da un programma di questo genere. Quindi, se noi per qualità dei programmi televisivi intendessimo soltanto i programmi di natura culturale, faremmo in realtà un discorso di classe che, mentre coglie un’esigenza sicuramente presente in molte persone, penalizzerebbe tutti gli altri, i quali sarebbero poi pertanto destinati a finire nelle grinfie della televisione commerciale. Ecco perché dobbiamo avere una televisione pubblica che non solo realizzi dei programmi di qualità, ma riesca anche a produrre programmi di grande ascolto.

Apro una parentesi: come Lei sa non c’è un cinema pubblico, non c’è un giornale pubblico, non c’è un teatro pubblico, nel senso che, sebbene ci possano anche essere delle forme di partecipazione degli Enti locali o dello Stato a certi mezzi di comunicazione, per legge non possono esistere né un giornale pubblico, né un cinema pubblico. Perché questo? Giustamente se ci si mette dalla parte di chi vuole privatizzare la Rai si potrebbe concludere: ma, scusate, se tutto è privatizzato, se tutto è sul mercato e se anche la televisione satellitare è a pagamento, perché la televisione generalista deve essere pubblica? Questa è un’obiezione seria. Venticinque anni fa a quest’obiezione la Corte costituzionale rispose: poiché la fascia delle frequenze nell’etere è limitata e non può garantire un effettivo pluralismo né dal punto di vista culturale, né dal punto di vista economico, deve esistere un soggetto pubblico in grado di garantire il pluralismo che altrimenti non potrebbe realizzarsi per la rarità dei canali televisivi disponibili. Ora però con la rivoluzione digitale quest’obiezione tecnologica cade. Tuttavia, tutti i governi europei difendono con orgoglio la loro televisione pubblica. Io penso che la vera motivazione sia negativa: la televisione pubblica deve continuare ad esistere fino a quando ci sarà una televisione commerciale così pervasiva, che per giunta si presenta come apparentemente gratuita. Dico “apparentemente gratuita” perché non lo è, per due buoni motivi. In primo luogo perché sappiamo bene che, andando al supermercato per acquistare i prodotti che sono stati pubblicizzati in televisione, noi paghiamo quel centesimo in più rispetto a quanto pagheremmo se quell’azienda non avesse fatto pubblicità; ma paghiamo una seconda volta e anche più duramente la televisione commerciale, senza rendercene conto, perché la televisione commerciale non produce programmi televisivi, come potrebbe sembrare, ma produce telespettatori da vendere alle agenzie di pubblicità. I telespettatori vengono contati dall’Auditel, impacchettati ogni cinque minuti e venduti alle agenzie di pubblicità, le quali a loro volta vendono questi spazi televisivi agli imprenditori e alle aziende che vogliono pubblicizzare i loro prodotti. Ne consegue che il fine della televisione commerciale è quello di produrre telespettatori. Qui il telespettatore non è un utente della televisione, non è un consumatore di televisione, ma è un “consumato”, perché diventa la merce che viene scambiata tra l’emittente e l’agenzia di pubblicità. Noi ci troviamo in una situazione in cui il telespettatore è merce: non mero consumatore passivo, che si deve sorbire la pubblicità, ma merce nel senso stretto della parola, anche se una merce particolare, perché ha acquistato valore nella misura in cui ha sostato per un certo periodo di tempo davanti alla televisione. Il suo sguardo ha prodotto valore, perché stando davanti alla televisione ha aumentato il numero dei telespettatori e quindi ha valorizzato il programma televisivo che era collegato allo spot pubblicitario. E siccome gli economisti classici ci insegnano che la produzione di valore è sostanzialmente legata alla forza lavoro, noi possiamo dire che il telespettatore che sta davanti alla televisione commerciale, senza saperlo né volerlo, lavora, è addirittura uno sfruttato in quanto, senza rendersene conto, sta producendo valore. Che lo faccia perché si annoia, che lo faccia perché si vuole divertire, che lo faccia con un’altra motivazione qualsiasi, sicuramente in quel momento sta producendo valore, e correlativamente c’è qualcuno che lo sta sfruttando perché, se produce valore, vuol dire che lavora.

Se la televisione commerciale, finché esiste, funziona in questa maniera, perché inevitabilmente è - lo dice la parola stessa – in funzione del lucro, e utilizza la merce telespettatore per fare soldi, d’altra parte il programma televisivo, questa esca che usa per attirare telespettatori, è una merce quasi esclusivamente ideologica. Se io compro una Coca Cola o un Rolex o una Rolls Royce, sicuramente in ognuno di quegli oggetti c’è una quota di ideologia: ma sono pur sempre una bevanda, un orologio, o un’automobile, cioè beni strumentali. Ma un programma televisivo è solo ideologia, perché è un bene immateriale. Allora, se si viene a creare una confusione tra la finalità di lucro, propria della televisione commerciale, e una veicolazione di valori, stili di vita, comportamenti, tipici dei programmi di intrattenimento della televisione commerciale, come le soap opera per esempio, o i talk show, si possono verificare incredibili effetti di distorsione sul piano della crescita culturale, della coscienza e del modo di pensare dei cittadini. Evidentemente questo è un sistema che contiene dei rischi: sappiamo bene come poi, una volta incanalati politicamente, questi stili di vita, frutto dell’educazione - o maleducazione - prodotta dalla televisione, possono anche trasformarsi in voti, assumendo un valore politico. Ebbene, fino a quando esiste una televisione commerciale così pervasiva, deve esistere contestualmente un servizio pubblico che temperi gli effetti dannosi della televisione commerciale.

Da queste considerazioni, nasce l’idea di una televisione di qualità, che non sia di élite nel senso che si riduca a fare programmi di filosofia, programmi di scienza o programmi culturali o servizi parlamentari. Negando l’idea che la televisione sia suddivisa per generi, cioè educazione, informazione e intrattenimento, io parto dal presupposto che la cultura sia trasversale a tutti i generi. La cultura attraversa i programmi educativi, i programmi di informazione e i programmi di intrattenimento. Deve allora esistere una televisione pubblica generalista e non già una televisione pubblica di élite, che servirebbe soltanto a legittimare, come eccezione che conferma la regola, un sistema dominato dalla televisione commerciale.

9) Teo Orlando: Torniamo un attimo alle vicende dell’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche. Quali sono i suoi ricordi personali dei grandi personaggi, come Gadamer, Popper e tanti altri che Lei ha conosciuto personalmente, e come hanno valutato costoro il progetto dell’Enciclopedia?

Renato Parascandolo: Gadamer è stato tra i primi a intuire l’importanza che avrebbe potuto avere l’intervista televisiva per la “comprensione” dei maestri del pensiero contemporaneo. In realtà tutti hanno considerato il progetto una cosa straordinaria, sbalorditiva, ne erano stupefatti. Penso soprattutto ai filosofi americani, perché noi già abbiamo la televisione pubblica in Europa, o giornali come il Corriere della sera, la Repubblica, o anche quotidiani di provincia, come Il Mattino o Il Messaggero, che ospitano articoli, editoriali di scrittori importanti, di personaggi della cultura. Negli Stati Uniti questo è impensabile: lì la separazione di classe tra opinione di massa e opinione pubblica è nettissima. Sarebbe stato impensabile negli Stati Uniti che un personaggio come Pasolini, che scriveva editoriali sul Corriere della Sera, scrivesse sul New York Times o sul Washington Post; tanto meno un grandissimo filosofo come Quine, che non era stato mai intervistato dalla televisione. Erano sconcertati solo dall’idea che la televisione potesse intervistarli. Parlo anche di personaggi molto conosciuti, come Michael Walzer o John Rawls. Rawls, che è morto recentemente, è stato - devo dire - forse l’unico filosofo (insieme a Bobbio, ma questi se n’è pentito in seguito), su circa duemila intervistati, che mi ha scritto una lettera in cui rifiutava l’intervista (che avrebbe dovuto essere sulla democrazia) perché non credeva nella televisione. Era talmente convinto dell’impossibilità per la televisione di diffondere il pensiero filosofico che la considerava un’opera perfettamente inutile e forse anche rischiosa. Invece Gadamer e Popper - come anche Ricoeur e numerosi altri - hanno accolto con entusiasmo quest’iniziativa; confesso che devo molto a tutti e due, ma soprattutto a Gadamer, naturalmente, con il quale abbiamo collaborato esattamente per vent’anni: dal 1982 al 2002, anno in cui è morto. Voglio ricordare, per inciso, che con lui abbiamo registrato complessivamente più di centocinquanta ore. La loro adesione ci ha enormemente incoraggiati, consentendoci di essere molto più spregiudicati nel chiedere a filosofi e a scienziati di partecipare a un’opera che aveva riscosso l’approvazione di quei prestigiosi maestri. Un altro personaggio importante che ci ha aiutato molto nella fase preparatoria è stato Eugenio Garin, persona notoriamente riservatissima, poco propenso a comparire in pubblico e soprattutto in televisione. Noi andammo a trovarlo due o tre volte a Firenze e non solo abbiamo acquisito da lui interviste importanti, ma soprattutto abbiamo ricevuto il suo incoraggiamento e vari suggerimenti per il piano dell’opera. Altrettanto devo dire di Giovanni Pugliese Carratelli, che ci è stato vicino in tutta la fase di gestazione. Grazie al suo interesse per il nostro progetto, siamo riusciti a trovare il punto di equilibrio, la difficile medietà tra il rigore della filosofia, dell’alta cultura, e la necessaria approssimazione dei mezzi di comunicazione di massa. Un’altra persona che merita di essere ricordata in ordine a questa vicenda, come promotore dell’iniziativa, è Vincenzo Cappelletti, il quale era allora direttore generale della Treccani: quando io realizzai la prima videocassetta di prova, quella su Parmenide (devo sottolineare che all’inizio io facevo di tutto, dall’intervistatore al regista, al montatore, ma preparavo anche le domande, studiando intensamente filosofia), Cappelletti, dopo averla visionata, decise subito di preacquistare la collana sulla filosofia greca. Grazie a questo contratto, riuscii ad ottenere ulteriori finanziamenti dalla Rai. Si tenga conto che io ho iniziato l’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche con cinquanta milioni e la disponibilità a utilizzare, nei loro tempi morti, le troupes televisive, quando era direttore del Centro di produzione della Rai di Roma Angelo Guglielmi. Così ho cominciato a realizzare interviste impiegando troupes della Rai gratis, senza doverle pagare. Al tempo in cui ho presentato questo progetto, il programma più seguito in televisione era un programma di Raffaella Carrà, di cui solo per ironia si può dire che fosse interattivo, perché consisteva nell’indovinare il numero di fagioli contenuti in una bottiglia.

Questo fa capire poi anche il clima in cui è nata l’Enciclopedia, assolutamente in controtendenza, e in mezzo ad un’assoluta incomprensione. E tuttavia devo dire che, se quest’opera è stata realizzata, se la Rai ha investito decine di miliardi per realizzarla, se la Rai è riuscita - e sta continuando - a ottenere ricavi, anche cospicui, dall’acquisizione di questo patrimonio, nel doppio senso di patrimonio culturale e di capitale da cui si continuano a ricavare profitti, bisogna riconoscere all’azienda radiotelevisiva, in quanto servizio pubblico, in quanto portatrice di una missione etico-politica, il merito di essere l’unica televisione al mondo che abbia capito l’importanza di diffondere la filosofia anche attraverso questo mezzo.

10) Teo Orlando: Parliamo adesso di un altro programma che è diventato un vero e proprio cult-format di Rai Educational, MediaMente. Come è stato concepito?

Renato Parascandolo: Ricordiamo innanzitutto che, dopo la mia rimozione dall’incarico di direttore di Rai Educational, MediaMente, a otto anni dalla sua creazione, è stato cancellato. Questo programma, che si era assegnato il compito di alfabetizzare gli italiani in maniera critica alle nuove tecnologie della comunicazione - è stato questo il sottotitolo di MediaMente per i primi tre anni - e di permettere un approccio critico alla società dell’informazione, è nato, se vogliamo, sulla scia dell’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche. Quando io mi sono reso conto che ci trovavamo veramente di fronte ad una rivoluzione, determinata dal passaggio dall’analogico al digitale, ho capito anche che bisognava prestare molta attenzione alle conseguenze negative di questa rivoluzione, soprattutto se avesse prevalso, come poi per molti versi ha prevalso negli anni passati, un’idea positivistica delle magnifiche sorti e progressive della tecnologia, per la quale con Internet si poteva fare tutto, creare una ragnatela che coprisse l’intero pianeta, cioè un sistema di comunicazione globale.

Il primo e più urgente compito, per poter governare questa rivoluzione, mi è sembrato quello di dotare le persone delle informazioni necessarie per capire di che cosa si trattava, ma anche di sviluppare la loro coscienza critica, permettendo a tutti di comprendere quali fossero i vantaggi e gli svantaggi, i rischi, i pericoli e le potenzialità di questo fenomeno. Pertanto, MediaMente è nata con questa idea ispiratrice; peraltro, mi sono accorto, dopo il primo anno, che l’Italia era fortemente arretrata da un punto di vista intellettuale, riguardo alla riflessione su quello che stava accadendo, cioè la rivoluzione digitale. Tranne rarissime eccezioni - penso a Umberto Eco - in Italia non c’era nessun massmediologo o filosofo che avesse fatto un’approfondita riflessione sulla rivoluzione in atto. Successivamente c’è stato Tomás Maldonado che ha scritto Critica della ragione informatica, ma nel complesso fino allora, e anche dopo di allora, poco è stato fatto in Italia; mentre invece nelle altre parti del mondo erano attivi scienziati che avevano già da tempo iniziato a riflettere su questa rivoluzione in atto: gli allievi di McLuhan, per esempio, come Derrick De Kerckhove, in Francia personaggi come Pierre Lévy, negli Stati Uniti un architetto che lavorava al MIT come Nicholas Negroponte. Noi abbiamo importato immediatamente questa cultura della rivoluzione digitale che non esisteva in Italia, cercando di diffonderla a tutti i livelli. Abbiamo realizzato, credo, circa millecinquecento puntate di MediaMente, in otto anni, abbiamo creato un sito, che conserva una biblioteca digitale con oltre cinquecento interviste a massmediologi, scienziati delle comunicazioni, imprenditori dei media di tutto il mondo: questo costituisce un importante sviluppo dell’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche.

11) Teo Orlando: Un’ultima domanda: che cosa pensa della tesi di Popper sulla televisione pubblica? Mi riferisco al celebre saggio Cattiva maestra televisione, ma anche alla sua concezione liberale della cosiddetta “società aperta”. Popper vede nella televisione piuttosto qualcosa che va limitato per non dire addirittura censurato. Se invece noi volessimo, coinvolgendo anche altri filosofi come Habermas, parlare della televisione da una parte come strumento di conoscenza e di emancipazione, dall’altra come uno strumento di controllo, quali sarebbero le sue tesi in merito?

Renato Parascandolo: Popper ha ragione quando pone il problema della deontologia professionale, cioè il problema tipico di ogni professione che si deve dare un codice di autoregolamentazione. Non si capisce perché questo codice deontologico debba esistere per i giornalisti, e non debba esistere per gli autori e per i registi televisivi, per coloro che decidono la programmazione della televisione. Gli operatori televisivi effettivamente dovrebbero dotarsi di un codice esattamente come lo posseggono i giornalisti. Popper non pensava certo alla censura quanto piuttosto a un’autocensura, ma sarebbe meglio dire a un’autoregolamentazione. E questo è importante per la televisione, come per tutte le attività che si rivolgono a milioni di uomini e che quindi richiedono un codice etico di comportamento. Detto questo, io non sono d’accordo con Popper, quando pone il discrimine, tra la buona e la cattiva televisione, nella violenza e nella pornografia, ma soprattutto nella violenza (Popper da liberale non ha un atteggiamento retrivo nei confronti del sesso). Non sono d’accordo - ed ebbi modo anche di discutere con lui di questo - perché se io pongo il discrimine tra buona e cattiva televisione là dove inizia la violenza gratuita, questo vuol dire che tutti i programmi che non sono violenti sono accettabili e non socialmente dannosi. Io credo che questo non sia assolutamente vero, anzi credo che i danni che, dal punto di vista quantitativo, produce la televisione commerciale, fatta di talk show, varietà, quiz, di tutto ciò che degrada lo spirito, siano molto più gravi sul piano sociale, o per lo meno altrettanto gravi, di quelli che può causare una scena di violenza nei bambini. Quindi Popper, senza rendersene conto, assolve quella che noi consideriamo la televisione trash, con tutte le conseguenze che ne derivano per il telespettatore sul piano morale: questo è il suo errore. C’è stata una sottovalutazione degli effetti dannosi di questa televisione non solo da parte di Popper, ma anche da parte di quasi tutta la sociologia che si è occupata delle comunicazioni di massa e soprattutto da parte dei politici, che continuano a ritenere che il vero condizionamento ideologico-politico avvenga nei telespettatori grazie ai programmi di informazione, soprattutto i telegiornali, commettendo così un errore dettato dal narcisismo. Poiché gli uomini politici hanno accesso e si rispecchiano nei telegiornali, per tanti anni hanno pensato che quello fosse l’unico modo attraverso il quale fare propaganda politica. In realtà la vera propaganda politica, se per propaganda politica intendiamo soprattutto educazione a un’ideologia (e sappiamo che ogni ideologia implica una visione del mondo, uno stile di vita, scelte comportamentali, giudizi di valore), è appannaggio proprio dei programmi di intrattenimento, come i quiz, i varietà, tipici, per la loro qualità scadente, della televisione commerciale. Perciò tenderei a non sottovalutare quest’aspetto di nocività della televisione, legato a programmi che, per la loro stupidità, sono altrettanto, se non più dannosi, di quelli che mettono in scena la violenza.

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