Etnografie del cyberspazio: appunti per una futura storia degli studi

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Etnografie del cyberspazio:  appunti per una futura storia degli studi

Etnografie del cyberspazio:   appunti per una futura storia degli studi

Cibercultura

 

Etnografie del cyberspazio: appunti per una futura storia degli studi

di Vincenzo Bitti


La comparsa e l’affermarsi di Internet e delle nuove tecnologie dell’informazione, dai primi anni ‘80 in poi, hanno fisiologicamente suscitato la produzione di una gran quantità di testi, riflessioni e ricerche tale da configurare una nuova disciplina nell’ambito delle scienze umane e sociali, indicata con diverse e molteplici etichette: Cybercultures Studies, Computer Mediated Communication Studies, Internet Studies. Una specializzazione dalla vocazione fortemente multidisciplinare che incrocia diverse discipline quali antropologia e sociologia, lingusitica e politica, in proporzioni diverse a secondo dei luoghi e dei dipartimenti universitari che si sono avviati su tale indirizzo di studi.

Dato il tempo trascorso e la mole dei materiali prodotti si sente l’esigenza di una ricognizione del percorso intrapreso fin qui, se non di una vera e propria storia degli studi, di un orientamento preliminare per riprendere il cammino.

Un primo tentativo è quanto ha provato a fare David Silver, faculty member del Dipartimento di Comunicazioni dell’Università di Washington (lo stesso che ha lanciato il September Project di cui si e’ parlato recentemente), in un saggio dal titolo eloquente Introducing Cyberculture. Looking Backwards, Looking Forward: Cyberculture Studies 1990-2000, pubblicato sia on-line che in un volume collettivo del 2000 curato da David Gauntlett Web.studies: Rewiring Media Studies for the Digital Age.

Pur con le dovute cautele e l’inevitabile schematismo che ogni operazioni di mappatura implica, il breve saggio di Silver offre alcuni spunti orientativi da cui cominciare a discutere per effettuare poi, un bilancio di più largo respiro su questo proteiforme ambito di studi.

Silver individua tre fasi intorno cui organizza la sua geografia dei Cyberculture Studies tra gli anni ‘90 e il 2000: 1) Popular Cyberculture, 2) Cyberculture Studies, 3) Critical Cybercultural Studies.

La prima fase della Popular Cyberculture è caratterizzata, secondo Silver, dalle sue origine giornalistiche sull’onda del sensazionalismo e dell’entusiasmo che hanno accompagnato la comparsa dei nuovi media. Altra caratteristica è la presenza di un acceso manicheismo tra detrattori e entusiasti della rete: forti utopie e distopie attraversano, in questa prima fase, il campo della cybercultura. Sul fronte distopico emblematico è, ad esempio, il libro di Kirkpatrick Sale Rebels against the Future: The Luddites and Their War on the Industrial Revolution. Lessons for the Machine Age (1995), il manifesto del Neoluddismo, ma anche i saggi di Stoll (1995) e Bikerts (1994) sembrano liquidare senza mezzi termini la celebrata rivoluzione delle comunicazioni. Il primo pregandoci di spegnere i computer e ricordandoci che: “la vita nel mondo reale è molto più interessante e ricca di qualsiasi cosa si trovi mai nello schermo”. Invece Bikerts è seriamente preoccupato dagli inevitabili effetti di decadenza sulle competenze letterarie di scrittura e lettura degli utenti delle nuove tecnologie informatiche.

Sul versante utopico Silver colloca la vasta schiera dei tecnofuturisti che comprende i seguaci della rivista Wired e le sentinelle della Electronic Frontier Foundation. Una visione dominata dalla metafora del cyberspazio come nuova “frontiera” sociale e culturale. Una frontiera dove: “i vecchi concetti di proprietà, espressione, identità, movimento e di contesto, basati così come sono sulla fisicità, non si applicano agevolmente in un mondo dove tale fisicità non esiste” (Kapor e Barlow, 1990).

La seconda fase, Cyberculture Studies, si distingue per un approccio approfondito degli ambienti virtuali. Silver prende come punto di svolta il famoso articolo di Julian Dibbel: A Rape in Cyberspace: How an Evil Clown, a Haitian Trickster Spirit, Two Wizards, and a Cast of Dozens Turned a Database Into a Society, pubblicato nel 1993 su The Village Voice, in cui viene narrata la nota vicenda dell’utente di LambdaMOO, tale Mister Bungle, che utilizzando un programma-bambola vodoo, prendeva possesso delle azioni virtuali di un altro utente, piegandolo alle sue volontà compreso lo stupro on-line. Le reazioni e il dibattito che seguirono a tale evento tra gli utenti di LambdaMOO portò l’attenzione sugli spazi virtuali, come luoghi sociali con le loro complesse negoziazioni e le loro regole.

Il 1993 è anche l’anno in cui esce The Virtual Community di Howard Rheingold, uno dei testi principali dei Cybercultural Studies che descrive minuziosamente la vita sociale della oramai mitica comunità virtuale di The Well dell’area di San Francisco. Nel 1995 viene pubblicato un altro caposaldo: Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet di Sherry Turkle. In questo corposo saggio vengono analizzati con metodologia strettamente etnografica una serie di ambienti virtuali e rafforzata l’idea che la maggior parte delle persone utilizzano gli ambienti virtuali per affermare una loro identità più vera o una molteplicità di identità che nella vita off-line rischiano di rimanere inespresse.

Malgrado le dovute cautele, come in Rheingold, il tono della Turkle è quello di un generalizzato entusiasmo e di celebrazione della vita on-line. Da questi due lavori partono tutta una serie d’indagini che hanno come loro centri d’interesse precipuo le comunità virtuali e il tema dell’identità on-line.

La terza fase individuata da Silver è quella dei Critical Cyberculture Studies, il cui tratto caratterizzante è quello di cercare di allargare la visuale sulle tematiche delle comunità virtuali e dell’identità online. Oltre che alla vita sullo schermo si comincia a guardare sopra e sotto il monitor, ai contesti reali di utilizzo delle tecnologie, ai condizionamenti sociali ed economici che, consentono a qualcuno e a qualcun’altro no, di potersi sedere davanti a quel benedetto schermo. I Critical Cyberculture Studies avvicinano il cyberspazio non come ad un’entità da descrivere, ma come un luogo da contestualizzare in modalità più globali non strettamente relegate al mondo dell’online.

Silver inoltre individua quattro principali aree di ricerca per i Critical Cyberculture Studies:

1) l’esplorazione delle interazioni sociali, culturali ed economiche che avvengono on-line;

2) lo svelamento e l’esame delle narrazioni e delle storie che ci raccontiamo su tali interazioni;

3) l’analisi di tutta una serie di situazioni politiche, sociali economiche e culturali che incoraggiano o contrastano l’accesso degli individui e dei gruppi alle interazioni on-line;

4) l’esame dei processi di costruzione delle tecnologie e delle soluzioni di design che, quando vengono implementate, vanno a costituire l’interfaccia tra la Rete e i suoi utenti.

La contestualizzazione delle comunità on line avviene, secondo Silver, sia sul piano teorico, riportando la questione nell’alveo dei più tradizionali paradigmi degli studi sulla comunicazione e di comunità (Jones 1995, 1997), sia sul piano della ricerca etnografica vera e propria. Un esempio è il lavoro di Baym (1995) sul gruppo Usenet recs.arts.tv.sopas (r.a.t.s.), in cui viene avanzata l’idea che le comunità online emergono dall’intersezione complessa di diversi fattori tra cui i condizionamenti esterni, comprese le relazioni faccia a faccia che spesso avvengono sulla base della fiducia acquisita con il protrarsi della partecipazione al newsgroup.

Il saggio di Silver certamente non fa giustizia della complessità di questo campo di studi ma offre un criterio orientativo di base che indica un graduale svincolamento dei Cyberculture Studies dalla trincea dell’online.

Occorre rilevare che nella fase iniziale che seguì alla popolarizzazione di Internet, come nuovo e straordinario mezzo di comunicazione, è stata fisiologicamente enfatizzata una sua concettualizzazione come spazio autonomo, come ambiente sociale a sé, slegato dai contesti e dalle modalità sociali off-line in cui viene effettivamente utilizzato. Si veda ad esempio un articolo del sottoscritto datato 1998 — La rete riflette su se stessa. Introduzione allo studio delle cyber-culture — del quale queste righe vogliono essere un modesto aggiornamento, in cui veniva presa in considerazione quasi esclusivamente la dimensione del mondo on-line.

Per completare tale quadro vanno aggiunte alcune considerazioni, provenienti dall’ambito delle discipline antropologiche nella loro dimensione più ufficialmente accademica, sull’affermarsi di tali temi di ricerca.

Legittimare il cyberspazio come oggetto di ricerca antropologico non è certo impresa facile, come ci ricordano le considerazioni di James Clifford a proposito del “campo virtuale”:

“Che dire se qualcuno si desse a studiare la cultura degli hacker (un progetto di ricerca antropologica perfettamente accettabile in molti, se non tutti, i dipartimenti accademici) e nel corso dell’indagine non incrociasse mai, non “interfacciasse”, un solo hacker in carne ed ossa? Potrebbero i mesi, magari gli anni, spesi a navigare sulla rete, essere considerati lavoro sul campo? La ricerca potrebbe benissimo superare sia i test di durata di soggiorno sia quelli di “profondità” e interattività. (Sappiamo quante strane e intense conversazioni si possono svolgere su Internet). E, dopotutto, il viaggio elettronico è un tipo di dépaysament. Potrebbe dar luogo a un’intensa osservazione partecipante di una diversa comunità senza mai lasciare fisicamente casa propria. Quando ho chiesto ad alcuni antropologi se questo potrebbe essere considerato lavoro sul campo, essi hanno generalmente risposto “può darsi”, anzi, in un caso, “ovviamente”. Ma quando, insistendo, ho domandato se sarebbero disposti a seguire una tesi di laurea basata principalmente su questo tipo di ricerca immateriale, hanno esitato o risposto di no: non sarebbe lavoro sul campo attualmente accettabile. Date le tradizioni della disciplina, si sconsiglierebbe a un laureando di seguire un simile iter di ricerca. Noi ci opponiamo alle limitazioni storico-istituzionali che rafforzano la distinzione fra il lavoro sul campo e un più ampio ventaglio di attività etnografiche. Il lavoro sul campo in antropologia è sedimentato con la storia della disciplina, e continua a funzionare come un rito di passaggio e un marcatore di professionalità.” (Clifford, 1999, 81-82)

David Hakken, professore di antropologia alla State University di New York, uno dei primi a interessarsi sistematicamente alla questione, elenca una serie di motivazioni per giustificare l’interesse degli antropologi per le le tecnologie avanzate della comunicazione (Advanced Information Technologies, AIT) :

1) le tecnologie avanzate dell’informazione sono strumenti che hanno la capacità di mediare la riproduzione culturale in modalità profondamente diverse dalle precedenti tecnologie dell’informazione (come, ad esempio, la conversazione interpersonale o il libro a stampa);

2) le AIT entrano fortemente nelle vite di tante persone studiate dagli antropologi, e non è quindi più possibile ignorarle;

3) in molti sono convinti che la società contemporanea stia attraversando la fase di “rivoluzione del computer”, e malgrado le difficoltà nel documentarla vale la pena di studiare la percezione stessa di questa supposta rivoluzione;

4) come mezzo di rappresentazione, il computer stimola affascinanti questioni sulle modalità in cui la cultura è generata e riprodotta;

5) dal momento che una buona parte dell’antropologia riguarda il cambiamento culturale, comprendere il processo d’informatizzazione è centrale per capire le modalità di riproduzione delle formazioni sociali contemporanee;

6) studiare sul campo le AIT potrebbe fornire l’opportunità di valutare metodi che vengono utilizzati per analizzare trasformazioni culturali che possono essere studiate solo indirettamente - come lo studio di siti archeologici, le ricostruzioni linguistiche o i residui contemporanei dei cambiamenti che accaddero nel passato (ad esempio, la diffusione dell’industrializzazione e del capitalismo) (Hakken, 1999, 44) .

Dalle considerazioni di Clifford e di Hakken possiamo dedurre alcune osservazioni su cosa significhi studiare le nuove tecnologie dell’informazione, e in particolare Internet dal punto di vista delle scienze sociali e in particolar modo dell’antropologia. Nel primo caso Clifford sembra ipotizzare un “campo” esclusivamente virtuale. Internet con le sue particolarità tecniche con i suoi spazi di comunicazione interattivi (e-mail, chat, mud, forum, ecc.) è un “campo” a sé in cui non è prevista, se non sporadicamente, l’interazione corporea, faccia a faccia, con coloro che si appresta studiare.

Nel caso di Hakken le AIT entrano nel suo campo di studio non come ambienti esclusivamente virtuali, ma perché, in quanto mezzi, entrano a far parte della vita di coloro che l’antropologo studia. Tali tecnologie non rappresentano un campo a sé, ma sono implicate nei meccanismo di produzione e riproduzione della cultura delle persone, nei contesti territoriali o anche dispersi in gruppi non-virtuali di persone.

Ad esempio Slater e Mille, due ricercatori britannici, autori di una notevole ricerca sull’uso di Internet nell’isola di Trinidad (Miller e Slater, 2000), rifiutano esplicitamente la categoria di realtà virtuale, del cyberspazio come radicale separazione del mondo online da quello of line. Internet non viene considerata, dai due autori, come una struttura monolitica chiusa in se stessa, ma come una serie di possibilità, di pratiche, di software, di tecnologie utilizzati da persone reali. Miller e Slater considerano Internet e le tecnologie connesse ad essa, come un ambito specifico della cultura materiale e propongono quattro prospettive d’indagine centrate sui soggetti reali, nei termini di dinamiche che tali mezzi rendono possibile.

Eccole:

1) la prima dinamica esplora l’uso di Internet come mezzo che consente alle persone direalizzare il loro senso di chi già sono e di chi potrebbero essere in futuro;

2) la seconda indaga la relazione tra il senso di libertà associato con Internet e il desiderio rassicurante dell’ordine e delle convenzioni consolidate del mondo reale;

3) la terza dinamica esamina come le persone esplorano creativamente le tecnologie specifiche di Internet come l’e-mail, la chat e i siti web;

4) la quarta esplora le modalità attraverso cui le persone posizionano se stesse nei flussi globali dell’informazione e dell’economia;

In questo senso chiariscono cosa significa “etnografia” riferita a Internet: un approccio che vede Internet come un mezzo inserito in uno specifico luogo e che in un qualche modo può anche trasformare quel luogo (cit.: 21): “…il nostro approccio è etnografico in quanto utilizza l’immersione in casi particolari come base per generalizzare attraverso l’analisi comparativa. In un senso metodologico più stretto, un approccio etnografico è anche basato su un convolgimento a lungo termine e dalle molteplici sfaccettature con un ambiente sociale. A questo riguardo siamo relativamente conservatori nella nostra difesa dei canoni tradizionali della ricerca etnografica. Questo sembra particolarmente importante oggi, quando il termine “etnografia” è diventato in qualche modo di moda in molte discipline. In alcuni campi, come i Cultural Studies, è arrivato a significare semplicemente un allontanamento dall’analisi puramente testuale. In altri casi, l’idea dell’etnografia di Internet ha significato quasi esclusivamente lo studio delle “comunità” on-line e delle sue interrelazioni – l’etnografia del cyberspazio (Markham 1998; Paccagnella 1997” (cit. : 21).

Occorre rilevare che, forse fisiologicamente, nella fase iniziale che seguì alla popolarizzazione di Internet come nuovo straordinario mezzo di comunicazione, il cyberspazio è stato enfatizzato come spazio autonomo, come ambiente sociale a sé, slegato dai contesti e dalle modalità sociali off-line in cui è effettivamente utilizzato.

Un ultimo esempio interessante di questo approccio è quello di una delle guru della prima ora del cyberspazio Allucquere Rosanne Stone, eccentrica fondatrice dell’Advanced Communication Technology Lab dell’università del Texas, che nei campi sociali virtuali individua una nuova, ultima possibilità per l’antropologia :

“E’ interessante il fatto che, proprio mentre stanno scomparendo gli ultimi luoghi inaccessibili del campo antropologico del “mondo reale”, si sta aprendo un nuovo ed inatteso “campo” ; spazi incontrovertibilmente sociali in cui le persone ancora si incontrano faccia a faccia, ma con una nuova definizione sia di “incontrarsi” che di “faccia”. Questi nuovi spazi rappresentano concretamente la dissoluzione dei confini tra sociale e tecnologico, tra biologia e macchina, tra naturale ed artificiale che è parte dell’immaginario post-moderno. Essi sono parte del crescente intreccio tra uomo e macchina in nuove forme sociali che chiamo sistemi virtuali” (Stone, 1992: 91).

Oltre queste considerazioni di “campo” occorre dire che le caratteristiche della comunicazione che avviene su Internet, rendono questo terreno particolarmente interessante per il settore degli studi socio-antropologici interessati alle dinamiche culturali contemporanee (Appadurai, 2001). Nell’ambito delle discipline antropologiche l’emergere e il consolidarsi di un interesse specifico ai fenomeni della globalizzazione, della deterritorializzazione, del cosmopolitismo del traffico culturale legati al movimento volontario o necessario di un numero sempre maggiore di persone, rendono le pratiche comunicative collegate alla Rete e ai nuovi media uno degli impegni principali nell’agenda di questo settore di studi.

 


Riferimenti bibliografici

Appadurai, A., 2001, Modernità in polvere, Roma: Meltemi

Baym, N. K. 1995, The emergence of community in computer-mediated communication. In Jones, S. G. (ed.) CyberSociety: Computer-Mediated Communication and Community. Thousand Oaks, CA: Sage Publications, 138-163.

Bitti V., 1998, La rete riflette su se stessa. Introduzione allo studio delle cyber-culture

Clifford J., 1999 Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri.

Hakken D., 1999, Cyborgs@Cyberspace. An ethnogapher Look sto the Future, London: Routledge.

Jones, S., (ed.) 1997: Virtual Culture: Identity & Communication in Cybersociety. London: Sage Publications.

Jones, S., (ed.) 1995: CyberSociety: Computer-Mediated Communication and Community. Thousand Oaks, CA: Sage Publications.

Miller D., Slater D., 2000, The Internet . An Ethnographic Approach, Oxford: Berg.

Kapor M. and John Perry Barlow J. P., 1990, Across The Electronic Frontier, Electronic Frontier Foundation

Silver D. , 2000, Introducing Cyberculture in Web Studies: Rewiring Media Studies for the Digital Age, a cura di David Gauntlett, Oxford University Press. (http://www.com.washington.edu/rccs/intro.asp)

Stoll C., 1995, Silicon Snake Oil. Second Thoughts on the Information Highway, New York: Dubleday, Trad. it., 1996, Miracoli virtuali. Le false promesse di Internet e delle autostrade dell’informazione, Milano, Garzanti,

Stone, A.R.,1992, “Will the Real Body Please Stand Up?”, in Cyberspace: First Steps, ed. Michael Benedikt , Cambridge: MIT Press, 1991: 81-118; trad. it. 1993, Primi passi nella raltà virtuale, Padova: Edizione Muzzio .

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Pubblicato su Politicaonline il 6/10/2004

 

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