Guerra antifascista o regalo ai terroristi?

 Paul Berman / Anatol Lieven

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America versus America/2

Guerra antifascista o regalo ai terroristi?

dialogo tra Paul Berman / Anatol Lieven

Paradossi: il saggista di sinistra Berman considera 'antifascista la guerra di Bush, e scandaloso il movimento che la contrasta. Il 'non pacifista' Lieve, invece, mostra come la guerra abbia rafforzato ciò contro cui si voleva combattere: l'alleanza tra nazionalismo arabo e terrorismo fondamentalista


Paul Berman: Il mio punto di vista è riassunto in un mio recente articolo, Five Lesson from a Bad Year. Silence and Cruelty, pubblicato sulla New Republic del 28 giugno 2004, in cui scrivevo: «Ho cercato di convincere l’opinione pubblica che, al di là delle spiegazioni fornite da Bush, una dura oppressione giustifica un intervento; che il baathismo e l’islamismo radicale sono movimenti estremisti legati dal richiamo al fascismo europeo, e hanno lavorato insieme per raggiungere il metodo ideale di lotta per entrambi, le bombe umane; che una lotta senza quartiere contro le idee totalitarie debba essere il preciso scopo in Iraq; che liberali musulmani esistono sia in Iraq sia in Afghanistan (con una certa flessibilità nei confronti della parola «liberale», date le circostanze), e meritano il nostro aiuto; che le conquiste liberali saranno le sconfitte del terrorismo; e che, nonostante quanto suggeriscono certi passaggi dell’esecrabile National Security Strategy, questa battaglia riguarda tutte le democrazie liberali».
Questo è il mio punto di vista. Mi ci è voluto un po’ per convincere la gente ad accettarlo. Forse dovrei specificare che con «liberale» non mi riferisco, come ormai sembrano fare gli europei, all’idea di un capitalismo sfrenato o senza regole, ma piuttosto all’idea di libertà democratica, di soluzione razionale dei problemi, di tutela dei diritti umani, di separazione tra Chiesa e Stato. Mi riferisco cioè a quelle che sono le basi di ogni moderna società libera e positiva. Nonostante molti miei lettori abbiano dissentito, il passaggio del testo in cui parlo della lotta contro il totalitarismo è critico verso l’amministrazione Bush, che è stata poco chiara e coerente a riguardo. Nel National Security Statement del 2002 – il manifesto ufficiale, per così dire, della politica estera dell’amministrazione Bush – gli autori hanno specificato che le lotte tra società libere, o società liberali, e totalitarismi appartenevano al Novecento, e si potevano considerare concluse. La minaccia per il mondo contemporaneo sarebbe venuta da altri fattori.
Per me è un opinione totalmente sbagliata, un errore grossolano, che ha avuto molte conseguenze nefaste. Con una mancanza di coerenza che ha creato gravi problemi, Bush e i membri del suo staff in altre circostanze hanno dichiarato l’opposto, che cioè la lotta al totalitarismo continua. Credo che l’indole fascista del baathismo sia fuori discussione. Il baathismo è stato fondato nel 1943 a Damasco, sotto l’autorità della Francia di Vichy, in collaborazione con i nazisti. Il partito Baath si fonda insomma su una specie di adattamento delle idee naziste al mondo arabo.
Che il baathismo sia un movimento laico è un’idea diffusa e radicata, le cui origini non mi sono molto chiare. Il baathismo ha sempre creduto che la nazione araba, nel senso etnico del termine, avesse un particolare ruolo da svolgere. È l’islam a definire la nazione araba, quindi il movimento non è di per sé un movimento islamico, ma un movimento nazionalista che colloca l’islam al centro dell’idea di nazione araba. Ed è un’idea che, come afferma Aflaq – uno dei fondatori del movimento – persino gli arabi cristiani hanno ritenuto perfettamente accettabile. Si sono potute mantenere idee cristiane o persino laiche continuando a insistere sull’idea di un nazionalismo arabo, di un’anima araba fondata sull’islam.
Naturalmente negli ultimi anni il baathismo ha conosciuto una vera e propria svolta religiosa, come ha potuto notare chiunque abbia letto i discorsi di Saddam Hussein o abbia osservato l’avanzata del partito di Baath in Iraq.
Le origine fasciste dell’islamismo sono diverse e leggermente più sfumate ma altrettanto probabili , almeno per me, e credo che per noi sia di importanza cruciale capirle. Penso sia un grave errore credere che l’islamismo sia la vera espressione del fondamentalismo musulmano. I concetti essenziali dell’islamismo scaturiscono dall’idea fascistoide di un gruppo di eletti che in una sorta di missione divina lotta contro il mondo intero. L’idea islamica rispecchia dottrine paranoiche e apocalittiche di matrice fascista, e come nel caso del Baath, uno degli aspetti centrali del radicalismo islamico consiste nell’antisemitismo, non nel senso tradizionale musulmano ma in quello dell’estrema destra europea. Ed è per questo che il Protocollo dei Savi di Sion e altri documenti dell’estrema destra europea, oltre naturalmente al nazismo in quanto tale, hanno giocato un ruolo decisivo nella storia del movimento islamista.
Ora, per anni i due movimenti sono stati acerrimi rivali, il che ha dato vita a feroci lotte intestine. E lotte molto simili si sono scatenate fra le diverse ali sia del movimento Baathista, con i siriani contro gli iracheni, sia del movimento islamista, con i sunniti contro gli sciiti. Ma tutte queste lotte, rivalità, odii e persino guerre tra i vari gruppi non devono distoglierci dai loro punti in comune, e dalla storia delle loro collaborazioni. Non mi riferisco a quella specie di complotto fumettistico che ossessiona Dick Cheney, ma a qualcosa di più ovvio, che ha covato per anni e che di recente è diventato la comune adesione al terrorismo suicida. La storia di questo genere di collaborazione tra baathismo e radicalismo islamico è antica e credo che nessuno la metta, o voglia metterla, in discussione.
Ma la tragedia scaturita da questi movimenti ha avuto due caratteristiche a cui si deve prestare attenzione. Una è semplicemente il livello di sofferenza che ha creato. Il totalitarismo europeo ha causato la morte di milioni di persone. E anche la sua versione da esportazione, stalinista o altro, ha creato milioni di vittime in Asia. Lo stesso si può dire dell’adattamento al fascismo europeo del baathismo e dell’ islamismo radicale. Durante gli ultimi venticinque anni milioni di arabi e musulmani, e dico milioni, sono stati uccisi da questi movimenti: e oltre ai musulmani, anche cristiani e animisti del Sudan; israeliani, spagnoli, americani eccetera. Naturalmente il prezzo più alto è stato pagato dai musulmani. La prima cosa da notare è la proporzione degli orrori, di gran lunga una delle più significative nell’intero Novecento. La seconda è che tutto questo è passato inosservato quasi ovunque. I movimenti di tipo fascista hanno prosperato, sono cresciuti, hanno acquisito potere, hanno agito secondo i loro principî proprio come avevano premesso nei loro testi ideologici. I risultati sono stati quelli che sappiamo: la morte di milioni di persone, altri milioni trascinati in esilio, intere regioni ridotte in miseria. Eppure la maggior parte del mondo non ne ha saputo niente; come gli orrori del nazismo negli anni Trenta, o quelli dello stalinismo in tutto il periodo che va dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, gli orrori dei movimenti fascisti islamici, del baathismo e del radicalismo islamico, sono rimasti segreti. E a causa della loro invisibilità le forze mondiali che avrebbero dovuto mobilitarsi ed essere solidali con le vittime vere o potenziali non l’hanno mai fatto. Non è mai stata intrapresa una lotta antifascista e progressista, e tuttora il solo pensarla suscita polemiche.
Per me uno dei più grandi scandali della storia moderna è stato il movimento contro la guerra del 2003. Il regime di Saddam Hussein in Iraq è senza dubbio stato il più tirannico, totalitario e criminoso della storia dopo quello di Pol Pot: sono state uccise centinaia di migliaia, probabilmente milioni di persone, e quattro milioni sono stati mandati in esilio. Le forze liberali irachene hanno dovuto affrontare un doppio incubo – la rinuncia alla speranza e l’abbandono di gran parte del resto del mondo. E quando finalmente sono stati fatti i primi passi per sovvertire una delle peggiori tirannie dell’era moderna, si è formato il più ampio movimento di massa della storia per prevenirne la caduta. Per me è uno scandalo morale di proporzioni gigantesche, e non solo; in scala ridotta, vedo qui in gioco le stesse forze che hanno fatto degli ultimi novant’anni uno dei periodi più atroci e sanguinosi della storia moderna.

Anatol Lieven: Devo dire subito che non mi considero una persona di sinistra, e di certo non un pacifista. Da patriota britannico ho sostenuto la guerra nelle Falklands. Ho fermamente appoggiato la cacciata di Saddam dal Kuwait durante la prima guerra irachena, e avrei voluto che gli alleati arrivassero a Baghdad. E sono stato favorevole agli interventi militari dell’Occidente nei Balcani degli anni Novanta, che a mio avviso hanno avuto il solo difetto di essere tardivi.
Il paragone con i totalitarismi europei, che ritengo profondamente sbagliato in quanto implica una visione troppo ampia del mondo musulmano, arriva tuttavia a toccare uno dei punti critici qui discussi, cioè la strategia, o se si preferisce la tattica. Non c’è bisogno di dire che la penso come
Berman: negli anni Quaranta mi sarei strenuamente opposto sia allo stalinismo che al nazismo, e ritengo che l’Occidente abbia fatto bene a combatterli. Tuttavia, se come Winston Churchill aveva proposto nell’autunno del ’39, Gran Bretagna e Occidente fossero contemporaneamente entrati in guerra con nazismo e stalinismo, avrebbero perso. E con conseguenze catastrofiche per l’umanità. L’alleanza con Stalin durante la seconda guerra mondiale, dopo l’invasione di Hitler dell’Unione Sovietica, è stata spiacevole, ma necessaria: ha distrutto il nazismo, preservato l’Occidente, e a un costo in termini di vite umane – anche tedesche – infinitamente minore rispetto a quello che si avrebbe avuto senza l’Unione Sovietica al fianco, o, Dio ce ne scampi, combattendo Hitler e Stalin allo stesso tempo.Tuttavia sono stato contrario a questa guerra in Iraq pur avendo sostenuto la prima, non certo per simpatia nei confronti del regime Baath, tantomeno per qualche intrinseca opposizione all’uso del potere americano in quanto tale – un potere usato spesso in maniera positiva nel mondo, soprattutto durante la seconda guerra mondiale. Come molti altri, mi sono opposto per ragioni di prudenza, perché ho pensato che la guerra avrebbe creato o rafforzato esattamente ciò contro cui ci preparavamo a lottare, ossia l’alleanza tra le forze del nazionalismo radicale arabo, rappresentate dal Baath, e quelle dell’islamismo radicale sunnita o del terrorismo, come dire al-Qaida e alleati. Ed è andata proprio così. Lo avevamo preannunciato ed è successo. Un’alleanza in precedenza molto, molto esile, e del resto poco provata, è divenuta fortissima. Di conseguenza, purtoppo, il prestigio sia militare sia morale americano (e inglese) nel mondo, in particolare nel mondo arabo, ne sono usciti molto ridimensionati. Dal punto di vista militare, i radicali del mondo musulmano hanno avuto modo di constatare che gli Stati Uniti sono in grado di sovvertire Stati sovrani, ma incontrano una serie notevole di difficoltà nel gestire l’occupazione e nell’insediare governi stabili. Il che suggerisce ad al-Qaida e ai suoi alleati di provocare gli Stati Uniti a invadere altri Stati musulmani. Dal punto di vista del prestigio morale basta guardare Abu Ghraib. Che comunque non è stato un semplice incidente. Non sto accusando l’esercito americano, che rispetto ad altre forze di occupazione si è comportato relativamente bene; il punto è che qualsiasi forza armata in una guerra di occupazione di questo tipo finisce per commettere atrocità e atti brutali. In una situazione del genere, dove è di importanza vitale conquistare ampie fette di consenso dell’opinione pubblica araba e musulmana, il risultato politico, e di conseguenza quello militare, della vicenda, sono stati disastrosi.
A proposito dell’analogia con totalitarismi e fascismi, Berman stesso ha detto che il baathismo e i suoi alleati del mondo arabo, l’islamismo rivoluzionario sunnita di al-Qaida e dei suoi alleati, e l’islam teocratico sciita, si sono combattuti molto aspramente, ma la guerra tra Iran e Iraq è un ovvio esempio dell’accesa ostilità tra nazionalismo radicale arabo e Iran sciita. Quest’ultimo, nel 1998, è arrivato a un passo dalla guerra contro l’Afghanistan dei talebani. Inoltre, la più feroce repressione nel mondo arabo, oltre a quella irachena degli ultimi decenni, è stata quella del baathismo siriano nei confronti della rivoluzione islamica sunnita dei primi anni Ottanta. Sono stati conflitti di proporzioni enormi. È vero che alle volte ci sono state alleanze tattiche contro l’Occidente che in qualche modo hanno ricordato il patto fra Hitler e Stalin. Ed è assolutamente vero che il Baath abbia radici fasciste. La propaganda di Aflaq si è apertamente ispirata alle lezioni apprese da nazismo e fascismo. Ma proporre un’analogia con l’Italia per suggerire che questi movimenti siano tutti uguali, è come sostenere che la teocrazia rappresentata dal Vaticano fino all’inizio del Novecento, il nazionalismo radicale e il regionalismo conservatore italiano, rappresentato diciamo dagli Asburgo e dai loro sostenitori ancora nei primi decenni dell’Ottocento, siano equiparabili. Da un punto di vista storico, mi sembra francamente grottesco.
Berman sostiene che il punto di contatto tra tutti questi movimenti sarebbe l’idea di un gruppo di persone con una missione divina da compiere, ma è un esempio che si potrebbe applicare anche ai gesuiti nella storia europea o cristiana, o ai nazisti. Il fatto che abbiano un senso simile del proprio ruolo di élite storica, o di gruppo eletto, non significa che rappresentino la stessa forza storica.
Ora, a proposito di Aflaq e del Baath, il parallelo con il fascismo italiano è molto interessante. Aflaq e i suoi sostenitori e seguaci si sono certamente gloriati delle conquiste storiche dell’islam arabo, proprio come Mussolini di quelle storiche, culturali e politiche dell’Italia cattolica o del cattolicesimo italiano, ma in pratica, come il fascismo in Europa ha ostacolato – Spagna a parte – l’insorgere del cattolicesimo, così il Baath in Siria ed Iraq si è opposto duramente, e per ragioni molto simili, a ogni reale coinvolgimento in politica, o nell’amministrazione, dei gruppi islamici, dei predicatori e così via. In tutti i casi si è voluta creare la versione totalitaria di una società nazionale, che non fosse indebolita o minata dall’alto, tramite richiami ad un’unità religiosa o confessionale, né dal basso, tramite l’azione dei vari gruppi religiosi minori. Naturalmente Mussolini firmò in seguito il Concordato con il Vaticano, e Saddam Hussein, specie dopo la prima guerra del Golfo, cercò l’appoggio degli islamici, proprio come Stalin, durante la seconda guerra mondiale, pretese che la Chiesa ortodossa sostenesse il regime contro l’invasione nazista. In nessuno di questi casi, però, ciò ha significato una fondamentale riconciliazione ideologica tra le parti. Mussolini rimase un ateo convinto fino alla morte.
Mi sembra che Berman veda l’islam un po’ come alcuni musulmani vedono l’intera storia occidentale, riducendola a un grumo di odio per l’islam e facendo di ogni erba un fascio, cioè mettendo insieme molte tradizioni diverse, alcune delle quali effettivamente molto ostili all’islam, ma più ancora avverse le une alle altre. Il che rende la storia dell’Occidente incomprensibile.
In conclusione, per tornare al punto nevralgico, perdere la guerra al terrorismo porterebbe a risultati catastrofici per il mondo musulmano, l’Occidente e Israele. Per vincere dobbiamo assolutamente capire cosa stiamo combattendo e la natura del nemico. Credo che sia fondamentale dividere il nemico, proprio come abbiamo fatto durante la guerra gredda: spaccando il fronte comunista in linee nazionalistiche siamo riusciti in larga parte a vincerla. Credo che contro il terrorismo islamico sunnita dovremmo seguire più o meno la stessa strada.
Temo che, per raggiungere questo scopo, fare affidamento solo sui liberali musulmani non basti. Berman ha detto che in Afghanistan ci sono dei liberali: qualcuno ne ho incontrato anch’io durante i miei viaggi in Afghanistan, ma soltanto a Kabul e sempre sotto protezione delle forze occidentali. Non ne ho incontrati in nessuna delle provincie che ho visitato, neanche in quelle nelle mani dei nostri alleati. Per creare dei liberali ci vorranno decenni. Non dico che non dovremmo farlo, ma pensare che in questo momento possiamo contare su di loro è davvero stupido. Per ora sfortunatamente dobbiamo avere a che fare con il mondo musulmano così com’è, il che presenta vantaggi e svantaggi. Dobbiamo sfruttare i vantaggi per poi indebolire i nostri nemici.

Berman: Innanzitutto, contrariamente a Lieven, mi considero un uomo di sinistra, quindi fra di noi c’è una leggera differenza.
In secondo luogo, vorrei rispondere all’affermazione di Lieven sulla mia visione dell’islam, che metterebbe insieme cose di tipo diverso. Vorrei fosse chiaro che non ho alcuna visione dell’islam. Vedo l’islam all’incirca come vedo il cristianesimo: una grande costruzione capace sia di raggiungere vertici di civiltà sia di creare cose terribili e mostruose. Per me la questione non è mai stato l’islam, ma gli attuali movimenti politici che sono diventati così potenti in tanta parte del mondo musulmano. Questi movimenti, baathismo e radicalismo islamico in primo luogo, sostengono di basare la propria autorevolezza sull’antica religione islamica. Non penso che sia un’affermazione da prendere alla lettera. Credo che l’islam sia in grado di produrre liberali e progressisti democratici tanto quanto il cristianesimo. Come il cristianesimo, l’islam è un’orchestra sinfonica, che può suonare arie diverse a seconda delle richieste.
Ora, quando Lieven parla di una strategia da adottare in guerra ha completamente ragione, e ha disperatamente ragione quando dice che è possibile perderla, questa guerra. È molto probabile che la lotta contro l’attuale terrorismo, da una parte, e quella più ampia contro quanto ho descritto come il totalitarismo musulmano e le sue ramificazioni, dall’altra, sia destinata alla sconfitta, e con conseguenze disastrose, prima fra tutte un gran numero di morti ovunque, anche in luoghi apparentemente lontanissimi dai centri del mondo musulmano. Quindi condivido la preoccupazione di Lieven a riguardo. Sono anche d’accordo con lui a proposito degli errori politici e delle strategie sbagliate di Bush . Penso che Bush abbia fatto errori a bizzeffe, e spero con tutte le mie forze che lasci l’incarico tra pochi mesi. Mi sono sempre schierato contro di lui, pubblicamente e senza mezze misure. Ma bisognerebbe soffermarsi sulla natura di questi errori.
Lieven sostiene che baathisti e radicali islamici siano cose totalmente diverse, e dice che la mia assimilazione di entrambi al totalitarismo nel senso più ampio del termine gli sembra un tentativo di mettere a confronto cose lontane mille miglia tra loro quanto l’impero asburgico, il papato e il fascismo italiano. Trovo quanto lui che un parallelo del genere sarebbe ridicolo, ma non penso che sia un errore accostare la Guardia di Ferro rumena, i nazisti, i falangisti spagnoli, i fascisti italiani, il movimento di Charles Maurras in Francia, e altri movimenti europei. Come non troverei così assurdo paragonare stalinismo e nazismo. Lieven citava Churchill, e la sua tesi che sarebbe stata una follia andare in guerra contro stalinisti e nazisti contemporaneamente. È verissimo. Sarebbe stato folle andare in guerra contro lo stalinismo in ogni caso, sempre, dal momento che per sconfiggerlo sarebbe bastata una guerra fredda.
È senz’altro vero che si dovrebbe tener conto delle effettive conseguenze dell’agire, e che le questioni di tattica e strategia sarebbero da prendere in considerazione. Però il vero problema è questo: la strategia di divide et impera sostenuta da Lieven è precisamente quella che Stati Uniti e altri paesi occidentali hanno seguito nei paesi arabi negli ultimi decenni. Gli Stati Uniti hanno un passato piuttosto imbarazzante a riguardo, fatto di sostegno ai peggiori gruppi tirannici, da opporre ad altri ugualmente pessimi. E infatti si sono ritrovati a sostenere l’Iraq di Saddam Hussein. Gli Stati Uniti hanno sostenuto non solo gli islamici in Afghanistan, ma le peggiori fazioni islamiche afgane nella guerra contro l’Unione Sovietica degli anni Ottanta. Anche molti governi occidentali hanno appoggiato, per varie ragioni, l’estremismo islamico. I francesi hanno sempre appoggiato gli islamici nel loro paese, e Israele per un periodo ha spalleggiato Hamas, nella speranza che avrebbe contrastato i nazionalisti radicali di Arafat.
La prima difficoltà creata da questo atteggiamento è stata la perdita di credibilità morale. Abu Ghraib è senza dubbio una vergogna. Trovo scandaloso che Donald Rumsfeld, il segretario alla Difesa, non sia stato costretto a dimettersi per lo scandalo, ma in realtà gli Stati Uniti hanno perso credito morale davanti al mondo arabo e musulmano sostenendo i peggiori gruppi totalitari, e non per un mese o un anno, ma per decenni. In tutta la storia delle relazioni col mondo arabo e musulmano gli Stati Uniti non si sono mai schierati in modo evidente dalla parte dei principî democratici e liberali, o dei principî che definirei antitotalitari. E la ragione di questo comportamento è l’analisi di un modo di procedere basato sul divide et impera, sul mettere un gruppo contro l’altro e quindi agire secondo quelli che nella politica estera americana vengono detti percorsi «realistici». Questo è stato il vero grande sbaglio.
È anche vero che per certi versi il divide et impera può funzionare. È proprio quello che sta facendo ora in Iraq il nuovo primo ministro Iyad Allawi, di sicuro in accordo con l’ambasciata americana, diretta dall’orrendo John Negroponte. L’idea è di dividere la resistenza baathista e quella islamica, la resistenza sciita da quella sunnita e l’intera resistenza irachena da quella dei terroristi stranieri. È una tattica intelligente, che spero abbia successo, ma non credo basti a debellare un’ondata di movimenti totalitari come il baathismo, l’islamismo e tutti i loro satelliti.. Non è la guerra tra Hitler e Stalin che pone fine al problema. Il problema si risolve se riescono a emergere, in un modo o nell’altro, i liberali del mondo musulmano. E qui arriviamo alla questione posta da Lieven. Ci sono effettivamente liberali nel mondo musulmano? Ci sono persone che dovremmo sostenere come amici...

Lieven: Ci sono, ma il punto è quanto forti e in che numero.

Berman: Il punto è proprio questo. Lieven dice che nei suoi viaggi in Afghanistan ne ha incontrati pochissimi, e solo a Kabul. Ora, sono certo che le osservazioni di Lieven siano sensate e ne deduco che facciamo la cosa giusta nel sostenere Amid Karzai e il suo gruppo a Kabul. Credo sia stato uno dei grandi errori morali del liberalismo e della sinistra in Occidente, il miliardesimo della serie, non avere appoggiato in modo molto più netto Karzai e il suo governo, non avere insistito perché la Nato mandasse più truppe, ma sono daccordo che la capacità di Karzai e dei liberali a Kabul di trasformare ulteriormente la natura della società e del pensiero politico afghani è comunque limitata. Ed è questo il motivo per cui penso che la vera lotta contro il totalitarismo oggi non sia lì. Penso che l’invasione dell’Afghanistan sia stata necessaria per distruggere i campi di addestramento e i quartier generali di al-Qaida, ma non ho mai creduto che avrebbe portato anche all’eliminazione di al-Qaida o dei maggiori pericoli del terrorismo odierno. L’Afghanistan non è stato altro che un ufficio temporaneo per al-Qaida. È stata anche una specie di utopia, ma mai il centro del movimento. Tantomeno ha avuto un ruolo centrale nello sviluppo delle idee politiche attuali; non è stata che una proiezione di altre parti del mondo musulmano nella lotta contro l’Unione Sovietica.
Il cuore, la base sociale e intellettuale di questi movimenti è sempre stata proprio nel mondo arabo e in Iran. Ed è per questo che il principale campo di battaglia rimane l’Iraq. La guerra in Iraq riguarda un problema più profondo e centrale di quella in Afghanistan, perché rappresenta una lotta di potere e autorità morale nel cuore della zona che ha generato il più importante movimento totalitario.
Penso sia del tutto sensato parlare di liberali in Iraq, e di una sinistra democratica. Due settimane fa è stato designato viceprimo ministro del nuovo governo Barham Salih, in precedenza a capo di alcune regioni del Kurdistan iracheno. Salih, come i lettori di MicroMega ritengo sappiano, ha rivolto un accorato appello all’Internazionale socialista a Roma, all’inizio del 2003, chiedendo solidarietà ai democratici della sinistra occidentale, a quelli che, almeno secondo le mie categorie americane, rappresentano i liberali di sinistra. Nel suo discorso, Salih ha ricordato come l’Italia, incapace di liberarsi da sola dalla dittatura fascista, abbia avuto bisogno dell’invasione angloamericana del giugno ’44. L’invasione dell’Italia e la successiva occupazione – incluse le successive ingerenze dell’ambasciata americana, alcune volte buone, altre atroci e persino scandalose – hanno comunque significato la liberazione dell’Italia e degli italiani, che una volta liberi dalla dittatura hanno potuto partecipare alla costruzione di una società democratica e moderna – il che, secondo parametri comuni, va considerato un grande successo. Barham Salih si è poi rivolto all’Internazionale socialista e ha descritto l’imminente invasione dell’Iraq come una prospettiva sostanzialmente simile. Dopo la prima guerra del Golfo, in Kurdistan, sotto la protezione dell’esercito americano e britannico, e inizialmente persino di quello francese, i curdi sono riusciti ad avviare una società liberale e democratica, e organizzazioni come l’Unione patriottica curda sono una moderna sinistra democratica legata all’Internazionale socialista. E non è un fatto da poco. Sono perfettamente al corrente delle lotte intestine, scoperte e no, che hanno dilaniato i vari politici curdi, di sinistra o meno, e so perfettamente che la democrazia liberale che si è sviluppata nell’Iraq del Nord forse a questo punto non ha nulla a che vedere con quella diciamo della Svezia, tuttavia in Iraq qualcosa è successo.
Ora, solo due settimane fa Barham Salih è stato scelto come viceprimo ministro – non proprio attraverso un processo democratico perché si è pur sempre sotto occupazione militare, e mancano quindi le condizioni per crearne uno, anche se Salih è precisamente il tipo di figura che sarebbe al potere se ci fosse un vero sistema democratico. Questo per dire come sia una figura veramente popolare in Kurdistan, che i rappresentati politici degli altri principali gruppi iracheni hanno riconosciuto adatta a ricoprire il ruolo di leader della politica non solo curda, ma di tutto il paese. Qui io vedo qualcosa di più che un manipolo di liberali a Kabul. Vedo una lotta dove ci sono persone con cui dovremmo riconoscerci, gente che chiede – e dovrebbe ottenere – la nostra solidarietà di liberali o di sinistra occidentale e del mondo.
Lieven dice che Bush ha condotto molto male la guerra in Iraq, creando odi immotivati. Sono daccordo, non potrei esserlo di più. Tuttavia la guerra è un fatto. E ora persone che dovremmo considerare come nostri pari stanno lottando in Iraq per cambiare la società. Anche di questo dobbiamo prendere atto, così come del fatto che questa gente ha bisogno della nostra solidarietà quanto ne ha bisogno Hamid Karzai. È una vergogna morale che nel mondo i liberali e il popolo della sinistra siano talmente ossessionati dalla ripugnanza per Bush, che condivido, dagli errori politici e da certi tratti poco piacevoli degli Stati Uniti, che non nego, al punto da non vedere il problema reale. Ossia come al momento nel mondo musulmano esistano persone come noi che lottano, non solo in senso teorico, ma fisicamente, militarmente, persone che in questo momento combattono guerre che si potrebbero paragonare alla guerra civile spagnola o alla seconda guerra mondiale, guerre di società liberali contro totalitarismi. Questa gente è in difficoltà ora, ha bisogno della nostra solidarietà e non la riceve, e per me è un enorme scandalo.

Lieven: Forse potrei accennare alle relazioni storiche tra liberalismo e democrazia, che credo siano per molti versi essenziali alla comprensione dei problemi posti da Berman, dal momento che – spero mi perdoni – Berman mi ricorda molto un liberale ottocentesco. I liberali di allora non erano ovviamente democratici, ma credevano al ruolo di una élite liberale. Nel XIX secolo la maggioranza era generalmente molto conservatrice per ragioni religiose, o del tutto disinteressata alla politica, almeno secondo i criteri moderni. Allora non era quindi una contraddizione chiedere riforme liberali e sviluppo politico, che di fatto gli interessati ignoravano. Nel nostro liberalismo, una richiesta del genere non avrebbe senso. Il liberalismo moderno si suppone essere democratico, e se non lo è, dovremmo saperlo, e discuterne seriamente.
Il caso di Salih è molto significativo a riguardo. Come ha ricordato Berman, Salih è stato nominato. Mi chiedo cosa potrebbe succedere in un Iraq davvero libero e democratico, se mai ce ne sarà uno, visto che la politica progressista curda è stata in sostanza parte del nazionalismo curdo. In realtà il nazionalismo curdo è una forza politica piuttosto omogenea, con divisioni interne per clan e personalità, che tuttavia sul nazionalismo ritrova la necessaria unità. Ora, non vorrei risultare cinico, ma abbiamo visto troppe volte in passato – anche in Europa – presunti liberali progressisti il cui liberalismo è stato ripetutamente schiacciato dal nazionalismo. Il punto è che i curdi hanno un forte senso di appartenenza etnica. La loro posizione in Iraq è critica perché, non potendo avere l’indipendenza e unirsi ai fratelli curdi turchi o iraniani – cosa ovviamente impossibile per ragioni geopolitiche – cercano il massimo possibile di autonomia, cioè mirano a creare uno Stato separato all’interno dell’Iraq. Questo naturalmente sta creando problemi immensi non solo tra le varie forze arabe sunnite, ma anche con sistani e gli sciiti moderati.
Dunque, quando si parla di schieramenti politici della popolazione irachena, bisogna tenere presente che i curdi sostengono in realtà un movimento nazionale separatista, mentre la maggioranza degli sciiti è legata all’una o all’altra variante di quelli che potrebbero definirsi politici religiosi, o politici religiosi etnici se si guarda agli sciiti iracheni quasi come a un gruppo etnico. Come se durante la seconda guerra mondiale l’America avesse liberato l’Italia in una situazione in cui gran parte del paese costituiva in effetti uno Stato separato che voleva restare autonomo. Se fosse andata così, è chiaro che l’intera storia italiana del dopoguerra sarebbe stata diversa.
Ma parliamo ora della questione che sta più a cuore a Berman, quella della democrazia nel mondo arabo e musulmano. Innanzitutto, la democrazia in sé, a prescindere dalle sue definizioni correnti, dovrebbe significare un certo rispetto per le opinioni delle maggioranze e della massa, se vogliamo dire cosi. In Iraq, la schiacciante maggioranza degli arabi e dei musulmani si è opposta alla guerra, in parte per ragioni sbagliate, perché è stata intellettualmente fuorviata da forze negative, ma in parte anche perché non riusciva a vedere gli americani come liberatori – e non si può dire che il dopoguerra abbia dato loro torto. Gli iracheni pensano che l’America nutra profondi sentimenti antimusulmani e antiarabi, ma anche che quando si caccia in imprese di questo tipo, come si è visto innanzitutto in Vietnam, può combinare autentici disastri.
E questo mi porta al secondo punto, di cui finora non si è parlato. Secondo Berman la vera ragione dell’ostilità degli arabi e dei musulmani verso gli Stati Uniti è il supporto cha hanno dato a regimi musulmani selvaggi e totalitari. Mi dispiace dire che tutti i sondaggi, inclusi quelli fatti dal Dipartimento di Stato, mostrano senza eccezioni che non è vero. La ragione di gran lunga maggiore dell’ostilità araba e musulmana per gli Stati Uniti è il supporto incondizionato a Israele, di cui si approva qualsiasi scelta, compresa l’occupazione di Gaza e dei territori e i metodi usati per mantenerla. Parlare di democratizzare il mondo arabo e musulmano senza tener conto di questi sentimenti generali, è, per essere gentili, quantomeno contraddittorio.
Questo, almeno, è quello che pensano le masse arabe e musulmane che asseriamo di voler democratizzare. Il caso estremo è l’atteggiamento neocon verso gli arabi e i musulmani, che come Berman saprà bene, consiste nel dire apertamente che gli arabi capiscono solo l’uso della forza – ho sentito con le mie orecchie un leader neocon dire: «Ci odino pure, basta che ci temano» – e allo stesso tempo nel pensare, o far finta di farlo, che questi deprezzati arabi siano in grado di costruire una democrazia. In tutto questo c’è una specie di incoerenza ideologica orwelliana.
Perciò, una delle ragioni della mia diffidenza è che l’esportazione della democrazia mi sembra una deviazione, a volte inconscia e a volte conscia, da problemi immediati più importanti. Uno dei quali è il bisogno di un ruolo americano più attivo nei possibili negoziati tra Israele e Palestina – indirizzo che certo non è emerso durante l’amministrazione Bush, e che francamente, stando a quanto fin qui dichiarato da Kerry, mi sembra molto poco probabile vedere anche in una futura amministrazione democratica.
Tony Blair – il maggiore alleato americano in Medio Oriente, e nella guerra in Iraq, e il maggiore sostenitore internazionale del programma di democratizzazione dell’Iraq – ha detto e ripetuto che una pace giusta tra Israele e Palestina è il fattore più importante per migliorare la situazione in Medio Oriente, e io sono completamente d’accordo.
D’altra parte, c’è un secondo motivo per cui credo che l’idea della democratizzazione sia un falso scopo, e cioè dubito che sia realizzabile a partire dalle strutture sociali ed economiche di gran parte del mondo musulmano. Naturalmente ci sono eccezioni. La democrazia si è dimostrata possibile in Turchia, si sta sviluppando in Malesia, e potrebbe essere possibile anche in Iran, dove nonostante il permanere di un regime teocratico gli elementi di democrazia sono evidenti, e molto più numerosi che in altri paesi ai quali diamo tutto il nostro appoggio. Ma ho l’impressione che a questo riguardo liberali e sinistra abbiano perso parte della loro tradizione intellettuale, tra cui la tradizione marxista, che ha sempre insistito sull’enorme importanza della struttura economica e di classe nel produrre una sovrastruttura politica. In altre parole, pensare che una sovrastruttura democratica possa innestarsi su una struttura nata da società radicalmente diverse, non democratiche, è una contraddizione in termini. Come ho detto, non è una regola generale – ma le somiglia.E poi c’è la questione della tradizione liberale. L’idea liberale dello sviluppo politico deriva in gran parte dalla cosiddetta teoria storica Whig, che postula una graduale distribuzione dei diritti politici alla massa della popolazione. Ma graduale, appunto. L’esempio classico degli storici conservatori era quello della Gran Bretagna, dove ottocento anni fa con la Magna Charta sono nati i moderni diritti politici, che nel tempo – lentamente – sono stati resi accessibili a strati sempre più ampi della popolazione. I conservatori sono da sempre convinti che la crescita delle classi medie inglesi abbia giocato negli ultimi secoli un ruolo fondamentale e imprescindibile. Senza di loro non sarebbe stata possibile la transizione da un governo aristocratico a uno democratico. L’esempio contrario è quello dell’India, cioè di una democrazia basata su quella che ancora oggi è in gran parte una società poverissima. Ma i britannici hanno governato l’India per 130 anni prima di cominciare a introdurre istituzioni rappresentative. Se ricordo bene, all’inizio il diritto di voto era riservato a meno dell’1 per cento della popolazione, la percentuale dei più ricchi, e solo dopo molti decenni i britannici hanno cominciato ad estendere i diritti politici all’intera popolazione indiana. Se pensassi che l’America fosse capace di governare l’Iraq per duecento anni, e dopo circa cento anni di governo potesse gradualmente estendere i diritti alla popolazione, allora sarei abbastanza ottimista. Ma tutto questo nel mondo in cui viviamo è impossibile.E qui torno a quelle che sento come le due contraddizioni della posizione di Berman. La prima è quella tra liberalismo attuale e la democrazia nelle forme da lui auspicate. La seconda è il non aver riconosciuto che l’ostilità musulmana verso l’America e l’Occidente è stata in buona parte originata dalla politica di Israele. Credo che nelle aree del mondo musulmano che conosco meglio, dovremmo combattere il terrorismo con un approccio simile a quello avuto dall’America in Asia e nel Sud-Est asiatico durante la lotta contro il comunismo. Voglio dire che, a torto o a ragione, l’America non si è battuta per i diritti democratici nella Corea del Sud, o a Taiwan durante la guerra di Corea, o in Tailandia e Malesia durante la guerra con il Vietnam. E dal punto di vista economico ha aiutato quesi paesi in misura molto più consistente di quanto faccia oggi con i paesi musulmani. E cosa ancora più importante, se devo per un attimo parlare da liberale, l’America ha deliberatamente tenuto aperti i suoi mercati alle esportazioni di quei paesi per ragioni consapevolmente geopolitiche, in modo che, economicamente rafforzati, costituissero un baluardo contro il comunismo. Se avessimo avuto una strategia, diciamo in Pakistan, basata su idee del genere, sarei ora molto più fiducioso della nostra capacità di vincere. Berman ha detto che l’Afghanistan non è stato affatto al centro della lotta al terrorismo. Sono completamente d’accordo con lui. Ma parliamo del Pakistan, la cui popolazione da sola equivale ai tre quarti di quella dell’intero mondo arabo. Il Pakistan è un paese strategico, sia per il mondo dell’estremismo islamico che per la lotta al terrorismo. E la decisione di andare in guerra in Iraq mi ha francamente inorridito anche perché ha distolto l’attenzione non solo dalla guerra in corso in Afghanistan, ma dalle orribili minacce al futuro della stabilità del subcontinente indiano.

Berman: Lieven contrappone il liberalismo alla democrazia, e ha ragione a farlo. Però, tornando alla storia dell’occupazione dell’ Italia e della Germania dopo la seconda guerra mondiale, ricordiamo che in quel caso un graduale passaggio alla democrazia è stato possibile. Fino al 1989, la Germania rimase un paese a sovranità limitata. Ma, nel tempo, i progressi ci furono. Come? Il primo passo fu, allora, mettere fuori legge l’unico partito esistente, quello nazista. Sostenere che quella mossa sia stata illiberale mi parrebbe ingenuo. Comunque, da lì è cominciato tutto. È possibile immaginare sviluppi simili sia in Iraq che altrove.
Lieven si chiede anche come riconciliare i curdi e le loro tradizioni politiche progressiste degli ultimi anni con quelle di altri elementi della società irachena. Rispondo che è un problema molto difficile, ma non necessariamente insolubile. Ci sono paesi che sono riusciti a superarlo, ed è il genere di questione su cui dovremmo lavorare, anche in Iraq. Abbiamo visto segnali di buona volontà a riguardo da parte di una serie di politici curdi che rivendicano il sostegno popolare.
Lieven mi attribuisce l’opinione che la ragione principale dell’ostilità musulmana verso gli Stati Uniti sia il supporto americano dato ai vari regimi dittatoriali, sostenendo invece che sia quello dato ad Israele. Ma devo replicare che non penso, né volevo dire, che la causa della totale ostilità dei musulmani verso gli Stati Uniti sia il fallimento morale rappresentato dal sostegno americano a regimi dittatoriali. Ho detto che il sostegno americano a questi regimi terribili e la politica ad ampio raggio del divide et impera è stata un fallimento morale, non che sia questa la vera ragione dell’opposizione araba e musulmana agli Stati Uniti. Lieven ha cento volte ragione a sostenere che la grande maggioranza degli arabi e dei musulmani direbbe che la ragione dell’opposizione è il sostegno americano a Israele. Ma vorrei rispondere facendo notare che innanzitutto questo non vale per tutto il mondo musulmano: non vale per i curdi, né forse per i berberi in Algeria eccetera, cioè non vale per le varie minoranze etniche che sono state oppresse. È il risultato delle politiche panarabe.Sono un oppositore di quella che è stata la politica di Israele nei Territori occupati e a Gaza. Sono sempre stato dalla parte della sinistra e del movimento pacifista israeliani. Sono contro l’occupazione israeliana dei Territori e di Gaza per semplici ragioni di giustizia, perché si dovrebbe permettere, incoraggiare e aiutare i palestinesi a sviluppare le loro strutture politiche e la nascita di uno Stato palestinese funzionale, compiuto, libero, economicamente prospero. Sono quindi favorevole a punire e contrastare Israele per quelle che sono state, almeno finora, le sue politiche di insediamento nei Territori e a Gaza. Sono stato un sostenitore del trattato di Oslo che ha portato ai negoziati di Camp David nel 2000, e sostengo ora ogni genere di tentativo che possa riprenderne le linee guida. Ma non credo che la questione arabo-israeliana sia la chiave per quella araba e musulmana; la vedo come un fatto essenzialmente locale. È una questione di confini. A dilatarla oltre questi limiti è stata l’ideologia condivisa da radicali islamici e baathisti, e dal padre o nonno del baathismo, cioè il panarabismo. Secondo il quale la nazione araba e la religione musulmana rischiano di essere disintegrate da una enorme, sinistra e cosmica cospirazione di ebrei e crociati dell’Occidente. È un’ideologia assurda. E in realtà è un’ideologia che ha esplicite e specifiche radici naziste, e tutti i documenti nei quali ha preso forma si rifanno a fonti naziste, come si vede chiaramente nello statuto di Hamas e di gruppi simili. La ragione per cui il conflitto tra israeliani e palestinesi si è dimostrato tanto difficile da risolvere per forze esterne, come gli Stati Uniti, o animate dalle migliori intenzioni, come i paesi europei è proprio la difficoltà di vederlo come un conflitto locale.
Penso quindi che la caduta del Baath in Iraq sia un sostanziale passo in avanti, un passo positivo che dovrebbe essere apprezzato da chiunque abbia a cuore la soluzione del conflitto israeliano-palestinese. Il partito Baath in Iraq è stato uno dei più tenaci oppositori di una soluzione pacifica – vale a dire che è stata una delle più importanti istituzioni del mondo arabo a fare il possibile, e cioè molto, per evitare che venisse accettato un compromesso sui confini. E come tutte le persone ragionevoli sostengono da sempre, la soluzione passa per un compromesso che riporti i confini più o meno a quelli del 1967, che erano molto vicini alla proposta di Clinton accettata da Barak a Camp David. Sono daccordo che la questione tra Israele e Palestina vada risolta, soprattutto per gli israeliani e i palestinesi, ma non eliminerà l’ideologia di cui abbiamo parlato. La delusione di tanti intellettuali nel mondo deriva dal pensare altrimenti. È una delusione, ripeto, che viene dal non riconoscere il carattere ideologico del baathismo, del radicalismo islamico, e di certi aspetti del panarabismo. Un nota su Hannah Arendt. Rileggendo i suoi studi sull’origine del totalitarismo, è interessante notare come indichi nel panslavismo l’origine di quello che poi è divenuto il totalitarismo sovietico, nel pangermanesimo la matrice del nazismo, e in genere le sue argomentazioni su quelli che descrive come i panmovimenti. Chiunque legga Hannah Arendt e poi osservi il Medio Oriente di oggi dovrebbe capire meglio il movimento panarabo.
Per chiudere vorrei parlare della teoria storica Whig evocata da Lieven, e della sua idea che le moderne società libere e democratiche possano essere create solo dopo un periodo di cento anni. Vorrei dire a questo proposito che, in primo luogo, nonostante Lieven si schieri dalla parte di Marx, si dovrebbe riconoscere che le sue posizioni sono più a destra delle mie, e le mie più a sinistra delle sue, visto che io penso che un progresso liberale sia attuabile, anche se non in ogni parte del mondo allo stesso modo. Posso capire i motivi di qualche scetticismo e preoccupazione nei confronti di una società piuttosto primitiva come quella afghana. Ma l’Iraq è una società con università, una classe media, una cultura elevata e una certa tradizione cosmopolita, che sono andate perdute negli ultimi 50 anni circa. Dunque è un paese con quel potenziale, come il vicino Iran. Per cui penso che gli intellettuali, la sinistra e i liberali del mondo occidentale, non debbano voltare le spalle a queste società convinti che non si possa fare niente per loro. Non so dire quanto mi irriti vedere quei movimenti di intellettuali dei paesi occidentali – che solo qualche anno fa si schieravano compatti con i paesi socialisti del Terzo Mondo – agitarsi oggi nello stesso modo contro la solidarietà verso i movimenti progressisti del Terzo Mondo. Davvero credo che sia essenziale sostenere movimenti come la sinistra progressista e liberale in Iraq, i liberali in Afghanistan, e così via.

Lieven: Berman ha citato Hannah Arendt, che come sappiamo era nota per l’atteggiamento estremamente critico nei confronti del sionismo, e non solo, ma per pensare che il progetto sionista – almeno nella forma assunta negli anni Quaranta – avrebbe reso assolutamente inevitabile la resistenza palestinese e ancor più quella araba. Nel nostro contesto la Arendt è una figura molto ambigua. E inoltre la maggioranza dell’intellighenzia liberale presente in molti paesi arabi non fa che ripetere che la politica di Israele e la natura del supporto dato a Israele dagli americani sta mettendo sempre più in difficoltà la propria posizione, dal momento che scredita moralmente l’America, e in un certo senso anche gli ideali democratici nel mondo musulmano.
Detto questo, non credo neanche per un momento che una risoluzione al conflitto arabo-israeliano possa porre fine alla violenza, proprio come il parziale accordo nel conflitto tra Gran Bretagna e Irlanda del 1992 non ha eliminato le violenze tra nazionalisti irlandesi e britannici. Ha ridimensionato però i radicali e la loro capacità di ottenere maggiore sostegno. Più che come un problema in sé, e qui sono parzialmente daccordo con Berman, si dovrebbe vedere Israele come il catalizzatore di un vasto risentimento musulmano originato da trecento anni di declino socioeconomico e culturale e di sconfitte con l’Occidente, ma pur sempre un catalizzatore.
Mentre in passato la maggior parte del mondo musulmano, al di fuori del mondo arabo, non era psicologicamente coinvolto dal conflitto tra Israele e Palestina, ora è diverso. Ho potuto osservare di persona in Pakistan come la popolazione, da un’atteggiamento piuttosto distante, è passata a mettere la questione al centro dei propri problemi con l’America e con l’Occidente.
Risolvere il conflitto arabo-israeliano non è dunque la chiave per eliminare i problemi e le minacce scaturite dal mondo musulmano, ma è un’azione che non va posticipata. Se dovessimo aspettare che il mondo musulmano diventi democratico, posporremmo la soluzione al conflitto arabo-israeliano all’infinito. E in secondo luogo, come insistono gli intellettuali arabi liberali, se il conflitto non si risolve o non si riduce, la soluzione al resto dei problemi diverrà più difficile in conseguenza del calo del nostro prestigio morale agli occhi del mondo musulmano.

Berman: Vorrei rispondere dicendo che mi dispiace molto di non poter essere in disaccordo con niente di quanto detto finora da Lieven.

Lieven: Ma, riprendendo, c’è bisogno di una pressione americana. Sono completamente d’accordo che il Baath, la linea dura iraniana e altre forze musulmane abbiano giocato un ruolo disastroso sostenendo gli estremisti nei campi palestinesi e rendendo più difficile una soluzione, ma penso che si debba riconoscere in tutta sincerità che la lobby israeliana in America, col suo potere sul Congresso e sull’amministrazione, e la durezza delle sue posizioni, a sua volta ha reso molto più difficile la soluzione del problema e di fatto ha impedito per lunghi periodi una vera pressione americana su Israele. Berman ha parlato del nostro dovere di intellettuali occidentali di sostenere i liberali musulmani. Sono d’accordo, ma mentre sostenendoli noi non corriamo alcun rischio, loro mettono in gioco carriera, libertà, salute e persino la vita. Se il dovere dei liberali musulmani è lottare per la libertà del mondo arabo e il nostro è quello di sostenerli, è di certo molto più nostro dovere di intellettuali americani o di intellettuali come me trapiantati in America, lottare pubblicamente e con forza per quanto crediamo sia la soluzione giusta, stabile e necessaria al conflitto arabo-israeliano, non perché risolva tutti i problemi ma perché è difficile persino cominciare a risolverli prima che sia fatto qualche progresso in questa direzione.

Berman: La questione della lobby israeliana negli Stati Uniti e tutto il resto, apre un vasto e complesso dibattito. La prossima volta che MicroMega ci offrirà altre trecento pagine potremo intavolarlo.

(traduzione di Livia Signorini)

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