Esiste davvero lo scontro di civiltà?

Azar Nafisi

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America versus America/1
Esiste davvero lo scontro di civiltà?

di Azar Nafisi / Jhumpa Lahiri


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Significato della letteratura e senso della realtà, immigrazione e assimilazione, razzismo e religione: due scrittrici di grande successo negli Usa – iraniana trapiantata a Washington la prima, e bengalese-inglese-americana la seconda – discutono di cosa significhi vivere negli Usa, specie dopo l’11 settembre.

Azar Nafisi: Scrivere narrativa ha sempre rappresentato per me la massima ambizione. Il mio libro, Leggere Lolita a Teheran, è nato proprio da quest’urgenza, dalla mia curiosità verso la realtà che stavo vivendo e dalle reazioni che mi suscitava. Non sono in grado di scrivere narrativa, ma credo che la mia indagine sulla vita nasca e finisca all’interno di questo lavoro e nella tensione verso la narrazione. A volte, con il nostro smarrimento e le nostre confusioni, riusciamo a sorprendere noi stessi. In parte, il libro, è una conseguenza di questo processo; ma va aggiunto che la realtà che stavamo vivendo in Iran era paragonabile al racconto di un pessimo narratore alle prese con la tua vita e il tuo personaggio. In realtà era un monologo: i sistemi totalitari impongono sempre un monologo alla tua vita. Volevo svincolarmi dalle narrazioni che gli altri avevano creato di me.
Certe volte mi capitava di camminare per strada e chiedermi: «Ma questa sono io?», «Questa è la mia gente?», «Questa è la mia strada?». Era davvero così surreale! Ho scoperto che l’unico modo di restituire questa realtà era attraverso l’elaborazione di una scrittura in grado di narrarla.
Fin da quando ero bambina, la lettura ha rappresentato per me un dialogo a più livelli. In particolare, ritengo che il romanzo abbia una struttura molto democratica. D’altro canto, se sei un bravo scrittore, uno scrittore impegnato nel tuo lavoro e non solo nel messaggio che vuoi trasmettere, politico o morale che sia, devi essere in grado di immedesimarti nei personaggi che crei; hai bisogno di esperirli ad un livello molto profondo.
Nel leggere Henry James, e le descrizioni delle donne meravigliose che ha saputo creare con la sua scrittura, colgo proprio questa capacità. Puoi essere un individuo con molti problemi, ma se sei uno scrittore la tua immaginazione deve funzionare in modo democratico. Questo vale anche per i tuoi personaggi negativi: devi empatizzare con loro per comprenderne la malvagità. Così il romanzo è diventato per me uno strumento per comunicare e controllare la mia realtà.

Jhumpa Lahiri: Vuoi dire che leggere i romanzi scritti da altri ha sostituito la tua realtà?

Nafisi: Leggere i romanzi degli altri è diventato un ponte fra me e una realtà che era insopportabile e, a volte, incomunicabile. Quando si vive sotto regimi estremamente oppressivi, diventa quasi un cliché ricordare sempre il passato: perché si torna con la memoria alla persona amata che non c’è più? Perché si celebra il ritorno alla natura? Perché ci si volge di nuovo all’arte? Penso che tutti questi temi rinnovino un senso di dignità, di integrità, una forma di comunicazione con gli altri che non è brutale. Si tratta di un processo che umanizza noi stessi e gli altri. Per me leggere è stato, e non ha mai smesso di essere, esattamente questo.

Lahiri: Per me leggere e scrivere hanno preso forma simultaneamente quando ero bambina. A sei, sette anni, appena sono stata in grado di leggere più di due parole, ho cominciato a scrivere. Allora non ne ero cosciente, ma ora, riflettendoci, ricordo che all’età di sette anni avevo un forte desiderio di imitare ciò che leggevo nei libri di favole. Da bambina ero molto timida, mi sentivo fuori posto nel mondo in cui ero stata cresciuta, ed ero acutamente cosciente delle differenze che la mia famiglia ed io avevamo rispetto agli altri.
Sono cresciuta negli Stati Uniti, nel Rhode Island, leggendo e, per estensione, scrivendo, dal momento che per me queste due attività sono inseparabili. Credo che leggere fosse un modo per evitare, o per minimizzare, la pressione sociale che sentivo. Penso che molti scrittori, ripensando alla loro infanzia, facciano riferimento a questo stesso elemento. Mi imbarazzava il mio aspetto, il mio nome, il modo in cui parlavano i miei genitori, il modo in cui vestiva mia madre. Avevo la sensazione che la gente ridesse sommessamente di tutte queste cose. Forse era vero, forse era frutto della mia immaginazione o del fatto che ero particolarmente sensibile a queste differenze. Penso che, fin da piccola, avessi intuito qualcosa che era nell’aria in quegli anni. Allora, leggere era il mio modo per ridurre al minimo la relazione con gli altri.
Ricordo che a scuola c’era una pausa fra una lezione e l’altra e gli insegnanti si aspettavano che andassimo fuori a correre, a giocare. Io odiavo questo momento perché non ero brava in nessuna di queste attività e mi sentivo fisicamente goffa e non abbastanza sicura da correre, strillare e appendermi alle sbarre. Quando pioveva invece ero felice perché avevamo il permesso di restare dentro a fare attività tranquille, come leggere o scrivere. Leggere per me era importante, a livello sociale, proprio perché leggevo in inglese, e potevo penetrare nella cultura americana, la cultura occidentale, in un modo che i miei genitori non facevano, non avevano mai fatto, non potevano fare, o non avevano nessun interesse a fare. Era un modo per emanciparmi da loro. Lo vivevo quasi come un tradimento – inconscio, dal momento che avevo solo sei o sette anni. Leggevo favole, classici come quelli di Beatrix Potter; scrittori che i miei genitori non avevano mai sentito nominare. Mi chiedevano chi erano queste persone. «Persone che in America sono dei classici; racconti per bambini che in America sono tradizionali e venerati», riflettevo fra me e me.
A casa parlavamo bengali. Rigorosamente bengali. Così, per me andare a scuola e imparare ha segnato il mio distacco dalla famiglia. Improvvisamente mi sono trovata a parlare in inglese, a leggere in inglese, e a fare cose in maniera relativamente americana. Il mio legame con la lettura credo sia dovuto, in parte, alla mia personalità – la lettura come tentativo di evitare il contatto sociale – e, in parte, al bisogno di rivendicare il mio spazio, superare i confini dell’esistenza o della realtà fornitami dai miei genitori.

Nafisi: Una cosa bella della mia infanzia è stata che, in coincidenza con gli anni in cui iniziarono i cambiamenti nel mio paese, mio padre mi raccontava delle storie: devo aver avuto tre o quattro anni quando ho iniziato un gioco con lui, in cui tutto ciò che voleva raccontarmi della realtà lo trasformava in un racconto. Se c’era qualcosa che avevo fatto che non gli piaceva, narrava che c’era un padre che aveva grandi speranze e aveva una bambina, e così via. Poi, a mia volta, inventavo una storia per lui.
Le storie, in qualche modo, diventano un rifugio dalla realtà che non vogliamo affrontare. Leggere per me era un atto così naturale che mi sono resa conto di come fosse diventato un rifugio solo durante la Repubblica islamica. Quando vivevo in Inghilterra ero sola e leggevo tutto il tempo; era l’unica cosa che potessi fare. Prendevo la mia borsa calda e leggevo Emily Dickinson. In qualche modo leggere ti protegge dalla solitudine. Poi ho scoperto di avere un «talento.» Ero molto indecisa e insicura nelle relazioni, ma ero molto sicura quando parlavo di libri. Nei saggi che scrivevo a scuola prendevo sempre ottimi voti. Scrivere e parlare di letteratura mi aveva sempre procurato degli ottimi voti.
A proposito della scrittura, vorrei aggiungere che, se sei iraniana, diversamente da ciò che succede agli occidentali, specialmente oggi, ti chiedono sempre: «Perché non hai parlato dei classici iraniani, perché hai scritto sull’Occidente?». Alcune persone mi accusano d’essere filo-americana o filo-occidentale perché ho scritto su Gatsby. Uno dei motivi di questa scelta è che le storie che vuoi scrivere ti giungono dai posti più impensati. Mio padre mi portava da leggere sia storie tradizionali sia occidentali, come per esempio Huck Finn. A dodici anni ho cominciato a leggere contemporaneamente gli scrittori russi e Balzac. Ricordo che in Italia leggevo Alberto Moravia. Non facevo distinzioni. Non mi è mai successo di pensare che Moravia fosse italiano e Flaubert francese. Per me erano solo dei bei libri. Tuttora non capisco la logica di quelli che ti dicono che dovresti scrivere del paese dove sei nato.
Ho sempre avuto la sensazione di vivere in due fusi orari contemporaneamente; penso di aver sempre vissuto almeno su due livelli. Ho sempre posseduto un mondo immaginario. Come molti bambini, anch’io avevo un amico creato dalla mia fantasia. Non era né un coniglio né una bambola, bensì un amico, e aveva un nome e facevamo lunghissime conversazioni. Tuttora scrivo come se stessi intrattenendo una lunga conversazione. Ripensandoci, credo che fosse un modo per sfuggire dalle cose molto spiacevoli che vivevo. Dalla mia relazione con mia madre, all’andare in Inghilterra; dalla sensazione che mi avevano abbandonato e tradito mandandomi così giovane in un posto dove ero l’unica straniera della scuola e mi chiedevano se mio padre era veramente uno che viaggiava in cammello. In Inghilterra ridevano dei cammelli, e io sentivo continuamente il bisogno di auto-definirmi e definire il mio esotismo. Si tratta di quel tipo di esotismo che spinge i ragazzi a voler uscire con te non perché sei inglese, ma proprio perché non lo sei. È stato più tardi, durante la Repubblica iraniana che ho scelto, nei miei sogni, l’America. Quando sono tornata in Iran sognavo l’America a colori.
La mia vita è stata un po’ come sognare i due mondi che non ho mai avuto. Suppongo che questo sia il motivo per cui si finisce per scrivere qualcosa di sconnesso e inaccessibile.

Lahiri: In America, però, qualcosa è cambiato in questi ultimi due anni dopo l’11 settembre. Vivo a New York, e quel giorno mi trovavo a qualche miglio dal World Trade Center. I due anni trascorsi da quel giorno sono stati un periodo molto interessante. Da un lato mi sento enormemente privilegiata perché vivo a New York. Nonostante sia stata l’epicentro dell’attacco dell’11 settembre e ne sia ormai il simbolo, sento che, di tutti i posti degli Stati Uniti, New York è il più tollerante, il più cosmopolita. È il luogo dove la gente, durante quei mesi, ha veramente manifestato la propria posizione. Vivo a Brooklyn, dove c’è una vasta comunità arabo-americana e d’immigrati arabi, e la gente in questo quartiere si è veramente impegnata a prenotare taxi di tassisti arabi, a frequentare le botteghe di falafel, i piccoli negozi dove la gente lavora e si guadagna da vivere. Ho apprezzato moltissimo questi gesti.
D’altro canto, subito dopo l’attacco, ho provato molta paura. Ci sono stati numerosi omicidi: a quel punto il nemico era qualsiasi persona proveniente da un paese compreso nell’area fra il Bangladesh e la Siria; chiunque provenisse dalla Giordania era guardato con sospetto e anche alcuni indiani sono stati uccisi. Questa è l’America al suo peggio, anche perché all’improvviso siamo diventati semplicemente una massa di gente che veniva da quella parte del mondo e nessuno sembrava più in grado di fare distinzioni. Il mio cognome è Lahiri. La gente può davvero essere ingenua su queste cose. Ero in ansia non tanto per me quanto per i miei genitori. Vivono in una piccola comunità dove la gente, in generale, è meno tollerante e dove la loro presenza salta agli occhi molto più vistosamente.
Vorrei raccontare un aneddoto: l’altro giorno stavo tornando a casa in metropolitana. Mi trovavo seduta fra due donne, due musulmane. Era difficile dire di dove fossero: potevano essere pakistane, indiane o medio-orientali. Una delle due portava un velo che la copriva tutta, si potevano solo intravedere gli occhi. Sul vagone c’era un’altra donna, un po’ squilibrata, che ha cominciato ad attaccarle verbalmente: «Avete fatto saltare il World Trade Center! Come vi permettete di andare in giro vestite in questo modo! Mostrate i vostri volti! Vergognatevi, qui siamo in America!» e via dicendo. Alla fine, alcune persone hanno alzato gli occhi dai loro giornali e si sono rese conto delle parole della donna. Sono successe due cose interessanti. Una, a mia gran consolazione, è che la gente ha cominciato a dirle: «Non è giusto, non dica queste cose, qui siamo in America!». E questa è l’America al suo meglio. L’America è un posto complicato e incredibile, che io amo e odio. Penso che sia allo stesso tempo un luogo protetto e un luogo mediocre e niente affatto illuminato. La gente affermava: «Questa è l’America, dobbiamo dare il benvenuto a tutti, accettare tutto». Difendevano le due donne che, dal canto loro, non dicevano nulla e se ne stavano completamente in silenzio ma visibilmente turbate, perché avevano capito il senso delle parole della donna.
Da un lato ero molto confortata dal fatto che la maggior parte della gente sulla metropolitana difendesse le due donne apertamente. Allo stesso tempo, però, la donna velata era seduta proprio accanto a me e mi sono domandata perché fosse stata attaccata lei e non me. E la ragione è una serie di dettagli completamente arbitrari: io indossavo un paio di pantaloni e non portavo il velo – non sono musulmana – ma forse non contava neppure questo. Agli occhi della donna squilibrata, ciò che contava era che la donna velata provenisse, vagamente, da quella parte del mondo. Ho provato una sensazione che avevo avuto altre volte quando uscivo con mia madre, che indossa gli abiti tradizionali e porta il bhindi sulla fronte; questi elementi sono sempre notati, commentati, e non in maniera gentile. Ho provato una sorta di senso di colpa, dovuto al fatto che per via dei miei abiti o del mio aspetto – qualcosa di assolutamente superficiale – io non ero la vittima dell’attacco che stava subendo la donna con il velo. Paradossalmente, quella donna squilibrata non sapeva che anch’io possiedo implicitamente quei due mondi, che nell’immigrante sono solo più visibili.
Credo che questa sia una delle cose che cerco di esplorare nella mia scrittura e nel mio romanzo: questa differenza fra gli immigrati e la generazione successiva. I due mondi dell’immigrato sono più o meno definiti in quanto c’è una patria, c’e’ il nuovo mondo, e la relazione fra i due luoghi. Per il figlio degli immigrati, invece, i due mondi rappresentano più un’esperienza interna, privata, emotiva poiché non esiste più la patria, non c’è nessun altro mondo di cui sentire la mancanza. Per me i due mondi sono legati alla mia relazione con la mia famiglia. Non si tratta tanto di un luogo ma di persone, di individui.
Comunque, per tornare all’episodio della metropolitana, volevo solo dare un esempio di come sono le cose negli Stati Uniti ora. Anche in un luogo come New York, tollerante com’è, ci saranno sempre persone squilibrate, o forse anche non particolarmente squilibrate, che pensano in modi davvero preoccupanti.

Nafisi: Una delle lezioni che ho imparato è che sia la brutalità sia la compassione non sono geograficamente collocabili. È spaventoso pensare che non ci sia un posto dove sentirsi sicuri e immuni. Nell’arco di poco tempo, persone che all’inizio erano molto gentili con te, per qualche ragione possono diventare i tuoi nemici. L’esempio più evidente è quello di Abu Ghraib. Ai miei amici americani dico che ciò mostra che sia gli americani sia gli iracheni sono capaci delle peggiori azioni; ciò che ci salva è il sistema di controlli ed equilibri. Abbiamo bisogno della democrazia per poter diventare più umani e più responsabili. Se ci troviamo in un luogo dove crediamo che nessuno ci veda, possiamo scegliere se agire bene o male. Nel caso di Abu Ghraib le persone hanno agito male, ma so che c’è anche la possibilità che la gente decida di agire bene.
Le mie esperienze americane sono così paradossali che ci vorrebbe un bel po’ per spiegarle. A proposito dell’11 settembre, è stato interessante osservare le reazioni immediate. Alcuni miei amici religiosi, mi hanno raccontato di come le loro chiese abbiano organizzato delle visite presso i centri musulmani per informare le comunità locali che loro gli erano amici, così come lo erano i loro vicini e i loro conoscenti. L’America è un posto dove i musulmani si sono assimilati in molti modi. Quest’ultimo aspetto, che potrebbe essere considerato negativo, in realtà è anche positivo, poiché ti permette, in quanto immigrante, di venire qui e in pochi anni diventare un arabo-americano, un iraniano-americano, un asiatico-americano. Per queste persone la posta in gioco è molto alta e non vogliono perdere le loro posizioni. L’«estremismo islamico», quindi, potrebbe essere strumentalizzato dalla gente che vuole la nostra fetta di società. In Francia, per esempio, gran parte della popolazione islamica non si è integrata o assimilata.
Gli Stati Uniti sono anche una società molto brutale. La mia critica non si concentra tanto sulla popolazione. A questo proposito, il successo del mio libro mi ha molto sorpreso. Nel 2003 ho visitato i posti più reconditi degli Stati Uniti. È un’operazione che ho fatto intenzionalmente. Non volevo andare nei centri dove mi sentivo a casa: New York, San Francisco, Washington D.C. sono città dove non ho alcun problema. Sono voluta andare nei piccoli centri del Milwaukee, del Kansas, dell’Ohio. La gente è stata straordinaria; sono venuti a centinaia. Dopo il mio intervento mi chiedevano: «Ci vergognamo, cosa possiamo fare?». «Dove possiamo andare?». «A chi possiamo scrivere?». Io non avevo risposte precise e gli consigliavo di rivolgersi ad Amnesty International, di fare pressione sul loro rappresentante al Congresso, di votare per la gente giusta, e altre cose del genere.
Invece, per tornare al discorso di prima, una delle cose di cui mi lamento è la superficialità: c’è una cultura che dà spazio troppo facilmente allo stereotipo. Tu mostravi cosa produce lo stereotipo con un esempio negativo, ma io mi arrabbio anche quando la gente ci guarda senza riflettere sul fatto che veniamo da quei paesi, giudicandoci invece delle occidentali. Così, tanti giornalisti intelligenti mi dicono: «Ma tu non sei iraniana, sei occidentale». Gli chiedo: «Secondo voi esiste solo un tipo di iraniana, quella con il velo?». Oppure, di noi dicono cose come «questa è la loro cultura, e non dovremmo criticarli». Lo trovo molto offensivo.
La gente va criticata e rispettata; non insultata, ma criticata. Oggi, il governo americano è al centro delle critiche, non solo da parte degli europei, ma degli stessi americani. Gli americani ritengono il loro governo e la loro gente responsabili, perché avrebbero dovuto agire meglio. E invece non ritengono la mia gente responsabile. La «nostra cultura» ci solleverebbe dalla responsabilità. Questa è una cosa che mi fa veramente rabbia. Così ribatto: «Ma come vi permettete! Come vi permettete di affermare che la mia cultura consiste nell’essere fustigati, o mutilati?». Andate a ristudiare il vostro medioevo; la caccia alle streghe faceva parte della vostra cultura? La schiavitù faceva parte della vostra cultura? Tutti abbiamo delle macchie nella nostra storia da nascondere. Nessuna nazione è esclusa dalla brutalità. Il cuore dell’Europa è stato il centro del genocidio più brutale del XX secolo. Non sono particolarmente preoccupata se la gente afferma che la fustigazione o la lapidazione sono brutali, ma sono preoccupata del fatto che qui manchi un dialogo critico fra ciò che chiamano il mondo musulmano e l’Occidente.
Il signor Huntigton può dichiarare che non è possibile educare gli indigeni e che bisogna lasciare che si uccidano l’un l’altro; qualche voce dell’estrema sinistra, o qualche buon intenzionato progressista, afferma che «le culture indigene vanno rispettate». Non accetto nemmeno questa posizione. Continuo a ricordare agli americani che la mia famiglia ha vissuto 800 anni in Iran, mia madre si dichiara musulmana, io ho il diritto di non essere occidentale, ma di essere semplicemente un essere umano.

Lahiri: Ci sono forme di relativismo che rimuovono la questione e non si mettono veramente in relazione con la situazione. Nel dire: «Sono diversi» c’è una certa dose di chiusura mentale.

Nafisi: Ricordi che in America, dopo l’11 settembre, la gente era davvero cordiale con i musulmani? Ma ricordi pure tutti i musulmani che sono stati intervistati in televisione? Erano tutti uomini con la barba. Non c’era quasi mai una donna velata. Raramente se ne vedeva una, ma se appariva una donna musulmana, era sicuramente velata. A quel tempo chiesi ad un giornalista se, parlando del popolo ebraico, avrebbe mostrato solo uomini chassidici, o parlando di cristiani solo mormoni. Ci sono molto diversità. Occorre mostrare un uomo con la barba, un musulmano con il turbante e uno con la cravatta per mostrare questa diversità e per permettere al popolo americano di abituarsi a queste immagini. Classificandoti, la gente insulta la tua intelligenza, proprio come accadeva nel nostro paese, dove, in quanto musulmani, ci sentivamo definiti da Khomeini. Ora veniamo in Occidente e questa gente meravigliosa vuole definire come dovremmo essere. Certo, la differenza è che ora posso scrivere il mio libro e che posso parlarti di queste cose. Non potrei scrivere i miei libri in Iran, questo è chiaro. Ciò non giustifica la situazione. La cosa peggiore è che ora, quando parliamo di queste atrocità – Abu Ghraib, per esempio – ti senti dire che, se non altro, qui abbiamo un sistema di controlli ed equilibri. Ed è vero, ma ciò non assolve quelle atrocità. Vogliamo qualcosa di meglio e non di peggio.

Lahiri: Le tue parole mi hanno fatto pensare ai modi in cui sono stata classificata in America quando, grazie al Pulitzer, ho cominciato ad avere un certo successo. Sono stata descritta in ogni modo possibile, ma mai accurato. È stata una lezione importante perché ho capito che nel diventare una scrittrice sono in grado di elevarmi al di sopra delle etichette che mi avevano definito in passato: le aspettative, sempre conflittuali, di essere una ragazza bengalese, e di essere una ragazza americana.
Da una parte la mia scrittura mi permette di sfuggire alla realtà; ma non appena si diventa un autore, la mente del pubblico ricrea quelle stesse trappole che ti classificano e definiscono. Il pubblico, infatti, sente il bisogno di definirti e di spiegarsi chi sei. All’inizio era molto frustrante perché il pubblico mi indicava come una scrittrice indiana. E io rispondevo: «Beh, veramente, lasciatemi spiegare, non ho mai vissuto in India, non sono nata in India. Sì, mi è capitato di avere dei genitori indiani, quindi, in un certo senso sono indiana per via ereditaria, ma sono cresciuta in America». Altri mi dicevano: «Sei completamente americana», e io replicavo: «Sì, in un certo senso, ma sono nata a Londra…». Quindi, ero sempre intenta a spiegare la parte mancante perché il pubblico non riusciva a vedere il quadro intero.
Anche in India è stato molto interessante, perché una volta che il mio libro è diventato famoso, anche lì c’è stato molto entusiasmo. Improvvisamente sono stata acclamata come una giovane bengalese, indigena, cresciuta lì eccetera. In parte, credo che fosse solo una questione d’orgoglio e buone intenzioni; ma c’era un lato che mi turbava. Per tutta la vita, infatti, ho sempre odiato essere classificata, dal momento che queste descrizioni non rispecchiano mai tutta la verità. Ho sempre l’impressione che siano delle imposizioni e, in particolare, delle imposizioni inesatte. All’inizio mi sentivo schernita da queste definizioni che mi venivano attribuite, ora mi rendo conto che la gente può dire ciò che vuole – in fondo c’è sempre un po’ di verità in quel che dice – e che si tratta della loro percezione, non della mia realtà. Io so chi sono. Ora posso dire che sono consapevole di come sono cresciuta, so chi sono i miei genitori, conosco il mondo in cui vivo e non ha importanza per me che io sia definita in un certo modo perché per me ciò che conta è l’esperienza di scrivere, è questa forma di meditazione. Non è il libro pubblicato, non è cosa scrivono di me sui giornali o come mi presentano quando leggo i miei lavori in pubblico o faccio un’intervista. Se queste descrizioni sono leggermente imprecise, che posso farci? Non posso controllare il modo in cui la gente mi vede. Posso solo controllare cosa faccio io. In ogni modo, da un punto di vista puramente legale sono una cittadina americana.

Nafisi: Io ho la carta verde e, quindi, non posso votare. Sono sollevata da qualsiasi responsabilità.

Lahiri: Io invece posso votare, anche se l’idea della cittadinanza per me è assolutamente arbitraria. Sono nata a Londra; da bambina ero registrata sul passaporto indiano di mia madre. I miei genitori non hanno mai chiesto un passaporto britannico, quindi ero stata aggiunta sul passaporto indiano di mia madre. Fino a quando non ho compiuto 18 anni sono stata una cittadina indiana, cosa che mi infastidiva non poco perché sentivo che giustificava mia madre a dichiarare che ero indiana. Questa era una questione fondamentale per loro: il giorno in cui mia madre ha ottenuto la cittadinanza americana è stato un giorno di lutto e di pianto per via del simbolismo legato a quest’atto. I miei genitori sono diventati cittadini per motivi pratici, motivi che Huntington, nel suo libro, trova sbagliati: per beneficiare dell’assistenza sociale, dal momento che hanno lavorato tutta la vita negli Stati Uniti, hanno pagato le tasse e contribuito al sostentamento di questo paese.
Sono diventata cittadina americana a 18 anni, prima di andare all’università, perché mio padre pensava che sarebbe stato più facile per me integrarmi se fossi stata una cittadina e non una studentessa straniera. Per motivi logistici ho fatto il test e il giuramento e poi ho ottenuto il mio passaporto americano. Ora sono ben felice di votare. Di lì a poco ho fatto richiesta del passaporto britannico. Per qualche ragione era importante per me averli entrambi. Ma non mi sono mai sentita in grado di alzarmi nel mezzo di una stanza e dichiarare a tutti «sono americana». Sentivo che prima di tutto sarebbe stato un tradimento nei confronti dei miei genitori.
All’aeroporto, in ogni caso, anche se mostri il passaporto americano, continuano a considerare solo il tuo aspetto. È sempre stato così, specialmente se non hai un aspetto europeo. L’America è ancora a maggioranza europea, di sangue europeo, ed esiste ancora una forma di razzismo per cui la gente continua a guardare il colore della pelle. I miei genitori hanno sempre seguito attivamente la situazione politica mondiale, e grazie a questo mi sono resa conto della varietà delle persone che vivono nel resto del mondo. Sembra che questo aspetto non interessi particolarmente gli americani, che restano invece indifferenti a tutto ciò che accade nel resto del mondo. Crescendo negli anni Settanta, durante la guerra in Vietnam, si aveva l’impressione che il mondo si stesse sgretolando, e i miei genitori e i loro amici erano molto coinvolti, e passavano ore a discutere, anche se non potevano votare. Non avevano alcuna influenza sul governo. Fin da bambina ho sentito che non facevo parte di quel «noi» a cui si richiamano gli americani quando dicono «Noi non facciamo questo; noi non lapidiamo la gente». Nonostante possedessi il passaporto, non mi sentivo parte di quel «noi» semplicemente per via del modo in cui ero cresciuta.
Ho sempre mantenuto una posizione critica, specie verso la politica estera americana. Ricordo che, anche durante la crisi degli ostaggi in Iran – devo aver avuto dieci anni – la gente del mio quartiere metteva delle coccarde sulle proprie cassette delle lettere. I miei genitori, benché non fossero contrari a questo gesto, non si sentivano di farlo.
Penso che quando uno è un immigrato, o anche figlio di immigrati, occupa una posizione molto particolare. Dipende ovviamente da molte cose, perché molti amici dei miei genitori, che provenivano dallo stesso ambiente, hanno realmente abbracciato l’idea di essere americani. Gli immigrati sono di molti tipi: c’è chi arriva e e nel giro di due giorni già dice: «Chiamami John» e mangia con il coltello e la forchetta. Poi c’è il tipo opposto, molto nostalgico, come i miei genitori, che resta attaccato al mondo perduto.
L’idea di immigrazione è così complicata e così diversificata. Mi piacerebbe che gli americani capissero con maggior attenzione i vari motivi che attirano la gente da diverse parti del mondo verso l’America. Vorrei che capissero che ci sono persone venute per sfuggire alle persecuzioni politiche e persone che desideravano una vita migliore. E queste due ragioni sono già di per sé ben diverse. Le motivazioni per lasciare il proprio paese influenzano l’atteggiamento degli immigrati. Penso che la situazione degli iraniani in America sia completamente diversa da quella, per esempio, della maggioranza degli indiani-americani. I miei genitori avrebbero potuto condurre una vita tranquilla in India, non avrebbero sofferto in alcun modo, ma mio padre decise di venire in America insieme ad altre centinaia di migliaia di indiani. Deve esserci stato qualcosa che li ha spinti via, ma non c’era un’unica motivazione per tutti. Credo che gli americani non sempre comprendano queste diverse motivazioni che determinano chi siamo. Credo che, in qualche modo, ogni posizione sia degna di rispetto. C’è un bisogno umano di appartenenza. Da una parte capisco che ci sia un’esigenza di assimilarsi completamente; dall’altra credo che ci sia un desiderio umano di aggrapparsi, di desiderare e sentire la mancanza della gente e del luogo che si ama e che si conosce. Queste sono entrambe necessità reali e molto forti negli esseri umani.

Nafisi: Ripensando a quest’urgenza, a queste necessità a cui ti riferisci, credo che questo sia il motivo per cui la scrittura è così importante, e una delle ragioni per cui mi sono sentita così vicina a Nabokov. Sentivo che avendo perduto tutto ciò che amava, specialmente la lingua, Lolita, come lui stesso ha affermato, ha rappresentato la sua storia d’amore con la lingua inglese; gli ha permesso di creare la sua casa e di sentirsi a casa. La casa sono i libri. Aveva perduto le sfumature di quella Russia che non sarebbe più tornata, perché in quanto immigrante, una volta che torni indietro, non trovi più la casa che hai lasciato. Questa è una sensazione provata – non da me personalmente – ma da molti iraniani che tornano a Teheran, e affermano che non è più la stessa Teheran che conoscevano. È come il tuo primo amore. Lo incontri di nuovo dopo trent’anni e lo trovi imbolsito, i suoi capelli sono diversi e cammina in modo diverso. È veramente lui? È lui. Ma non veramente. In un certo senso, una volta che la lasci, la casa non esiste più. Ho sempre scritto, ma quando sono andata in Iran scrivere è diventata un’urgenza che dovevo recuperare. Come diceva Nabokov, era «una prova definitiva che ho vissuto». In America ci sono tutti questi autori che vengono da tanti posti diversi, e che hanno nomi impossibili da pronunciare, come i nostri per esempio. È molto strano per me pensare che ora il mio libro sia accanto a quello, per esempio, di un ebreo americano proveniente dal Canada o dall’Europa o di una donna afro-americana. Siamo tutti lì insieme in un mucchio. Mi sono resa conto che leggendo le nostre esperienze, fittizie e reali, il pubblico è in grado di approfondire la propria esperienza. Quando prima ti riferivi alla difficoltà del pubblico di capire da dove veniamo, ritengo che queste informazioni non gli arriveranno dai notiziari delle televisioni americane, che ormai sono diventati dei cliché.
Prima dell’11 settembre si occupavano dell’omicidio di Lacey Peterson (1) e la gente parlava solo di questo. Poi, l’11 settembre ha introdotto i ritagli del mondo all’interno dei media. In ogni modo, non è li che troveranno le informazioni. È attraverso i libri, forse i film, ma soprattutto i libri che la gente può osservare altre vite e dire: «Ah, questa ragazza in Iran che non ha mai lasciato il suo paese, s’innamora esattamente come me. Le piace essere toccata come me. Trova Jane Austen affascinante». È la sorpresa del riconoscimento dello straniero in te, o del familiare nello straniero. Questo è ciò che per me dà valore alla lettura e alla scrittura all’interno di un mondo di cui non mi posso assolutamente fidare. Devo tornare all’esperienza diretta della gente.
La narrativa per me ha a che fare con l’esperienza di prima mano. Non riguarda la realtà, ma la verità. In America, così come in Iran, ci sono delle realtà. Il mio modo di trattarle è, di nuovo, narrativo. Non ho avuto le stesse esperienze nei due paesi. Personalmente non sono mai stata né offesa né insultata per via della mia famiglia da nessun americano. Gli americani, anzi, sono stati molto generosi con me. Ma quel che ho trovato profondamente umiliante è che, venuta negli Usa, i dipartimenti di letteratura inglese hanno dimostrato di non essere interessati ad una donna proveniente dal mondo musulmano che insegnava inglese. Era una cosa impercettibile. Non me lo dicevano direttamente, ma venivo sempre relegata nei dipartimenti di studi islamici o in quelli di Women’s studies. Una volta, mentre stavo presentando la domanda per una borsa di studio, una donna mi ha detto: «Questa è per gente molto importante» e ho sentito immediatamente che non mi avrebbero fatto insegnare Jane Austen. L’unico modo per parlare di Jane Austen era tenere un corso chiamato Cultura e politica, dove avrei insegnato tutto, incluso Austen e Fitzgerald. Solo dopo aver scritto il libro la gente ha cominciato a chiedermi di scrivere su Fitzgerald e su altri autori. Poi qualche connazionale si è risentito, e mi è stato detto: «Non eravamo abbastanza buoni per te». Certo che eravate abbastanza buoni, ma io ho sempre letto la letteratura inglese! Mi sono laureata in letteratura inglese e ho insegnato letteratura inglese, come posso insegnare Shehrazade – che peraltro adoro e uso sempre per introdurre le mie lezioni – se sono preparata su Jane Austen!
Sul mio paese ho imparato moltissimo attraverso le cose scritte dagli stranieri. Anche i più razzisti hanno talvolta intuizioni straordinarie. Gertrude Bell era così affascinata dalla nostra cultura che ha tradotto Hafez. Vorrei che le culture reagissero così: io parlo di Austen, loro parlano degli autori iraniani. Questa è una possibilità che l’America, più di altri posti nel mondo, è in grado di offrire. È un paese molto ricco. È un paese molto diversificato e la gente crea le proprie isole. Ciò che mi spaventa, però, è l’ignoranza, ma non l’ignoranza della gente di buon senso. Infatti, quando parlo con la gente comune sono capita immediatamente. Non devo stare a spiegare che dovrebbero appoggiare gli studenti in Iran, perché molti sono già ben disposti verso di loro e capiscono la situazione. Ad altri, gli slogan di questi studenti – «Libertà ai prigionieri politici» e «Libertà d’espressione» – piacciono più delle parole dell’ayatollah: «Fustighiamo tutte le donne che non portano il velo», e capiscono che sostenerli va anche a loro vantaggio.
Si dice che i diritti umani sono una cosa dell’Occidente. Incredibile! Ricordate quando è stata pubblicata la Carta dei diritti umani? Molti paesi occidentali non erano affatto favorevoli! Molti paesi del Terzo Mondo, che ora diciamo che sono contrari al rispetto di quei diritti, avevano invece firmato l’accordo. Uno degli slogan durante la rivoluzione costituzionale iraniana all’inizio del XX secolo era: «Fraternità, libertà ed uguaglianza»!
Per farla breve, penso che dovremmo combattere questa ignoranza. La strada migliore per combatterla non è dichiarare: «Io sono iraniano» o: «Io sono americano». Esiste uno spazio che è quello dei cittadini del mondo. Vorrei farne parte. Arrivo in Italia e con certe persone mi sento a casa, con altre probabilmente meno; in America ho trovato la stessa situazione; in Iran mi sta succedendo la stessa cosa. Cerco di tenere il mondo in un formato portatile. Non voglio più prendermi la responsabilità di una patria illusoria. Ma apprezzo la mia America e penso che l’Iran sia il mio primo amore. Non so come sia per te, Jhumpa. Forse per i tuoi genitori c’è la nostalgia. Per me la nostalgia è una ferita. Una volta tornata in Iran le grandi attese sono state ferite. Nello stesso modo l’America è come Gatsby: il sogno non dovrebbe diventare realtà.
Ci sono molte cose dei nostri genitori di cui ci lamentiamo. Ma una cosa che veramente apprezzo è che prima di tutto hanno voluto che ricevessi un’istruzione. L’unica condizione che mi veniva posta, in vari momenti della mia vita, era: «Dovunque tu sia dovrai completare i tuoi studi». Per farmi un complimento, ricordo che mia madre ha dichiarato al mio attuale marito che non sapevo rifare il letto. Gli ha detto: «Aveva sempre la testa nei libri. Ricordati questo di lei». Penso che questo mi abbia resa libera, altrimenti non avrei potuto viaggiare come ho fatto finora.
La mia famiglia è culturalmente un po’ snob. Snobbavamo gli altri perché erano troppo ricchi o perché accettavano delle cariche troppo alte; ma nella nostra famiglia era fondamentale essere istruiti. In parte è dovuto al ramo dell’islam al quale apparteneva la mia famiglia. Si sentivano, in qualche modo, perseguitati. Erano sciafiiti. Si tratta di un ramo che nel XIX secolo diede una versione in qualche modo intellettualizzata dell’islam. Il lato paterno della mia famiglia aderiva a questa corrente. Quando ci fu la rivoluzione, il leader di quella setta fu ucciso. Furono uccisi molti musulmani e molti sunniti furono perseguitati. Entrambi i miei genitori hanno vissuto l’esperienza di sentirsi musulmani ma profondamente laici. La nostra famiglia, infatti, era profondamente laica. Dio era una sorta di strana creatura con cui si intratteneva un dialogo. Ricordo che una notte, avrò avuto sei o sette anni, prima di andare a dormire, chiesi a mio padre: «Posso parlare con Dio?», e lui mi rispose: «Non solo puoi parlare con lui, ma se sei arrabbiata con lui puoi anche dirglielo». Ho continuato a seguire questo consiglio fino a vent’anni. Non sono mai stata parte di una religione, né ho mai provato un senso di avversione per la religione. La rivoluzione mi ha resa scettica come non lo ero mai stata prima. Ora ho trovato un equilibrio. Voglio che i miei figli scelgano da soli. Voglio che si sentano assolutamente liberi. Non li incoraggio né li scoraggio. Non li spingo né a recitare le loro preghiere giornaliere né a non farlo. Li lascio liberi. La famiglia di mio marito, non lui, era baha’i, un gruppo perseguitato in Iran come gli ebrei nella Germania nazista. I miei figli, per quanto mi riguarda, possono scegliere di diventare musulmani, cristiani o atei.

Lahiri: Io non sono cresciuta con una coscienza religiosa. Ma i miei genitori sono indù per nascita e si sono sposati secondo un rito indù, con un matrimonio combinato; da adolescente, mio padre ha seguito il rito di passaggio previsto per gli uomini, e loro sono cresciuti all’interno di questa tradizione. Per quel poco che so, questa religione è molto aperta. La puoi interpretare a modo tuo. Non è organizzata come molte delle religioni occidentali. La gente pratica nelle proprie case, ha i propri piccoli altari. I miei genitori sono fortemente atei per via del loro credo politico: erano sostenitori di un governo marxista. Sono cresciuti in un’epoca in cui quelle convinzioni erano fondamentali per loro società. Mio padre, quando ero molto giovane, mi parlava di Karl Marx che scriveva nella British Library. Mi portò li e mi mostrò il tavolo dove Marx aveva lavorato. Sono cresciuta così. Vivendo negli Stati Uniti, negli anni Ottanta, ho sempre temuto che sarebbero venuti a casa ad arrestare i miei genitori perché aderivano troppo alle posizioni dell’estrema sinistra. Mi hanno insegnato a rispettare tutte le religioni perché ritengono che la religione non sia una cosa negativa per principio; rispettano la filosofia sottesa a ogni religione. Su questo punto sono d’accordo con loro. Penso che la religione sia un principio organizzativo alla base di tutte le civiltà: gli esseri umani hanno bisogno di avere spiegazioni su perché viviamo, perché moriamo, come accadono le cose, cosa dovremmo fare, e cosa non dovremmo fare. Questa è la radice della religione. Chi ci ha dato la vita? Chi ci ha dato un mondo? Mi è stato insegnato a capire, a tollerare e a rispettare le convinzioni religiose e le pratiche degli altri, ma non mi è stata mai insegnata una fede religiosa. Credo che i miei genitori mi abbiano educata come una persona con delle convinzioni morali ma senza attribuire alcuna di quelle convinzioni ad una religione particolare, né all’induismo né a nessun’altra. Credo che i miei genitori sarebbero rimasti veramente sbalorditi e delusi se all’improvviso avessi dichiarato: «Comincerò ad andare al tempio». Sì, credo che sarebbero rimasti turbati. Anche mia sorella all’università, ad un certo punto, parlava di specializzarsi in storia delle religioni e solo all’idea di studiare questa materia da un punto di vista accademico mia madre ha esclamato: «Ah, non so se è una buona idea». Questo per darti un’idea dei miei genitori. Credo comunque che la religione sia una cosa alla quale non si possa sfuggire.
A proposito dell’ignoranza degli americani, una delle cose che mi affascina è il fatto che attribuiscano la maggior parte dei problemi del mondo al fondamentalismo. Ma pensandoci bene, il numero di fondamentalisti cristiani, incluso il presidente, è assolutamente sorprendente. Chiaramente la gente non riflette su questo. Nessuno, naturalmente, dichiara di essere un fanatico religioso, eppure ci sono centinaia di migliaia di «Born Again Christians» negli Usa che controllano il governo. Le religioni nel mondo hanno prodotto grandi capolavori artistici e hanno dato importanti contributi alla società. Come si fa a venire in Italia e non apprezzare, dal punto di vista estetico, gli effetti della religione? Per me questo rappresenta la vera esperienza umana. Per non parlare dell’influenza della religione sulla musica, sulla letteratura. In ogni modo, nonostante la religione abbia contribuito a molti aspetti positivi, direi, in generale, che le conseguenze sono state negative, specialmente pensando alla religione organizzata.
Dalla mia famiglia ho imparato a capire il ruolo della religione e la sua funzione nel mondo. Per quanto riguarda mio figlio, non saprei bene cosa dire. Mio marito è stato educato come cattolico, in America Latina; sua madre era una cattolica molto credente e lo portava a messa la domenica. Suo padre era greco ortodosso ma rinunciò alla sua religione per sposare mia suocera e, in ogni modo, era una persona piuttosto laica. Quando mia suocera era ancora in vita era stato fondamentale per lei far battezzare mia cognata. Credo che se oggi fosse ancora viva avrebbe voluto che mio figlio partecipasse a qualche tipo di cerimonia. Avrei acconsentito. Avrei rispettato il fatto che lei era sua nonna, che questa era la sua fede; per lei sarebbe stata una benedizione. Non mi sarei opposta in maniera radicale e credo anche che i miei genitori avrebbero tollerato la situazione. Mio marito ed io ci siamo sposati con una cerimonia indù e durante il rito abbiamo recitato dei versi in sanscrito. Mi è sembrata la cosa più naturale, ma ciò non significa che all’improvviso sono diventata indù. A molti potrebbe sembrare completamente profano il fatto che io mi sia appropriata di questo rito, ma non l’ho vissuto così. Per me, le parole che recitavamo, il loro significato, le promesse che ci stavamo scambiando erano profonde e significative. È stato un modo per sentirmi legata ai miei antenati. In un momento della mia vita in cui mi spostavo dalla famiglia che mi aveva cresciuta a quella che avrei formato con mio marito, riconnettermi con i miei antenati è stata una cosa fondamentale. Cerco di tenere la mente aperta, ma anche di rimanere scettica rispetto all’incredibile ignoranza e all’intolleranza causata dalle religioni.

Nafisi: Penso che questo sia specialmente giusto ora. Credo che la cosa più pericolosa sia l’uso ideologico della religione. Il fondamentalismo è un fenomeno moderno, ed è sviante affermare che la gente sta tornando alle proprie radici. Ritengo che molti fondamentalisti islamici abbiano attinto dai sistemi totalitari occidentali. Se, da un lato, loro dichiarano che sei occidentale per via delle tue convinzioni liberali o democratiche, loro sono altrettanto occidentali grazie alla loro fede in un altro sistema che ha ugualmente radici in Occidente. Credo che questo sia molto pericoloso. Prima, mentre parlavi dei fondamentalisti in Occidente, mi è venuto in mente che mia figlia, che ora ha vent’anni, va su tutte le furie con l’attuale governo americano per due ragioni: una è la ricerca sulle cellule staminali e l’altra è la questione del diritto all’aborto – incluso il fatto che il presidente ha deciso di non elargire prestiti ai paesi del Terzo Mondo che promuovono la contraccezione. È stato interessante notare come, all’incontro di Pechino, sulle questioni relative alla pianificazione familiare, il Vaticano si sia schierato dalla stessa parte dell’Arabia Saudita e della Repubblica Islamica. Se hanno un loro tornaconto, le parti in causa sono pronte a fare dei compromessi. Credo che le loro posizioni siano vicine perché pensano di possedere la verità, come lo stalinismo e il fascismo. Penso che il fondamentalismo, in tutte le sue gradazioni e sfumature, creda di detenere la verità e senta la necessità di eliminare il male. Ritengo che, effettivamente, in alcune manifestazioni ci sia davvero il male. In ciò che ha fatto Hitler, o in quello che è accaduto nei campi di concentramento in Russia, o nelle azioni di Osama bin Laden.
Ma quello che mi spaventa non è tanto che la gente compia degli atti malvagi, ma che si ritenga perfetta. Questo è ciò che che mi preoccupa degli Usa. Personalmente, dovunque io sia, trovo sempre qualcosa di cui lamentarmi e mi sembra che questa sia la mia salvezza. Il tuo libro, Jhumpa, restituisce l’esperienza dell’imprevedibilità: non sai mai dove sta portando. Di conseguenza il lettore se ne impossessa e alcune volte trovo che cessa di essere il tuo libro in quanto è interpretato da tutti. Alcune volte sono delle intuizioni che, magari, non avevi avuto. Non si tratta solo di cose negative. La gente mi parla e io penso: «Però, ho detto davvero queste cose?». Effettivamente non le ho dette, ma i lettori le hanno messe lì.
L’esperienza con i miei libri è stata molto positiva non solo per via dell’Iran ma per via di tutte quelle persone che mi hanno detto: «Stiamo rileggendo Lolita», «Abbiamo parlato di Fitzgerald», oppure si sono trovati a discutere di altri romanzi. Ciò che mi preoccupa, specialmente negli Usa, è che, come scrittori, si può essere coinvolti in un vortice di inganni. Ad un certo punto ti trovi a parlare di te stesso e il tuo libro sparisce nel sottofondo. All’inizio, per esempio, veniva pubblicizzata la copertina del mio libro ma ad un certo punto mi sono trovata nel bel mezzo del palcoscenico. Mi preoccupa perché per carattere mi piacciono le conversazioni. È straordinario essere invitati a parlare delle cose che si amano. Mi piace parlare con gente intelligente e mi preoccupa il fatto che alcune volte lo faccia troppo spesso. Spero di riuscire a tornare a me stessa. Gli Stati Uniti sono molto seducenti in questo senso. Ti offrono così tante opportunità, che spesso ce ne dimentichiamo. Spesso ai miei studenti americani ricordo l’esempio degli occhi: quando li abbiamo non ci facciamo caso, ma se si diventa ciechi si pensa: «Dio mio, che farò ora?».
Forse i paesi dell’Europa dell’Est o la gente del mio paese hanno la funzione di ricordare all’Occidente i valori che qui vengono dati per scontati. La nostra esperienza le ricorda che questi valori sono fragili e che possono essere portati via da un momento all’altro. Non bisogna mai darli per scontati. Mi piace quest’inquietudine che non mi permette di dare mai per scontata la mia vita e, d’altronde, come potrei?
A differenza di molta gente penso che sia una cosa positiva che in questo momento gli Stati Uniti stiano attraversando una crisi. Penso che sia migliorata la situazione rispetto a quando avevo dieci anni e la gente era sicura di sapere tutto di sé. Ora si pongono delle domande. A volte le domande possono essere molto elementari, del tipo: «Perché non ci amano? Ci amano? Che cosa abbiamo fatto di sbagliato?». Il prossimo passo sarà: «Chi siamo?». Questo è il titolo dell’ultimo libro di Huntington. Non so se la gente, ora, prenderebbe questo libro seriamente. Ora sembra che ce l’abbia con i messicani, con i latino-americani.

Lahiri: Sono loro sotto attacco, ora.

Nafisi: Alla fine la questione è l’individuo. Tutte le cose negative e positive della politica, le brutalità, la compassione di cui parliamo, possiamo leggerle in Chi ha paura di Virginia Woolf di Albee, cioè nella vita degli individui.

Lahiri: L’esercizio della scrittura ha a che fare con l’individualità. La scrittura è minacciata e allo stesso tempo nutrita dalla vita. La mia vita è il materiale al quale attingo con la scrittura. Senza questa non potrei scrivere. Certo, proteggo il tempo della mia scrittura, i miei riti quotidiani. Più la mia vita diventa complicata, più divento adulta e aumentano le responsabilità, e più sento l’esigenza di avere una forte disciplina per rimanere concentrata e impegnata nella scrittura e nella continuità della scrittura, che per me è fondamentale. Generalmente non scrivo durante il fine settimana, ma scrivo almeno cinque giorni a settimana. Al momento sto facendo un compromesso perché ho un figlio, e sarà così ancora per un po’, ma d’altro canto non potrei immaginare una vita senza figli. Non farei a cambio con nessun’altra condizione. Mi rendo conto che questa è una fase della mia vita e che mio figlio non sarà piccolo per sempre, ma crescerà e un giorno non vorrà più tornare a casa.
Non è dalla quotidianità che mi guardo, perché per me è una gran consolazione poter smettere di scrivere, tornare a casa da mio figlio, pranzare, stare con lui, preparare la cena, andare a fare la spesa, vedere mio marito. Questa è la vita. Il senso di preoccupazione lo provo, a volte, proprio in relazione a ciò che dicevo prima, ossia al concetto di diventare uno scrittore famoso negli Stati Uniti e all’improvvisa richiesta di pubblicizzare non il tuo libro ma la tua vita. Rispetto a questa situazione ho una sensazione piuttosto ambivalente perché penso ai molti scrittori il cui lavoro è ancora presente nella nostra memoria ed è vitale per la nostra comprensione del mondo: questi scrittori non sono mai andati in giro a presentare i loro libri e di loro non abbiamo nemmeno una foto. Erano tempi diversi. Ora è una questione economica e pubblicare ha ormai solo a che fare con i soldi. È la realtà dietro al nostro lavoro. Per un verso vorrei essere molto idealista e pensare che non dovrei farmi fotografare, non dovrei spiegare il mio libro, che dovrebbe invece essere semplicemente letto e consumato privatamente dal lettore. Per altro verso, c’è una questione pratica: non sono indipendente dal punto di vista economico e questo è il mio lavoro con cui contribuisco al sostentamento della mia famiglia. Quindi, devo trovare una via di mezzo. Quando ho pubblicato il mio primo libro, mio figlio aveva appena un anno e mezzo e mio marito in quel momento ha potuto prendersi del tempo libero e abbiamo viaggiato insieme per presentare il libro. La prossima volta non so se questo sarà possibile. Forse no. Sento di voler essere coinvolta nell’aspetto promozionale del libro, ma in periodi concentrati. Non ho voglia di avere costantemente la consapevolezza di ciò che faccio e della persona che vedo presentata sui giornali. Questa non è veramente la mia realtà. So che esiste, ma il 99 per cento del tempo non penso in quei termini. Sono una persona molto riservata e faccio una vita assolutamente normale: spingo il passeggino e vado al mercato e questo è ciò che mi piace. È una mia scelta ed è fonte di felicità. Cerco di essere molto selettiva rispetto all’aspetto pubblico di ciò che faccio. La mia venuta in Italia per promuovere la traduzione del mio libro è stata l’eccezione.


(traduzione di Donatella Saroli)

 


(1) Il corpo di Lacey Peterson fu trovato senza vita dopo che la sua scomparsa aveva tenuto col fiato sospeso tutta la nazione. Lacey Peterson era incinta. Ad ucciderla, si scoprì essere stato il marito (n.d.r.).

 

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