Sartre, le ragioni della libertà

 

JEAN-PAUL SARTRE

 

 

 

 

 

 

manifesto

JEAN-PAUL SARTRE

Le ragioni della libertà.
L'eredità filosofica e politica di Jean-Paul Sartre.


La pratica teorica come esercizio di libertà, mentre la contingenza diventa il momento in cui si danno le possibilità di trasformare il mondo. A cento anni dalla sua nascita, a Roma un convegno internazionale ricorda l'opera del filosofo simbolo dell'intellettuale engagé, dal rifiuto del Nobel per la letteratura nel 1964 alla partecipazione al Maggio francese

CLAUDIO TOGNONATO

Cent'anni fa, a Parigi, nasceva Jean-Paul Sartre, un protagonista indiscusso del secolo breve. Lo scrittore Bernard-Henri Lévy sostiene, come recita il titolo francese del suo ultimo libro, che quello che si è concluso è Le siècle de Sartre (in Italia il volume è stato pubblicato da Il Saggiatore). Ma ci sono anche altre valutazioni sulla sua opera; inoltre, molti altri personaggi sono stati altrettanto importanti e soprattutto non è necessario «personalizzare» anche i secoli. In queste ultime settimane sono usciti articoli in giornali e riviste di ogni parte del mondo, forse troppi. In Italia la commemorazione non si è fatta attendere, Sartre è stato per lo più banalizzato e attaccato riducendo il suo pensiero a poche frasi e puntando su di esse tutta l'artiglieria pesante per demolirne ogni possibilità di recupero. Una prassi a cui ci ha abituato la società dello spettacolo, si fissa polarizzando e si ripete fino alla nausea annullando l'informazione. La saturazione è il nuovo nome della censura. A questo centenario della nascita domani si aggiunge un altro anniversario, il 15 aprile 1980, venticinque anni fa, moriva Sartre e una folla oceanica accompagnava la salma del filosofo al cimitero di Montparnasse. «È l'ultima manifestazione del `68», disse Claude Lanzman a Simone de Beauvoir. Oggi, vita e morte di Sartre sono due appuntamenti a cui i riflettori dell'oblio non possono mancare. Si festeggia anche per dimenticare. Come scriveva Jean Baudrillard: «la commemorazione è l'opposto della memoria».

Pensiero irriverente

Il manifesto non ha partecipato a queste celebrazioni, perché è dalla parte del torto, dalla parte di Sartre, dalla parte di colui che, molti anni fa, ha sostenuto anche la nascita di questo quotidiano. Perché nemmeno il pensiero di Sartre è un oggetto di venerazione, lo si legge, si discute, si critica e si usa per capire e cambiare la realtà. È un pensiero engagé che abita il mondo, un punto di vista che preme per costruire una società di eguali, un pensiero irriverente in lotta contro il potere. Le cerimonie e i monumenti non trovano spazio in questa filosofia, così come non lo hanno trovato nella vita di Sartre che rifiutò ogni riconoscimento, perfino il premio Nobel di letteratura nel 1964. L'unico a farlo. Disse in un' intervista a Le Nouvel Observateur dopo il suo scandaloso rifiuto: «Se avessi accettato il Nobel - anche se a Stoccolma avessi fatto un discorso insolente, il che sarebbe assurdo - sarei stato recuperato.» Sartre non accetta di essere parte di una logica che rifiuta, vuole restare «il filosofo contro», lo scrittore che non vuole compromessi né false mediazioni, non vuole che si dica: «è uno dei nostri, finalmente l'abbiamo recuperato». Il ruolo dell'intellettuale va dunque oltre la scrittura di libri: per Sartre conoscere è agire. «La funzione dello scrittore - ha scritto - è di far sì che nessuno possa ignorare il mondo o possa dirsi innocente». L'intellettuale deve ogni qualvolta scegliere se mantenere in vita un mondo ingiusto o impegnarsi per cambiarlo. Non c'è spazio per la passività, chi si tira indietro per non prendere posizione sceglie di non partecipare. Per molti Sartre è rimasto il filosofo esistenzialista à la mode del Café de Fleur, de la Coupole, de la rive gauche e di Juliette Gréco. Con il passare degli anni Sartre ha cambiato pelle, non è rimasto fermo alle posizioni dell'Essere e il Nulla, ma ha su più fronti rotto con se stesso. Consapevole della necessità di un continuo ripensamento del mondo ha prodotto opere di grande valore innovativo come La Critica della ragione dialettica o L'Idiota della famiglia che sono passate per lo più inosservate. Se è vero che Sartre ha scritto per la sua epoca le due date - quella della morte e quella dell'anniversario - indicano innanzitutto una distanza: perché allora riprendere un pensatore del secolo scorso? Che cosa può offrire Sartre alla società contemporanea? Come si inserisce nelle società globalizzate a pensiero unico? Michel Contat scriveva, alcune settimane fa su Le Monde che quel morto dava ancora fastidio. Questo proliferare di articoli che si sforzano di mettere Sartre nell'angolo degli errori e degli orrori del Ventesimo secolo dimostrano anche quanto timore continui a suscitare il suo pensiero. La banalizzazione della figura di Sartre arriva perfino alla stessa polemica intorno alla locandina che annuncia la mostra dedicata a Sartre che si svolge alla Bibliotheque National de France, in cui alla foto di Sartre, perenne fumatore, è stata tolta la sigaretta, forse per paura che continuasse a diseducare, a corrompere i giovani con il suo cattivo esempio. Sartre aveva però un modo molto diverso di intendere l'educazione. Secondo Gérard Wormser per Sartre educare non è apprendere le regole, ma creare le premesse per l'assunzione del rischio. Mentre le regole universali sono create per evitare il rischio, l'importante nella formazione è capire che il rischio non può essere evitato, è inevitabile. La regola diventa in questo modo, una semplice scusa per mascherare l'ignoranza. La filosofia di Sartre privilegia il movimento, cerca di aprire spazi di libertà all'interno di una cultura regolata. L'essere umano è consapevole della propria precarietà e perciò si affanna per costruire strutture e istituzioni nella disperata ricerca di certezze per garantirsi una qualche forma di sicurezza. Si illude, sa di essere contingente e sa che la sua libertà è la perpetua possibilità di modificare l'immodificabile. Il rischio è inevitabile perché è connaturato all'esperienza umana. Sartre sottolinea che una filosofia che tenti di spiegare l'uomo deve necessariamente essere dinamica, deve accettare la sfida di una realtà in continuo mutamento, deve andare oltre la regola perché essa non è altro che uno sforzo per accomunare le differenze. Un tentativo che può essere valido sempre che si resista alla tentazione di assolutizzare, di astrarre per omologare le diversità e rendere più semplice ciò che è complesso.

Alla ricerca del concreto

I primi studi filosofici di Sartre si muovono verso la ricerca del «concreto» e tra le letture dell'epoca è più volte citato il lavoro di Jean Wahl Verso il concreto. «Eravamo stati educati nell'umanesimo borghese e questo umanesimo ottimista andava in frantumi (...) Ciò che ci interessava, tuttavia, erano gli uomini reali con il loro lavoro e le loro pene», ricorda nella Critica della ragione dialettica. Più tardi questa ricerca del concreto si articolerà in opposizione al pensée de survol di coloro che vogliono analizzare il mondo senza abbassarsi alle incongruità del reale, senza sporcarsi le mani, mantenendo uno sguardo dall'alto della torre d'avorio della riflessione filosofica, distante e falsamente neutrale. Non solo, la pensée de survol è anche la pretesa di voler conservare intatte le proprie certezze, non mettere in discussione sé e le proprie convinzioni, è privilegiare la linearità e coerenza logica alla discontinuità discrepante del reale. Il pensiero di Sartre è inoltre un pensiero di sinistra, una sinistra intesa non come uno spazio, né tantomeno come collocazione parlamentare e meno che mai come un raggruppamento politico. La sinistra è semplicemente una impostazione critica di fronte alla realtà, una impostazione che è consapevole di essere di parte, perché sa di avere un punto di vista, quello degli sfruttati, dei «dannati della terra», come ha sostenuto nell'introduzione al libro di Frantz Fanon, quello appunto dedicato ai Dannati della terra. Sartre aderisce alle lotte di liberazione nazionale e contro il colonialismo. Quando la stessa sinistra criticava il nazionalismo algerino Sartre prende posizione a favore del Fnl e dell'indipendenza dell'Algeria. Scrive denunciando l'esercito francese e le torture che applica contro gli insorti. Il suo atto d'accusa è punito e per ben due volte il suo appartamento parigino sarà vittima di attentati. Questi attacchi di certo non lo fanno ammutolire: per l'esistenzialismo non contano gli schieramenti ma l'esistente, e in primo luogo l'essere umano. Siamo contingenti, la nostra esistenza è precaria, è sempre in gioco e ogni nostra scelta ci condannerà o ci assolverà, ma non c'è nessun paradiso o inferno a cui l'uomo è destinato dopo la morte. «Niente mi può assicurare contro me stesso», scriveva nell'Essere e il Nulla. Non c'è quindi un destino, non c'è nulla di scritto per il futuro, perché è qualcosa che essere ancora realizzato.

Questa è per Sartre la ragione della nostra angoscia, perché sappiamo di essere abbandonati a noi stessi, senza scuse e «il destino non è altro che la libera scelta che ognuno fa di se stesso». Questo nulla che ci precede, questo vuoto che abbiamo davanti a noi ci angoscia perché non sappiamo cosa accadrà, perché apprendiamo dal nostro stesso vissuto che siamo imprevedibili, che siamo liberi. Quando decide di raccontare la sua infanzia Sartre scrive Le Parole (Les Mots), un'opera letteraria autobiografica che vuole raccogliere una vita in soli due capitoli, il primo intitolato leggere, il secondo scrivere. Due momenti che hanno scandito il vissuto quotidiano del pensatore francese. Un piccolo libro se confrontato alle oltre 3000 pagine che Sartre dedicherà allo studio di Gustave Flabert (L'Idiota della famiglia) o le oltre 500 che dovevano essere il prologo delle opere complete di Jean Genet divenute un libro a sé: Saint Genet, comédien et martyr. Quando Sartre decide di raccontarsi sceglie la brevità, molte pagine saranno scartate, non vuole andare oltre. Appena inizia il suo racconto Sartre non può fare a meno di parlare di suo padre Jean-Baptiste Sartre, che morì quando lui ne aveva solo 15 mesi. Sono pochi e brevi i passaggi in cui riferisce di questa assenza. «Nel 1904, a Cherbourg, ufficiale di marina e già roso dalle febbri cocincinesi, conobbe Anne-Marie Schweitzer, s'impossessò di questa ragazzona abbandonata, la sposò, le fece fare un figlio al galoppo, io, e tentò di rifugiarsi nella morte». Qualche riga di sfuggita, poche pagine per aprire e chiudere in fretta con la figura paterna. Due persone sconosciute ma legate, se non altro fisicamente: il padre centocinquantasei centimetri, il figlio Poulou centocinquantasette. Per cercare una ragione che renda legittime le sue scelte Sartre volge il suo sguardo al passato, interroga la sua infanzia e non trova che un vuoto, la mancanza di un luogo nel mondo. Nella stesura di Le Parole, fino all'ultima versione, il titolo assegnato da Sartre era Jean sans terre e voleva indicare l'esplicito rifiuto ai beni (Sartre non è stato mai proprietario) ma anche, e soprattutto, la leggerezza di chi non si sente gravido di materia.

Spazi di libertà

Sartre fa di questa mancanza uno spazio di libertà, «un padre - scrive - mi avrebbe caricato di qualche durevole ostinazione; facendo dei suoi umori i miei principi (...) in mancanza di più precise indicazioni, nessuno, a cominciare da me, sapeva che diavolo fossi venuto a fare su questa terra». Chi si rende conto di non avere un destino si trova di fronte ad una scelta che segnerà la sua esistenza: o si sente un soprappiù di cui si può tranquillamente fare a meno o si metterà alla ricerca di qualche segno che gli indichi ciò che in realtà ha già scelto. Sartre ha deciso: lui sarà uno scrittore. In Le Parole racconta di quella imperiosa necessità di scrivere che gli farà dire: Nulla dies sine linea (Non un giorno senza una riga) come una predestinazione nata a otto anni che gli ha fatto credere, per via di un banale malinteso, di aver ricevuto un destino. Nello stesso periodo in cui scrive queste pagine autobiografiche porta avanti in parallelo il monumentale studio su Gustave Flaubert, L'Idiota della famiglia. È curioso notare come in questo riferimento accomuna la scelta di scrivere di entrambi. Flaubert e Sartre hanno colto le parole come missione e hanno tentato di giustificare il proprio spazio nel mondo attraverso di esse. Nei diversi studi biografici che intraprende - si tratti di Baudelaire, Malarmé, Tintoretto, Freud, Genet o Flaubert - ritorna sempre la stessa domanda: «Come si diviene ciò che si è, come si costituisce una persona?» È da questa mancanza di un luogo nel mondo, da questa assenza di un padre gravido di doveri, da questo vuoto, da questa sensazione di non dover rendere conto a nessuno che nasce la leggerezza di un uomo che ben presto diventerà Sartre.

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