Prospettive dello storicismo in un'età post-metafisica

Mauro Visentin
Università di Sassari

PROSPETTIVE DELLO STORICISMO IN UN'ETA' POST-METAFISICA
(Lo storicismo oggi fra filosofia e storia)

I termini cronologicamente retrospettivi assegnati alla trattazione del tema di questo incontro (vent'anni) sarebbero difficili da rispettare per chiunque, nel suo quadro, fosse stato chiamato a parlare di "storicismo"; lo è a maggior ragione per me che non posso affrontare l'argomento, a causa dei limiti della mia competenza, altrimenti che da un punto di vista strettamente teorico: negli ultimi vent'anni lo storicismo, in Italia e non solo in Italia, è stato praticato molto (almeno se, sotto questo concetto generico, si accetta di ricondurre la maggior parte delle forme di "riduzionismo" storico-culturale che si sono affermate nella contemporanea indagine sul mondo umano), senza, tuttavia, che ad esso sia stata dedicata, in sede filosofica, una qualsiasi specifica attenzione. Ciò è dovuto essenzialmente a due fattori. Il primo è tipicamente nazionale e dipende dal legame, sotto il profilo psicologico assai difficile da sciogliere, che si è venuto istituendo, a casa nostra, in anni cruciali del secolo scorso, fra il concetto di "storicismo" e il pensiero di Benedetto Croce (al quale, oggi, ben pochi, sia tra gli storici sia tra i filosofi, sono disposti a riconoscere qualcosa di più dell'aura, nobile ma polverosa, di un classico minore della provincia culturale europea). Il secondo ha invece a che fare con il prevalere, a livello planetario, di una tendenza alla marginalizzazione della storia, che, da asse attorno al quale ruotava tutta la considerazione della realtà (umana e non), quale essa era diventata intorno alla metà del XIX secolo e continuava ad essere ancora una cinquantina di anni fa, è stata progressivamente ridotta, negli ultimi trenta-quarant'anni, ridimensionandone notevolmente il ruolo, a settore disciplinare specializzato, autonomo per metodi e contenuti, dell'ampio organigramma cui ha dato vita la divisione del lavoro di ricerca all'interno della comunità scientifica mondiale. Intendiamoci: non sto dicendo che la storiografia sia diventata, oggi, una disciplina marginale. Al contrario, essa è certamente, ora come ora, guardando all'insieme delle cosiddette scienze umane, una di quelle più vivaci e promettenti per il moltiplicarsi, quasi babelico, delle prospettive, dei linguaggi, dei problemi, per il dilatarsi del campo d'indagine (chi avrebbe mai pensato, fino a qualche decennio or sono, che il rito demoniaco del sabba avrebbe potuto offrire ampia materia per un voluminoso e originalissimo libro di storia?), per le intersezioni con altri ambiti disciplinari e le combinazioni metodologiche che questi incontri incrociati hanno reso possibili. Ciò che voglio dire è tutt'altro. E' una cosa assai semplice e tuttavia decisiva: la storia, sebbene attragga oggi, in misura pressoché uguale ricercatori, studenti, editori, giornalisti e persone con interessi e curiosità culturali diversi, ha smesso di esprimere e rappresentare il perno di una "visione del mondo", come appunto è stata quella cui si è dato il nome di "storicismo". Lo storicismo era, appunto, una "visione del mondo", l'idea, per rifarsi ad una celebre definizione di Croce, che "la vita e la realtà è storia e nient'altro che storia" . Questa definizione, compare, come si sa, nel famoso capitolo della Storia come pensiero e come azione che apre la sezione del volume dedicata a Lo storicismo e la sua storia e che si intitola: Il suo carattere proprio e l'inizio dell'età che fu sua. E' il capitolo nel quale Croce, polemizzando col Meinecke della Entstehung des Historismus, distingue in modo netto il proprio pensiero (che precisamente in quel periodo - siamo nel 1938 - ed anzi solo l'anno dopo, formalmente, - ossia nel saggio di apertura, comparso sulla "Critica" nel IV fascicolo del 1939, del volume Il carattere della filosofia moderna - viene da lui ribattezzato come "storicismo assoluto") dalla tradizione dell'Historismus, appunto, ovvero di quella corrente filosofico-storiografica affermatasi in Germania a partire dalla fine del Settecento, della quale Meinecke, in quel famoso libro, celebrava i fasti e ricostruiva le origini, partendo dalle premesse più remote. Il contrasto si potrebbe riassumere nei vecchi o comunque molto tradizionali termini di una contrapposizione fra razionalismo e irrazionalismo: per Croce lo storicismo doveva contrapporsi all'illuminismo come un'idea immanente e concreta di ragione (una ragione che permea di sé i fatti specifici della storia e non li trascende, che è, essa stessa storica) ad un'dea di ragione astratta e metafisica, perché sovra- e ultra-storica, caratteristica del pensiero settecentesco. Meinecke, che pure vedeva nello storicismo una rivoluzione dello spirito tedesco (la più grande dopo la Riforma) contro la mentalità emersa nell'epoca dei Lumi, si rifaceva tuttavia, per definirne il carattere originario, al concetto di individualità, e sebbene non lo contrapponesse a quello del "generale" o dell'"universale" - che ne erano, però, una derivazione astratta, non il fondamento o il principio -, lo vedeva come il depositario autentico della verità della storia. Insomma, la verità dei fatti storici non era da rintracciarsi, platonicamente e spinozianamente, in qualcosa d'altro, in qualcosa di immutabile e non soggetto al procedere del corso del tempo, ma proprio in ciò che da questo corso era attraversato, nell'individuo singolo, con le sue passioni, i suoi timori, le sue ansie, le sue paure, con tutto ciò, in altre parole, che ne faceva e ne fa un unicum, irripetibile e inconfondibile, sullo sfondo del quale si proietta l'enigma, a suo modo religioso, del senso imperscrutabile da assegnare alla vita e alla storia.
Questi sono, all'incirca, i termini nei quali la questione dello storicismo viene consegnata da Croce al dibattito sul tema che si aprirà a partire dagli anni '40, si intensificherà dopo la fine della seconda guerra mondiale e conoscerà una fase di acceso confronto nel corso degli anni '50, prolungandosi fino ai primi anni '60 e, in qualche caso, agli anni settanta. Poi più nulla, dal punto di vista dell'elaborazione teorica, o quasi. Vediamo di fissare alcune tappe: nel 1940 Carlo Antoni pubblica Dallo storicismo alla sociologia e poi, nel '42, La lotta contro la ragione; nel 1945 vedono la luce sul primo numero di "Società" gli Appunti sullo "storicismo" di Delio Cantimori (poi ricompresi nel I vol. dei suoi Studi di storia); nel 1956 esce Lo storicismo tedesco contemporaneo di Pietro Rossi, la cui prima parte era stata anticipata, tra il '52 e il '54, dalla "Rivista critica di storia della filosofia"; nel 1957 Carlo Antoni raccoglie una serie di conversazioni radiofoniche sul tema nel volume Lo storicismo; nel 1959 Eugenio Garin pubblica insieme, in un volume intitolato La filosofia come sapere storico, alcuni saggi composti fra il '56 e il '58; nel 1961 la "Rivista storica italiana" ospita un dibattito fra Arnaldo Momigliano e Pietro Rossi sullo storicismo nella storiografia e nel pensiero filosofico contemporanei. In seguito, negli anni '60 si consolida quella reazione anticrociana che aveva iniziato a delinearsi subito dopo la fine della guerra e che si era tradotta in una varia e vasta attività di importazione, sperimentazione e traduzione di autori, testi, correnti filosofiche europee e americane. Tale reazione confina, gradualmente, lo storicismo (a cominciare, com'è ovvio, da quello di Croce), ai margini della prospettiva dominante, e contagia anche la cultura marxista, sebbene in questa l'ipoteca gramsciana continui ad esercitare il suo peso. E' una tendenza che si prolunga nei decenni successivi, incontrando ostacoli praticamente solo nel lavoro - in prevalenza, però, adesso, direttamente storiografico e non più di elaborazione teorica - di autori come Garin nel campo della storiografia filosofica o Galasso in quello della storiografia tout court. Rispetto ad essa, una delle poche posizioni che si attesti, con un profilo teorico autonomo, su una linea di difesa è quella di Fulvio Tessitore. L'intero dibattito del quale si sono qui su delineate le tappe essenziali ruotava, direttamente o indirettamente, intorno alla questione sollevata da Croce nella sua polemica con Meinecke e lo storicismo tedesco. Anche nei casi in cui, come accade per il volume di Pietro Rossi, il nome di Croce non venga quasi menzionato o lo sia solo in modo incidentale, è lui il termine di riferimento polemico al quale si guarda, rivalutando lo storicismo tedesco, o, come in questo caso, importando e diffondendo in Italia, la conoscenza di nomi e testi prima assai poco frequentati, anche perché indisponibili in traduzione, come quelli di Dilthey, Windelband, Rickert e Weber, che Rossi, prendendo le distanze anche da Meinecke, caratterizza come esponenti di un "secondo storicismo tedesco", distinto dal primo, sul quale si era invece concentrata l'attenzione del grande allievo di Droysen, che lo faceva culminare nella figura e nell'opera di Ranke e che coincideva, all'incirca, con lo storicismo romantico, di cui lo studioso tedesco accentuava più il lato storico-culturale e letterario (basti pensare che il suo esponente più tipico veniva da lui riconosciuto in Goethe) che quello filosofico. Ma se l'obiettivo era Croce, a fare le spese della polemica anticrociana che permeava di sé molti degli interventi nella discussione fu soprattutto Carlo Antoni. Antoni è l'obiettivo esplicito dell'operazione di distacco dallo storicismo di Croce messa in atto da Pietro Rossi con il suo libro del '56. E non per caso. Nel volume che delinea il passaggio (e la degenerazione che con questo passaggio si produce) Dallo storicismo alla sociologia, Antoni prendeva in esame le stesse posizioni che una quindicina di anni più tardi rappresenteranno l'oggetto dell'indagine di Rossi. Solo, lo faceva con un intento molto diverso: quello di far vedere come i presupposti dello storicismo romantico, lungi dal rappresentare, come pensava Meinecke, la solida base sulla quale si sarebbe in seguito innestata la cultura permeata di senso storico della Germania Guglielmina, costituivano il principio generatore di un processo che avrebbe gradualmente spogliato la cultura tedesca del suo patrimonio spirituale favorendo, attraverso la naturalizzazione di tale patrimonio (già implicita nel modo in cui, alle origini, si era costituito il mito della nazione, radicato nell'ideale del Volksgeist), la trasformazione della storia in sociologia e, più in là, la degenerazione di questo stesso processo degenerativo nelle forme e nei modi, venuti tristemente alla luce con il nazismo, di una storiografia a base razziale. Per Rossi, che, prendendo le distanze anche da Meinecke, non collocava lo storicismo tedesco contemporaneo su una linea di continuità con quello romantico, il discorso andava capovolto: con Dilthey, Windelband, Rickert, Simmel, Weber, Spengler, Troeltsch e con lo stesso Meinecke, lo storicismo tedesco aveva contrapposto alla cultura romantica, culminante in Hegel, un concetto di storia e di realtà storica fondato su basi non metafisiche ma gnoseologiche, all'insegna di un "ritorno a Kant" che aveva molti punti di contatto con quello proclamato dal movimento neokantiano, del quale questi autori ripetevano, in qualche modo, l'operazione, adattandola alle esigenze di un orizzonte disciplinare non più esemplato sulle scienze fisico-matematiche, ma piuttosto su quelle storico-culturali. Antoni, nel quadro delineato da Rossi, veniva indicato subito, fin dall'inizio (nella prima nota dell'Introduzione ), come il principale esponente della tendenza volta a legare, erroneamente, e in senso negativo, il primo storicismo tedesco (quello romantico, appunto) al secondo (quello "metodologico").

Non meno, ed anzi assai più polemico nei confronti di Antoni era, del resto, già stato, una decina di anni prima, Delio Cantimori, che nei suoi Appunti aveva inveito contro Meinecke e contro Antoni in uguale misura, ed anzi, contro il secondo, in sostanza, assai più duramente che contro il primo . Anche qui, in ultima analisi, l'oggetto che veniva elevato a termine di riferimento polemico delle critiche di Cantimori, era rappresentato dalla tendenza a generalizzare e a categorizzare le idee e i concetti, prescindendo da una concreta ed accurata ricostruzione del quadro storico in cui essi erano collocati e dal quale concretamente erano emersi. Cosa che, secondo Cantimori, se poteva essere imputata ad Antoni non poteva, invece, esserlo anche a Croce (e da qui un'implicita aggravante a carico del primo), che dell'invito a calarsi nel concreto delle vicende storiche e a ritrovare lì e lì soltanto, nella determinatezza delle loro mutevoli e specifiche incarnazioni, le categorie e i concetti di cui gli uomini si servono per pensare se stessi e quella che, volta per volta, appare loro come la realtà che li circonda, aveva fatto un principio di metodo e di comportamento personale. Abbiamo qui uno dei primi documenti della tendenza a distinguere il Croce della storia, amante del particolare, dedito alla ricerca concreta e talvolta minuta, dal Croce del "sistema", della visione generale e prospettica, critico spesso anche troppo severo delle minuzie erudite e della filologia fine a se stessa. In Cantimori questa distinzione era solo implicita o veniva esplicitata attraverso la contrapposizione non di un certo Croce ad un certo altro Croce, bensì di Croce ad Antoni. Ma dietro quest'ultimo giganteggiava la figura del maestro, formalmente escluso dalle imputazioni e dagli addebiti, eppure bersaglio vero e trasparente della polemica, almeno per quella parte per la quale anch'egli, nel corredare, per esempio, le sue tre principali opere di carattere filosofico di una sezione storica, non aveva seguito il metodo di spiegare l'origine delle teorie a partire dal loro contesto culturale e civile, ma quello di giudicare della loro "coerenza logica" , adottando, per di più, come criterio di valutazione, la loro maggiore o minore prossimità alle proprie posizioni. Questa tendenza a distinguere un Croce dall'altro verrà poi in qualche modo "ufficializzata" dal saggio dedicato nel '52 a Croce storico da Federico Chabod , che, pur allievo di Volpe, a Croce era stato strettamente legato ed era, con Omodeo, quello fra gli storici italiani forse più contiguo alla cultura emersa dagli sviluppi della posizione crociana.

Una contrapposizione "ideale" fra i due aspetti del crocianesimo che sono stati appena messi in evidenza, poteva quindi facilmente tradursi in un confronto fra due personalità, le quali, benché amiche e legate da rapporti di solidarietà umana e culturale l'una con l'altra, agli occhi di molti di coloro che avrebbero voluto liquidare, in Croce, il "sistema" (separandolo dal concreto e specifico lavoro storiografico e dalle preziose indicazioni di "metodo"), si prestavano come poche altre ad incarnare quelle due anime in conflitto: Antoni, appunto, e Chabod. E questo confronto, che chiamava direttamente in causa i due studiosi allora probabilmente più vicini a Croce, non tarderà a fare la sua comparsa nelle pagine della "Rivista storica" cui è consegnata la discussione amichevole (a tal punto amichevole da perdere, a tratti, soprattutto nella risposta del più giovane dei due dialoganti, il carattere di "discussione") fra Momigliano e Pietro Rossi . La cosa merita di essere segnalata non solo perché avveniva quando ormai le figure evocate a rappresentare il doppio registro o "l'alternativa" - i cui termini inconciliati e inconciliabili, per i sostenitori di questa "lettura", coesistevano da sempre nell'animo di Croce - non erano più tra i vivi e non erano, quindi, in grado di replicare, proponendo la loro versione del problema o, quantomeno, il loro punto di vista. Non solo per questo, e neppure soltanto per il fatto che queste osservazioni venivano avanzate sulla rivista che Chabod aveva diretto fino a tre anni prima , ma soprattutto per una diversa ed ulteriore ragione, che solo oggi possiamo conoscere e dunque prendere in esame: nel 1959 Chabod e Momigliano si erano scambiate alcune lettere che sono venute alla luce e sono state pubblicate solo di recente , aventi per tema il necrologio scritto da Momigliano per commemorare sulla "Rivista storica" Antoni, morto da poco, e i giudizi espressi in forma cordiale e benevola (come era, del resto, inevitabile, trattandosi di un necrologio) ma nella sostanza assai critici che in esso vi venivano espressi sia su Antoni stesso che sulla cultura della quale egli era espressione. Significativo il fatto che gli sforzi prodotti da Antoni per svolgere "dall'interno" una critica del pensiero di Croce che ne mettesse in luce il contrasto con l'idealismo hegeliano e romantico, con la dialettica e con il provvidenzialismo storico, sottolineando la presenza in esso di un recupero non esplicito ma non per questo meno significativo del principio di identità, del "diritto di natura" e del concetto di individuo, venissero interpretati da Momigliano, in questo necrologio, come espressione dell'intento di eliminare "certe discrepanze tra il primo e l'ultimo Croce" e quindi, ancora una volta come il tentativo di occultare la presenza, in Croce, di un intimo dissidio o, appunto, come sopra si è detto, di un'"alternativa". La reazione di Chabod fu drastica, risentita e, per certi aspetti, indignata, e non è facile leggere oggi, a distanza di tanti anni, queste lettere, senza provare un senso di sconcerto per la violenza e la radicalità dei toni che caratterizzano in particolare la seconda delle due concitatamente redatte dallo storico valdostano (cioè la più lunga dell'intero carteggio, che ne conta, in tutto, quattro) . Questo spiega forse perché, iniziando la sua discussione con Rossi, Momigliano, a due anni dal necrologio incriminato, sentisse il bisogno di esordire sottolineando come i contributi del suo interlocutore sullo storicismo tedesco (oltre al volume già citato ne era uscito da pochi mesi un secondo su Storia e storicismo nella filosofia contemporanea) mostrassero una non completa consapevolezza del loro debito (che, aggiungeva Momigliano, era il debito " di tutti noi") con Carlo Antoni e con le sue ricerche su questi stessi autori . Osservazione senza dubbio giusta, ma forse un po' minimizzante, nel suo voluto understatement, visto che ometteva di rilevare come di questo "debito" Rossi fosse, in realtà, a suo modo, ben consapevole, essendo stato spinto ad occuparsi del tema - e in qualche modo, lo si è già ricordato, per sua esplicita ammissione - proprio dall'intento di rovesciare la lettura che degli sviluppi del più recente pensiero storicistico in Germania aveva dato Antoni durante la guerra.

Ma in definitiva, ciò che colpisce nelle pagine di Momigliano è il fatto che nell'esaminare "la presenza dello storicismo tedesco nel concreto lavoro storiografico del dopo-guerra" egli prendesse in esame, indifferentemente, storici della filosofia, storici delle idee e storici dei fatti, cioè delle vicende politiche, militari, economiche, sociali ecc. Indubbiamente, questo atteggiamento era molto più in sintonia con quello di Meinecke (il quale, come si sa ed abbiamo già avuto occasione di ricordare, faceva convergere tutta la sua ricostruzione delle origini del pensiero storicistico nell'opera di Leopold von Ranke, ossia di uno storico "puro", che Croce, cosa altrettanto nota, giudicherà, proprio nel libro sulla Storia, insieme a Burckhardt, sia pure per opposti motivi, uno storico "senza problema storico") che con quello di Antoni, e si troverà confermato quando, quasi un quarto di secolo dopo, Momigliano, raccogliendo diversi suoi contributi su temi di storia della storiografia e delle idee, darà alla raccolta un titolo, Tra storia e storicismo , che sembra giustificato più dalla prima e dalla seconda delle tre parti in cui è divisa, per gli argomenti che in esse si affrontano , che dalla terza - intitolata Entro lo storicismo e quindi, almeno in apparenza, specificamente dedicata al tema - che riguarda il rapporto fra filologia italiana e metodo storico tedesco e nella quale si tratta di autori come Enio Quirino Visconti, Angelo Mai, Bartolomeo Borghesi, Amedeo Peyron, Giuseppe Micali, Graziadio Ascoli e Domenico Comparetti. In altre parole, qui "storicismo" è ormai diventato sinonimo di "visione della storia". E va da sé che ogni storico che si rispetti, per il solo fatto di essere quello che è, cioè uno storico, appunto, e di aver dedicato alla ricerca storica la propria vita, deve averne una, cioè non può non possedere, sia che la lasci trapelare implicitamente dal proprio lavoro sia che la renda esplicita, una visione del genere. Ma che ha a che fare, tutto ciò, con lo "storicismo"? Non sarà diventata, giunti a questo punto, troppo vaga e generica l'estensione semantica del nostro concetto? In effetti, se ritorniamo per un istante alla definizione di Croce che abbiamo già citato (""Storicismo", nell'uso scientifico della parola, è l'affermazione che la vita e la realtà è storia e nient'altro che storia") ci rendiamo conto del fatto che essa non contiene una "visione della storia", ma, piuttosto, una visione della vita o meglio, della realtà in quanto tale. Che, per un autore come Croce, è la stessa cosa di una visione della verità. In altre parole, lo storicismo è una filosofia. E non, si badi, una filosofia della storia, ma una filosofia tout court. Per quanto riguarda lo storicismo tedesco del XX secolo (quello appunto che Rossi definiva, per distinguerlo dallo storicismo "romantico", "contemporaneo") le cose, da questo punto di vista, non stanno, tutto sommato, in modo molto diverso. Certo, è vero, per Dilthey, Windelband, Rickert, Weber, storia e natura sono campi distinti e autonomi della realtà e danno luogo a metodi e forme di conoscenza diversi e alternativi (mentre per Croce le scienze naturali non danno affatto luogo ad una forma di conoscenza). Questo, ovviamente, comporta (deve comportare) una visione della storia accanto ad una visione della natura. Ma anche se la storia, per questi autori, è solo una parte della realtà, il problema che riguardo a tale parte lo storicismo tedesco si propone è quello di come si possa conoscerla autenticamente (ossia con verità), oppure anche quello di come una conoscenza di tipo storico debba essere impostata, indipendentemente dall'oggetto (natura o storia) cui si rivolge, per poter essere autenticamente storica e quindi tale da fornire un contributo specifico alla crescita del sapere. Insomma, in entrambi i casi, non si tratta di una quaestio facti - ossia della verità, accertabile, di un fatto (la sola che interessa e deve interessare lo storico), dove l'accento batte sul "fatto", sull'"accaduto" e non sulla "verità", la quale ultima coincide semplicemente con il fatto e con il suo accertamento -, bensì di una quaestio iuris, cioè di un criterio che consenta di distinguere il vero dal falso. Ma anche qui, sarebbe erroneo pensare che la quaestio iuris sia la quaestio iuris della "accertabilità" della quaestio facti. In altre parole che il problema di verità sollevato dallo storicismo riguardi le verità di fatto della storiografia. Una volta che il fatto sia stato accertato (con gli strumenti di cui lo storico dispone, critici, documentali, empirici), resta il problema di comprenderlo, ossia di spiegarlo, cioè di interpretarlo, collocandolo nel quadro di vicende, comportamenti, modi di pensare, consuetudini e credenze che furono ad esso contigui. E' un problema che lo storico risolve in modo istintivo. Ovvero, interpretando e comprendendo in base al suo "istinto di storico", che lo conduce a selezionare una certa ipotesi interpretativa e a scartarne altre. Sia chiaro, sempre in virtù di ragioni dichiarabili ed argomentabili. Non è questo il punto. Il punto è che lo storico, se fa lo storico, non può porsi un problema di legittimazione del proprio "mestiere", non può porsi il problema di che cosa lo autorizzi ad immergersi nella storia e ad affrontare l'esame di certi avvenimenti. Oppure può farlo, ma solo alternando al suo impegno di storico un altro impegno, di natura e carattere diversi, diciamo, appunto, di natura e carattere filosofici. Ecco, ciò che rappresenta il tema e l'oggetto dello storicismo è la possibilità (in senso giuridico e non fattuale) per un'interpretazione di essere vera. Ebbene, lo storicismo risponde che un'interpretazione della storia è possibile, cioè che può essere vera. E che può esserlo perché, al di là dell'accertamento di ciò che, di fatto, è veramente stato, esiste la possibilità di conferire una verità storica ad opinioni, credenze, abiti mentali, idee, ideologie che guidano e determinano il comportamento degli uomini, una verità che non riguarda il loro contenuto in quanto tale (sono, appunto, opinioni, credenze, ideologie) ma il loro contenuto in relazione al periodo in cui presero corpo, cioè la congruenza di tale contenuto con il tempo (e attraverso questo anche con se stesso) in cui le tendenze ideali e i modi di pensare dei quali tutto ciò è espressione sorsero e si affermarono, la loro capacità di rispecchiare la propria epoca e di conferire ad essa un senso che la renda partecipe del movimento della storia, ossia conseguenza plausibile di quanto ebbe a precederla e premessa, ugualmente plausibile di ciò che venne dopo di lei.

E' solo se si comprende bene questo aspetto cruciale della questione dello storicismo che ci si trova posti nelle condizioni di pervenire ad un chiarimento del problema che emerge dal cuore stesso della sua struttura concettuale. Solo, in altre parole, se si comprende che la verità di cui lo storicismo intende definire il quadro di riferimento "giuridico", ossia i requisiti di possibilità e legittimità, non è una verità di fatto (quel genere di verità che Leibniz definiva "contingenti" e che caratterizzava per mezzo della loro semplice "possibilità", coincidente con l'uguale possibilità del loro opposto) e neppure una verità di ragione (vale a dire una verità necessaria, immutabile, eterna, il cui opposto è una contraddizione in termini, cioè impossibile), ma è una terza specie o categoria di verità: unica (e quindi priva di un'opposizione plausibile) come le verità di ragione e tuttavia storica (ossia calata nel fluire del tempo e degli eventi) come le verità di fatto. E' su questo punto che le strade dello storicismo crociano e di quello tedesco si separano irrimediabilmente. Il secondo, infatti, si ingolferà nella questione dei valori che orientano e definiscono l'orizzonte dell'interpretazione, la cui scelta si colloca a monte dell'indagine storica e conseguentemente della verità che la comprensione cui essa conduce fa emergere. Una simile scelta, essendo "a monte" della verità alla quale, per il pensiero storicistico, danno accesso le interpretazioni degli orientamenti e delle idee, delle fantasie e delle paure, delle credenze e delle attese, sia individuali sia collettive, di cui è intessuto l'agire storico degli uomini, non è vera ma arbitraria e la sua arbitrarietà non può, in ultima analisi, evitare che la propria ombra si proietti sull'interpretazione che ne deriva e sul senso che essa conferisce alla storia, rendendo l'una e l'altro relativi. Croce, d'altra parte, ritiene di evitare questo scoglio attribuendo ai valori un carattere eterno e sovrastorico. Ma il legame fra questa verità categoriale - o, come potremmo dire, "di ragione" -, superiore ad ogni concreta individualità storica, che può esserne depositaria solo a titolo provvisorio, e la singola verità della specifica concrezione individuale in cui essa prende corpo volta per volta, e cioè storicamente, ossia nel volgere del tempo, ebbene questo legame (essenziale se non si vuole che la verità del giudizio storico precipiti nel relativismo dell'opinabile) resta affidato ad una deduzione il cui meccanismo logico si alimenta di un passaggio tanto delicato quanto fragile: quello dell'identificazione dei giudizi definitori con i giudizi individuali. Non è questa la sede adatta per entrare in un discorso dettagliato e inevitabilmente "tecnico" sull'impossibilità, nel quadro che Croce ha disegnato con il suo sistema categoriale, di rendere plausibile un simile passaggio. Basterà ricordare che questo sarà esattamente il punto sul quale convergeranno, direttamente o indirettamente, tanto le critiche degli oppositori quanto quelle di coloro che, vicini a Croce e decisi a perfezionarne il pensiero - sia includendo nel suo orizzonte esperienze che egli aveva misconosciute o che non aveva prese in considerazione , sia sottraendolo alle accuse di chi vedeva, nello schema rigido delle quattro categorie in cui consisteva per lui l'organigramma dello Spirito, un ennesimo esempio di trascendenza metafisica - avevano cercato di sovrapporre al primo Croce (il Croce del "sistema"), quello successivo delle grandi opere storiografiche o magari dei brevi saggi di storiografia locale e della "revisione" del proprio pensiero avviata con i libri sulla Poesia e sulla Storia. Del primo Croce, alcuni di questi seguaci avevano saputo vedere anche i limiti e le contraddizioni, cui avrebbe cercato di porre rimedio, a loro parere, il secondo, il Croce della storia etico-politica, della riconsiderazione dell'"utile" e della sua traduzione in "vitale", della religione della libertà . A tutti costoro, con una varietà di toni che passa dalla polemica più severa e sprezzante all'accoglimento parziale delle critiche rivoltegli (interpretato come chiarimento e precisazione delle proprie posizioni), Croce (quello reale ed unico), finché sarà vivo, replicherà ribadendo l'impossibilità di storicizzare le categorie o di modificarne lo schema e il numero.

Si comprende, allora, come mai alla fine, in Italia (paese nel quale - più di quanto non sia avvenuto in Germania, dove lo Historismus si è ben presto rovesciato nel suo opposto, complice l'uso che Heidegger ha fatto del pensiero di Dilthey - lo storicismo ha forse resistito con più tenacia, grazie anche all'ispirazione storicistica del marxismo gramsciano), coloro che ancora si appellano a questa prospettiva teorica lo facciano senza distinguere la filosofia dalla storia, facendo coesistere, indifferentemente, "visioni della verità" e "visioni della storia"; mostrando, anzi, più spesso una marcata preferenza per le seconde che per le prime, anche perché queste restano, come si è già detto, per lo più implicite e risultano desumibili solo dal concreto lavoro storiografico . Questo spiega anche perché tra costoro sia talvolta preferita la versione che dello storicismo offre Meinecke rispetto a quella offerta da Croce e perché , quando pure si continui a mantenere ferma la pregiudiziale crociana, si tenda ad anteporre il Croce concretamente storico al Croce teorico della storia e dello storicismo o comunque il Croce successivo al 1910 e al "sistema" rispetto a quello precedente questa data . Caratteristica comune a tutte queste posizioni è il rifiuto della metafisica e la sua identificazione con il riconoscimento di una verità extrastorica, o con quello - tipico, secondo questo punto di vista, della metafisica nelle sue forme più estreme - della natura extrastorica della verità. Perciò lo storicismo, oggi, viene per lo più genericamente interpretato come affermazione della natura storica della verità che concerne l'essere umano finito, la sua esistenza, la sua cultura, le forme di civiltà cui ha dato vita, i modi del suo convivere sociale con i propri simili ecc. Il carattere relativo del sapere cui questa verità dà luogo, che essa rende possibile e del quale essa rappresenta il coronamento, viene di norma giustificato ricordando che anche le scienze naturali hanno messo capo ad un'idea di verità per la quale questa è tutto fuorché un "possesso perenne".

Vorrei a questo punto spiegare perché una simile posizione si fondi essenzialmente su un equivoco e proporre, conclusivamente, una diversa idea di ciò che una visione storicistica del rapporto che gli esseri umani stabiliscono, nel tempo, con la propria evoluzione culturale, civile, sociale e politica può, ancora oggi, essere e rappresentare. Lo storicismo, abbiamo detto, è, in tutte le sue forme, le sue espressioni, le sue manifestazioni ed applicazioni, una veduta della realtà, ossia, una visione filosofica della verità. Non solo della verità della storia, nell'accezione comune e riduttiva di questo termine, ma anche di quella della vita, dell'esistenza, della politica, della morale, dell'economia, della società (in altre parole, della storia intesa in senso onnicomprensivo, ovvero nel senso per cui essa abbraccia tutto ciò che è storico, umano, culturale, nel significato antropologico che si dà oggi a questo aggettivo). Di più, per alcune forme di storicismo, non si tratta neppure "soltanto" di questa verità (che è pur sempre una parte del tutto), ma anche di quella della natura (alla quale, del resto, la teoria darwiniana ha procurato una valida e soprattutto "scientifica" via d'accesso all'orizzonte dei fenomeni che si svolgono in modo progressivo - cioè non ciclico e non ripetibile, dunque storico - nel tempo). Abbiamo detto questo, ossia, ripetiamo, che lo storicismo è innanzitutto una teoria filosofica, e quindi una teoria della verità, ma ora dobbiamo aggiungere: una teoria riduzionistica della verità. Ovvero, una teoria che interpreta la verità, in funzione di "altro". E che cos'è questo "altro"? Questo "altro" è il "contesto". Insomma, per lo storicismo, un fatto storico, un'azione individuale o collettiva, un pensiero filosofico, un'idea artistica, una teoria morale, un'ideologia politica possono essere compresi in modo autentico solo ricostruendo la rete complessa di eventi storicamente circonvicini, nel contesto della quale tale fatto (idea, pensiero, azione teoria) può mostrarsi coerente e dotato di senso. Preso per sé tale fatto non ha alcun senso, lo acquista solo se viene collocato in un simile quadro. Tutto ciò che non può essere collocato coerentemente nel suo tempo, è "fuori contesto". Potrà essere una geniale anticipazione di qualcosa che maturerà solo in seguito, ma storicisticamente parlando è, rispetto al contesto cui appartiene, irrazionale, anacronistico, sbagliato. In questo modo, si può arrivare a sostenere che nella Ginevra calvinista del '500 è errato condannare l'intolleranza che condusse al rogo l'eretico antitrinitario Serveto, perché fu dal tronco della dottrina calvinista, preservato, quando era ancora fragile e malcerto nelle sue radici, anche con condanne intolleranti come quella del Serveto, che è poi germogliata la pianta della libertà di pensiero e della tolleranza, non dall'anacronistica visione dei sociniani, razionalisti e antidogmatici fuori tempo e fuori contesto. D'altra parte, poiché anche le posizioni anacronistiche sono fatti storici, esse devono essere, a loro volta giustificare storicamente, ossia "contestualizzare", in modo da far emergere la loro coerenza di fenomeni minoritari, quella per la quale, anche una scelta controcorrente, destinata nel suo tempo a non mettere radici, può avere, e proprio in questa incongruenza con il suo contesto, una propria ragione storica: basta allargare il quadro, e l'incongruente diviene anticipazione del futuro, primo germe, che metterà radici più avanti, ma che intanto prepara il terreno per ciò che verrà ed è, di conseguenza, congruente rispetto ad un concetto più esteso e comprensivo di "contesto", o rispetto ad un "contesto" di raggio più ampio. Solo così la storia può giungere ad assolvere compiutamente la sua funzione, se questa viene intesa, secondo il noto aforisma crociano, non come funzione giudiziaria, ma di giustificazione comprendente. Eppure, se le cose stanno in questo modo, a quale altro criterio di verità lo storicismo può fare appello, oltre al criterio dell'essere accaduto di ciò che, di fatto, è realmente accaduto? In altri termini, può, lo storicismo, in base al suo stesso impianto strutturale di pensiero, risolversi in qualcosa di diverso dalla storiografia intesa in modo rankiano? Ma risolvendosi in questa, dello storicismo come visione della realtà, che cosa rimane? Non vorrà forse dire, una simile conclusione, che lo storicismo non è affatto - perché non può esserlo - una filosofia, l'espressione di un certo modo di intendere e definire la verità? Può davvero avere qualcosa a che fare con la verità una teoria che non consente di discernere e discriminare se non l'accaduto dal non-accaduto? In effetti, non è la verità che si giustifica storicamente, anche perché, se la verità fosse l'oggetto di una tale giustificazione, ciò su cui l'atto storicizzante esercita il suo potere, essa lo sarebbe (e quindi sarebbe verità) già prima che la giustificazione potesse essere prodotta. D'altra parte, se la verità è già verità, non è possibile farsi alcuna idea del valore addizionale che una giustificazione storica potrebbe conferirle. Non è la verità, ossia ciò che è già, di per sé giustificato che può o deve ricorrere alla storia per giustificarsi: è ciò che appare privo di giustificazione, incongruo, insensato, fuori misura. Ma una conclusione di questo genere rovescia, letteralmente, il significato e il valore dello storicismo. Essa ci dice che si storicizza solo ciò che, giudicato con il criterio della coerenza fra premesse e conseguenze, ossia con la logica della ragione, appare incomprensibile, contraddittorio, inesplicabile. Ma ci dice anche qualcosa di più impegnativo e compromettente, ovvero che se la storia (e la psicologia, individuale o collettiva) giustifica ciò che è logicamente privo di consequenzialità, non per questo, cioè perché lo giustifica, lo rende consequenziale. Il corto circuito logico non è qualcosa di cui la logica possa dare conto: essa, piuttosto, lo denuncia, lo mostra come ciò che non può essere così come appare. Il poter essere come appare, ossia incongruo, del razionalmente e logicamente difettivo è attestato e reso plausibile, allora, da altro, su un altro piano, ossia dalla storia sul piano delle spinte, delle pressioni, delle esigenze, delle pulsioni, spesso contrapposte e incompatibili cui gli uomini soggiacciono nel promuovere la propria vita e nel tentativo di distogliere lo sguardo dalla minaccia della dissoluzione, dal fantasma incombente e repulsivo della morte.

Indubbiamente, una simile idea di storicismo non è, come è invece il suo concetto tradizionale in tutte le interpretazioni che ne sono state offerte, legato all'idea di un corso storico dotato intrinsecamente di senso (cosa che non significa per forza "progressivo": anche l'involuzione, possibile, temuta, prevista - e che lo sia da un pessimismo cosmico-epocale o di maniera oppure da quello "dell'intelligenza", dove più che a Spengler bisognerebbe pensare a Weber, poco importa -, può rappresentare, ed anzi rappresenta senz'altro, un "senso", un "orientamento", una "direzione" dello svolgersi degli eventi storici). Esso ci ricorda, tuttavia, quella che credo sia un'esperienza comune a molti storici e ricercatori: il senso delle cose si delinea solo se le guardiamo prospetticamente, all'ingrosso, collocandoci ad una certa distanza da esse e dal loro sviluppo. Quando ci avviciniamo e ci inoltriamo con lo sguardo nel reticolo composto e disordinato dei fatti specifici e particolari (come amano dire i fautori della storiografia "al dettaglio") il senso ci sfugge. Allo storico sono, suppongo, indispensabili entrambe le "visioni", ma la seconda ci avverte, o, perlomeno, dovrebbe avvertirci (nel senso di "farci avvertiti"), che la prima non ci garantisce nessuna verità: ci propone soltanto, come l'immagine del sole al tramonto, quando il suo disco appare più grande e intensamente colorato, un riflesso, naturale e incontrollabile del nostro occhio.

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