Lo spettro di Marx

Paolo Favilli
Università di Genova

Lo spettro di Marx

1) Il titolo di questa relazione può apparire, per molti versi, scontato. Scontata ed usurata l’antica metafora marxiana del Manifesto. Lo stesso titolo di un celebre libro di Jacques Derrida s’inserisce con tutta evidenza in tale tradizione metaforica.
Paradossalmente, però, è proprio dal decostruzionista Derrida che lo spettro (gli spettri) di Marx assumono corporeità nella asserita necessità, per l’oggi, di una ricostruzione analitica che possa pensare una storicità libera da ontologia e teleologismo.

Rileggendo Marx, – scrive Derrida – «mi son detto che conoscevo pochi testi, nella tradizione filosofica, forse nessun altro, la cui lezione oggi sembrerebbe più urgente, purché si tenga conto di quel che dicono gli stessi Marx ed Engels (…) circa (…) la loro storicità intrinsecamente irriducibile». Nei confronti della tradizione marxista e non solo, afferma ancora il filosofo francese, il metodo decostruttivo, «consisteva sin dall’inizio nel mettere in questione il concetto onto-telelogico - ma anche archeo-teleleologico della storia (…) Non per opporgli una fine della storia o una anastoricità, ma al contrario per dimostrare che questa onto-teo-archeo-telelogia blocca, neutralizza e infine annulla la storicità» . Più d’uno degli spettri di Marx si troverà senz’altro d’accordo con questa impostazione di metodo.
Non quello della sistematica certamente, non quello di una visione compatta, ma certo quello dell’anello spezzato. Spezzare l’anello è in fondo un atteggiamento decostruzionista che rifiuta di mantenere assieme quello che non sta assieme. Anche Antonio Labriola, del resto, aveva nettamente separato il senso della storicità marxiana, il modo di pensare la storia e le categorie analitiche che potevano derivarne, dai destini storici del socialismo. Oggi la separazione non potrebbe essere più definitiva. E dunque, dice ancora Derrida:

«Sarà sempre un errore non leggere e rileggere e discutere Marx. (…) Sarà sempre un errore, un venir meno alla responsabilità teorica, filosofica, politica. Da quando la macchina per far dogmi e gli apparecchi ideologici “marxisti” (Stato, partito…) sono in via di estinzione, non abbiamo più scuse, solo alibi, per distoglierci da questa responsabilità. (…) Non senza Marx, nessun avvenire senza Marx. Senza la memoria e l’eredità di Marx: e comunque di un certo Marx, del suo genio, di uno almeno dei suoi spiriti».

Vedremo nel corso di questa relazione come sia complesso il rapporto tra necessità analitiche evidenti e possibilità di usare proficuamente strumenti fondamentali in contesti di hantise per tutto ciò che quegli strumenti ricordano. C’è una hantise, infatti, che «domina il discorso d’oggi». Un’ossessione necessaria all’esorcismo di tutti i fantasmi di Marx. «La hantise appartiene alla struttura di ogni egemonia». E l’hantise, nell’ambito del discorso dominante assume spesso «la forma maniacale, giubilatoria e incantatoria che Freud assegnava a una certa fase detta trionfante nel lavoro del lutto».
Lo spettro che interessa il contesto di questo convegno è quello relativo alla cultura della storia, anzi della cultura professionale della storia. Le due sfere, infatti, sono ben lungi dal coincidere. E quella che appelliamo, con notevoli difficoltà di definizione, come la «coscienza storica» di un’epoca, non è determinata principalmente dal lavoro degli studiosi di professione.

Il decostruzionista Derrida, dunque, indica nel modo di pensare la «storicità» uno dei luoghi in cui è necessaria l’apparizione del fantasma. D’altra parte il Marx non fantasma aveva sostenuto di conoscere come unica scienza quella della storia.
La scienza appunto, una scienza certamente particolare, ma in quella tradizione comunque scienza oggettivante.
E proprio sulla dimensione «scientifica» è interessante notare l’intervento di Michel Foucault, considerato uno dei padri del «postmodernismo» nonostante abbia affermato: «Che cosa si intende per postmodernità? Non sono al corrente» . Ebbene Foucault, mai stato «né freudiano, né marxista, né strutturalista», si esprimeva in questi termini sul rapporto con il Marx «scienziato»:

«Non cito molto Marx, ma un fisico, quando lavora in fisica, prova forse il bisogno di citare Newton o Einstein? Li usa, ma non ha bisogno di virgolette, di note a piè di pagina o di un’approvazione elogiativa che provi fino a che punto è fedele al pensiero del Maestro. E poiché gli altri fisici sanno quel che ha fatto Einstein, quel che ha inventato, dimostrato, lo riconoscono subito. È impossibile fare storia oggi senza usare una sequela di concetti legati direttamente o indirettamente al pensiero di Marx e senza porsi in un orizzonte che è stato descritto o definito da Marx. Al limite, ci si potrebbe chiedere che differenza ci sia tra esser storico ed essere marxista [il corsivo è mio]. (…) Ed è all’interno di quest’orizzonte generale, definito e codificato da Marx che comincia la discussione, con quelli che si dichiareranno marxisti perché accettano questa specie di regola del gioco che non è quella del marxismo, ma della comunistologia, cioè definita dai partiti comunisti che indicano il modo in cui bisogna utilizzare Marx per essere dichiarati marxisti da loro».

Certamente si faceva storia, in Italia e fuori, senza ricorrere a «concetti legati direttamente o indirettamente al pensiero di Marx e senza porsi in un orizzonte che è stato descritto o definito da Marx», ma ciò non era possibile all’interno di quella «innovazione epistemologica di fondamentale importanza», vale a dire un’elaborazione economico-statististica dei fatti umani, che ha interessato per lungo tempo il programma di una storiografia come «scienza sociale storica», programma cui è difficile negare il contributo fondamentale di Marx.

Derrida, Foucault, punti di riferimento obbligati per filoni di pensiero assai lontani da metodologie e senso marxiano della «storicità», in maniera diversa ed in momenti diversi, hanno ritenuto essenziale il rapporto con quel metodo e quel senso. Alcuni di quei filoni di pensiero propongono ed esercitano pratiche storiografiche che sembrano ripercorrere, con strumenti spesso assai raffinati, gli antichi sentieri della comprensione storica. Eppure sia Derrida che Foucault avevano stabilito un rapporto particolare con la metodologia marxiana proprio perché ritenuta capace di superare l’ormai antica controversia tra comprensione e spiegazione. Un paradosso?
Quale altro paradosso suggerisce questa affermazione di Giovanni Levi? «Tutti noi siamo stati in qualche modo influenzati dal marxismo (…) e io sono esterrefatto quando vedo che di colpo nessuno è più marxista; è una cosa atroce, agghiacciante».
Può bastare la risposta del cambiamento di paradigma? C’è stato per questo un progresso nella cultura della storia?

2) Per indicare le tappe (a zigzag o meno) del «progresso» della storia come disciplina si ricorre sempre più all’uso degli strumenti concettuali legati al termine «paradigma» che, quando è comunemente accettato, definisce lo stato di «scienza normale». Il modello di riferimento è quello elaborato da Thomas Kuhn agli inizi degli anni Sessanta in un agile libretto che è stato all’origine di un’imponente discussione epistemologica.
Il libro del Kuhn è stato usato con eccessiva rigidità dagli studiosi di scienze sociali ed in particolare da parte degli studiosi di una disciplina così difficile ad essere racchiusa in uno statuto scientifico predefinito come la storia. Del resto le strutture scientifiche cui si fa riferimento sono soprattutto quelle della fisica. Accenni alle scienze sociali. Nessun accenno alla storia.
Nemmeno in Kuhn, comunque, il mutamento scientifico assume i caratteri della linearità e della trasparenza. Il meccanismo della successione paradigmatica non ha niente di pantaleoniano ed inoltre «la competizione tra paradigmi diversi non è una battaglia il cui esito possa essere deciso sulla base delle dimostrazioni». L’ attenzione riguardo ai cambiamenti di paradigma deve concentrarsi piuttosto sulla «comunità scientifica», sulle sue logiche, che sono molto più complesse e subiscono molte sollecitazioni esteriori rispetto alle logiche più strettamente analitico-argomentative.

Sebbene, come risulta evidente ad una attenta lettura de La struttura delle rivoluzioni scientifiche, la questione del mutamento paradigmatico sia, anche per Kuhn, questione assai problematica, non monodimensionale, è, però, un sociologo-epistemologo come Bourdieu che ha posto il problema del mutamento scientifico nelle scienze sociali in termini di maggiore complessità. Bourdieu ha identificato un quadro strutturale, il «campo», in cui collocare le pratiche e gli attori. Il campo non è una struttura data una volta per tutte ma un terreno di lotte costanti. La rivoluzione scientifica, il mutamento di paradigma, quindi, lungi dall’operare ad un livello principalmente epistemologico, presiederebbe a una nuova definizione dei rapporti di forza fra i diversi attori del campo. Rapporti di forza fortemente condizionati da ciò che accade fuori dal campo.
La teoria dei "campi" ci ricorda come ci siano lotte e piccole rivoluzioni ovunque, e che, dunque, i processi di trasformazione scientifica si manifestano, parafrasando Foucault, non tanto nella forma di una «fisica», del mutamento epistemologico, quanto di una «microfisica».

Se la sociologia non è un capitolo della meccanica e i campi sociali sono campi di forza ed insieme campi di lotte per trasformare o conservare questi campi di forza, a maggior ragione la storia epistemologica della storia non sconta i medesimi meccanismi della storia della meccanica razionale.
Recentemente un economista teorico italiano con notevole esperienza diretta nell’applicazione della politica economica, l’ex ministro Piero Barucci, faceva notare ai sostenitori di un pensare analitico dell’economica in sé conchiuso, che oggi le Banche Centrali «sono uno dei personaggi centrali (se non il più importante) dei fatti–problemi sui quali lavora l’economista». Nessun economista ormai può più prescindere dai modelli econometrici delle Banche centrali che sono così diventate la struttura principale che determina gli indirizzi della ricerca teorica. Lo spettro di Marx avrebbe usata la stessa argomentazione.

3) L’influenza di metodologie ispirate a Marx è stata massima in un lungo periodo in cui il rinnovamento della «cassetta degli strumenti» si svolgeva nel contesto del consolidamento della fiducia nelle possibilità conoscitive della «scienza» storica. Non inessenziale, fuori dal campo, la fiducia nei processi di trasformazione «progressiva» della società.
«Non esiste scienza senza teoria», affermava Pierre Vilar agli inizi degli anni Sessanta, e si trattava di un’affermazione tanto asseverativa quanto programmatica per l’uso di una metodologia marxista in fieri nell’ambito di una storia anch’essa «in costruzione».

Una storia per cui «l’inspiegabile è riducibile al non ancora spiegato» è una storia a cui è aperta la possibilità di una elaborazione di tipo scientifico, una storia la cui opera di rettifica della sistemazione del passato effettuata dalle società tradizionali non «è affatto diversa dalla rettifica rappresentata dalla scienza fisica rispetto alla prima sistemazione delle apparenze nella percezione, e nelle cosmologie che le restano tributarie». Ad esprimersi in questi termini è Paul Ricoeur alla metà degli anni Cinquanta, ed a Ricoeur non può essere certo rimproverato di avere un’idea ingenua della scienza e della proposizione di un programma scientifico di ricerca anche per un sapere, come la storia, che non era facilmente configurabile nella classificazione tradizionale delle scienze. Il contesto culturale in cui avviene (o piuttosto accelera fortemente) il profondo rinnovamento degli studi storici, è un contesto culturale a cui non si sottrae, e volontariamente, neppure il grande maestro di una epistemologia ermeneutica.
Colui che si è scelta la genealogia di Dilthey, Heidegger, Gadamer, si è posto anche il problema di uscire dal limite per cui «solo il quantificabile p[oteva] essere oggetto di una storia scientifica». Per questo Ricoeur ha sostenuto di aver «sempre avuto gran cura di dissociare lo strutturalismo, in quanto modello universale di spiegazione, dalle analisi strutturali legittime e fruttuose», e di aver cercato di eliminare dalla sua concezione del soggetto «tutto ciò che avrebbe potuto rendere impossibile incorporare una fase di analisi strutturale all'operazione riflessiva».

La questione di una storia scientifica si manifestava, dunque, in forme diverse. Schematizzando si può dire che due fossero le principali: a) quella che privilegiava la dimensione quantitativa a cui applicare matematica ed econometria, b) quella che, pur non rifiutando il «quantitativismo», lo inseriva nell’ambito di una più ampia prospettiva «strutturale». La prima, di fatto, riproponeva, con strumenti tecnici assai raffinati, un approccio epistemologico in continuità con la ormai annosa Erklären–Verstehen Kontroverse, un approccio epistemologico in cui «spiegazione» si collocava versus «comprensione», La seconda, invece, faceva di «spiegazione» e «comprensione» due momenti complementari di una «scienza critica». Ambedue queste forme scontavano, comunque, un alto grado di teorizzazione dell’analisi storica, ritenuta l’unica via per un programma scientifico.
Nonostante che spesso tanto gli epistemologi che i logici ritenessero gli storici «in qualche misura ingenui», mai come nel contesto del programma di una storia scientifica risulta vero quello che ha sostenuto Raymond Aron, cioè che «… malgrado tutto storici e logici fanno oggetto delle loro speculazioni gli stessi problemi anche se non li inquadrano e li considerano sempre allo stesso livello di astrazione».

Sul ruolo essenziale avuto dalle categorie analitiche marxiane, comunque intese sia nei momenti specifici, sia negli svolgimenti temporali, per quel che concerne un programma che comportava il «passaggio dalla storia prescientifica alla storia scientifica» concorda un’ampia letteratura a carattere storico, epistemologico, economico.
Naturalmente in questa dimensione programmatica non c’è solo Marx. C’è la tradizione di Èmile Durkheim, di François Simiand. Di un Simiand del quale non è facile la collocazione tra sociologia ed economia, di un Simiand che già all’inizi del secolo era intervenuto contro gli idoli della tribù degli storici: l’idolo della politica, l’idolo dell’individuale e l’idolo della cronologia.
C’è la tradizione di Max Weber che quasi nello stesso periodo (1904) definisce l’oggetto della sua rivista, «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», come «oggetto economico-sociale» e che contemporaneamente si premura di ampliare la sfera di analisi compresa in tale oggetto:

«La nostra rivista, come del resto anche la scienza economico-sociale a partire da Marx e da Roscher, si è occupata non soltanto di fenomeni “economici”, ma anche di fenomeni “economicamente rilevanti” e di fenomeni “condizionati economicamente”. L’ambito di siffatti oggetti si estende naturalmente (…) attraverso l’insieme di tutti i processi culturali»

Del resto anche in scritti weberiani specificamente di storia economica è facilmente rilevabile l’attenzione a «l’insieme di tutti i processi culturali».
Si tratta di tradizioni che, nell’ambito del processo delineato, non si contrappongono a quella di origine marxiana, nonostante che alcune, in particolare quella weberiana, siano state in origine pensate in contrapposizione ad aspetti non certo secondari del marxismo. È stato detto che Weber è «l’unico vero rivale [di Marx] per quanto riguarda l’influenza teorica sugli storici e, per certi versi anche una sua importante integrazione e correzione».
D’altra parte è impossibile per Weber prescindere dall’insieme della Fragestellung marxiana, da quel potentissimo meccanismo per l’applicazione di strumenti teorici alla storia rappresentato dal complesso dei modelli utilizzati in Das Kapital senza i quali non è facilmente pensabile un aspetto centrale della sistematizzazione «idealtipica», quello concernente i «punti di vista unilateralmente posti in luce, in un quadro concettuale in sé unitario». Ed inoltre il rifiuto della «cosidetta “concezione materialistica della storia” come “intuizione del mondo” o come denominatore comune di spiegazione causale della realtà storica», non significava il rifiuto dello «accurato impiego dell’interpretazione economica della storia» che rimaneva «uno degli scopi essenziali» della ricerca storico-sociale.

Indipendentemente dal fatto che «una storiografia basata su Marx [sia] concepibile senza aggiunte weberiane, mentre non si [possa] concepire una storiografia weberiana a meno che questa non assuma come suo punto di partenza Marx», la contrapposizione era depotenziata dal fatto che le scelte per una «sociologia marxista» oppure «weberiana», o «marxista-weberiana» avvenivano all’interno dello stesso impianto epistemologico.
È soprattutto a partire dal secondo dopoguerra che la Fragestellung marxista diventa particolarmente pervasiva nei confronti delle altre tradizioni, di quelle che condividono la concezione del primato della storia economico-sociale nel contesto della complessiva ricostruzione storica. Pervasiva ma anche recettiva, come nel caso delle «Annales», o come, per quel che concerne contaminazioni weberiano-marxiste, nella scuola di Bielefeld.

Krzysztof Pomian ha tracciato uno schematico quanto efficace schema dei mutamenti paradigmatici (quelli macro) intervenuti nell’itinerario della storia professionale. «Nel primo periodo è la storia politico-diplomatica ad avere svolto il ruolo principale nell’insieme della materie storiche; nel secondo, terminato negli anni settanta del Novecento, questo ruolo è passato alla storia economico-sociale». Quello attuale è il momento della storia antropologico-culturale, dei cultural studies. Nel momento in cui il macro paradigma è affermato esso tende a subordinare gli altri approcci «o a stabilire per loro quelli che a suo modo di vedere sono i concetti che dovrebbero permettere di pensare [il] tempo trascorso (…), integrandolo in una totalità intelligibile». In genere ognuno di questi momenti privilegia un oggetto, stabilisce una centralità. Per il primo momento si tratta dello stato, per il secondo delle classi, per il terzo dell’identità.

Ebbene le classi sociali sono oggetto fondamentale della problematica marxista, della sociologia economica marxista. «Karl Marx, dopo Adam Smith, ha posto la storiografia al punto d’incontro tra l’economia e la sociologia». Il ruolo delle classi nella teoria della produzione, nella teoria distribuzione, nella teoria del salario, nella dinamica del capitale, fanno di tale oggetto l’insieme di segni più significativo nell’ambito della storia economico-sociale. Tale insieme di segni può configurarsi (e si è realmente configurato in quel contesto) come insieme strutturale. Ora uno dei punti di forza del metodo marxiano consiste tanto nell’insistere sull’esistenza della struttura sociale, quanto sulla sua storicità, cioè sulla sua dinamica di mutamento. In un periodo in cui lo «sviluppo», come teoria, come fatto, come positiva aspettativa, era divenuto elemento caratterizzante dell’epoca, il riferimento costante a categorie marxiane nella definizione di un oggetto storico-teorico basato su un sistema dinamico di relazioni tra classi, processo produttivo ed interazioni politico-culturali in «un tutto sociale», appari quasi come naturale. Se a partire dalla seconda metà degli anni settanta lo sviluppo è entrato in crisi, come fatto ima e poi come concetto, e la stessa crescita ha conosciuto vicissitudini impensabili per la «età dell’oro», ciò non significa che le logiche che avevano legato storia a teoria privilegiando necessariamente la problematica lato sensu marxista in quel contesto determinato, rispondessero a ragioni ideologiche.
Si è detto, e giustamente:

«Oggi (…) parliamo di mercato più che di capitalismo. Non so se ciò renda più chiara la discussione, dato il carattere malcerto e polisemico del termine. Ma certamente se la nostra discussione fosse avvenuta quindici o vent’anni fa, avremmo discusso di anche di accumulazione originaria, di big spurt o di sottosviluppo, e ogni volta l’apporto teorico degli studi storici sarebbe apparso diverso. [Il corsivo è mio]».

L’apporto teorico degli storici va dunque considerato in relazione ad una specifica stagione di problemi storico-teorici. Ed a tale specifica stagione va commisurato lo stesso grado di teorizzazione della storia.
Una cultura della storia che, per le ragioni suddette, non poteva (e non voleva) prescindere dall’insieme problematico marxista, era necessariamente portata verso modelli di teorizzazione della storia. Ci si poteva muovere tra modelli di teorizzazione stretta o modelli di teorizzazione larga, ma ad una storia intimamente percorsa da istanze teoriche non ci si poteva sottrarre. Ed il rapporto con la sfera economica, la scienza sociale che aveva sviluppato l’impianto teorico più rigoroso, la scienza di riferimento per un materialismo storico genericamente diffuso, finiva per diventare misura anche del grado di marxismo nella cultura della storia.

4) Uno studioso appartenente alla tradizione del nuovo storicismo napoletano, quello dei Piovani e dei Tessitore, ha scelto come titolo e come epigrafe di un suo libro, una citazione di Troeltsch: «Le grandi crisi storiche guariscono spesso – come la lancia di Odino – le ferite che hanno inferto».
L’attuale crisi del sapere storico (le crisi del sapere storico non sono disgiunte dalle crisi storiche), non ha ancora sperimentato la seconda dimensione, la taumaturgica, della lancia di Odino.

Ci sono difficoltà davvero notevoli a comprendere le dinamiche profonde, le tendenze in atto, delle crisi, delle transizioni, nel momento in cui si stanno vivendo. D’altra parte i marxisti hanno sempre sostenuto che uno degli elementi forti del loro approccio metodologico consisteva appunto nella capacità di considerare il «presente come storia». Tutti noi ricordiamo il libro di Paul Sweezy costruito espressamente con l’obbiettivo di comprendere il presente «come storia oggi», mentre vi è «ancora il potere di influenzarne la forma e i risultati».
Il titolo del libro faceva esplicito riferimento ad un passo del primo Lukács marxista, quello di Storia e coscienza di classe. Lukács aveva affermato che i limiti della maniera tradizionale di considerare il sapere storico si mostravano particolarmente evidenti proprio «nel momento in cui [si doveva considerare] il problema del presente come problema storico». E le ragioni stavano nella diffusione di un «relativismo storico» come prodotto di un’impostazione di metodo in sé contraddittoria.

Da una parte si era venuta affermando la considerazione della struttura della società «come una fatticità del tutto ovvia, che deve essere semplicemente assunta, atteggiandosi verso di essa in modo immediato». Ciò comportava, indipendentemente dalle forme sempre più raffinate delle «filosofie della storia», una sostanziale negazione del significato stesso della storia. Marx aveva criticamente rilevato il modo in cui l’economia politica si era posta di fronte alla ormai definitiva affermazione dell’economia moderna: i rapporti economico sociali della società presente erano diventati «leggi eterne che dovevano sempre reggere la società. Così c’è stata una storia, ma ora non ce n’è più».
Nel presente definito da Lukács la fine della storia riguardava la società nel suo complesso per lo meno per quel che riguardava i processi strutturali.
Dall’altra parte, la dispersione della storia in una fattualità minuta riguardante, in genere, la dimensione politica supposta alta, fattualità che si trovava ad essere tratteggiata spesso alla maniera del «misero e spregevole livello spirituale del più deteriore giornalismo di provincia» . E ciò proprio in relazione a quella profonda crisi del «dopo la guerra e la rivoluzione mondiale» che «tutti gli storici» erano stati incapaci di comprendere in quanto «presente come storia».
In questo nostro presente le difficoltà di senso hanno portato alla teorizzazione di un’altra fine della storia ed alla presenza non marginale di una concezione della storia dominata «da un qualche Irrazionale, da una qualche eterogenesi dei fini che ci conduce verso l’Incongruo».

Mi pare, ha detto da pochissimo uno dei più acuti ed originali storici del pensiero economico, che l’unica «maniera di uscire da un’ontologia dell’Incongruo sia sostituirla con una metodologia (…) una storiografia che sia più possibile oggettivante» . Naturalmente non c’è nessuna ingenuità epistemologica nel fare riferimento ad una storiografia “oggettivazzante”. Non sarebbe certo possibile riproporla in una dimensione scientista.

Uno scrittore tedesco, Peter Weiss, descrive un Lenin immaginario che di fronte alla tabula rasa della ragione proposta dal Da da da di Tristan Tzara, viene preso da una violentissima collera ed esclama: «… proprio perché la ragione è così fragile, non ammetterò che si cerchi di estinguere questo debole lume».
In fondo una metodologia «oggettivante» è una proposta modesta. Ma in tale prospettiva sarà impossibile non imbattersi ancora negli spettri di Marx?

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