Ancora una filosofia della storia?

Alberto Burgio
Università di Bologna

Ancora una filosofia della storia?

Mi pare che il tema del nostro convegno potrebbe essere riassunto dicendo che quello che ci stiamo proponendo di fare è: storicizzare la svolta post-moderna e interrogarci sulle ragioni del suo successo, della sua egemonia. A me compete di declinare questo tema in relazione alla filosofia della storia. Prima di affrontare la questione, vorrei tuttavia presentare un motivo di elogio nei confronti di chi ha progettato il convegno: un motivo che riguarda da vicino i problemi di cui parlerò. Costituisce sempre un punto di merito sapere portare l'attenzione sui nodi rilevanti che lo "spirito del tempo" di volta in volta stringe. Questo è tanto più vero quando si riesce a intuire in anticipo lo stringersi di uno di questi nodi, quando si riesce a presentirlo.
Come dirò in chiusura, questo è il nostro caso. Proprio in questi giorni qualcosa sembra cambiare nell'atteggiamento corrente rispetto alla filosofia della storia. Si direbbe che stia cominciando un disgelo, dopo lunghi decenni di rigido inverno. Naturalmente sarebbe presuntuoso presentare una ipotesi come una certezza. Tuttavia c'è qualcosa di più di un vago sentore. Recenti accadimenti sembrano avere attratto l'attenzione sull'insieme della problematica filosofico-storica e sulla sua obbiettiva rilevanza. Come accade, questo risveglio d'interesse presenta tratti ambivalenti. Ma ci pone in una condizione particolarmente vantaggiosa per riconsiderare l'intera materia.

Filosofia della storia e modernità

Detto questo, volgiamoci al merito della nostra questione, cominciando con il porci una domanda. Chiediamoci: in che cosa è consistita la svolta post-moderna per ciò che attiene alla filosofia della storia? A tale interrogativo possiamo rispondere, credo, in termini radicali - persino totalitari - osservando come la sfida post-moderna sia consistita di per se stessa in una riformulazione della problematica filosofico-storica e, più precisamente, nella messa in discussione della sua pertinenza: nella sua delegittimazione. Fosse o meno questo il tema esplicito della decostruzione post-moderna delle tradizioni, dei saperi e delle forme espressive, il nocciolo di pensiero che la teneva insieme era comunque il ripudio di quelle grandi strutture concettuali e normative (le idee di progresso, di ragione, di soggetto e, appunto, di storia) che hanno dato corpo - nell'età aurea del moderno - alla filosofia della storia. Il motivo di questo originario nesso negativo è facilmente comprensibile. Risiede nel rapporto biunivoco che lega insieme, a loro volta, filosofia della storia e modernità. Un rapporto talmente stretto da consentirci di dire che lo spirito moderno si dichiara nelle grandi filosofie della storia, le quali a loro volta impiegano e riorganizzano concetti fondanti della modernità.
Come potremmo infatti definire - rapidamente e con una generalizzazione che non tagli fuori troppi aspetti salienti - la filosofia della storia? Penso si potrebbe sostenere che a caratterizzarla (nel suo complesso) è l'assunzione di tre presupposti, il primo dei quali consiste in una nozione forte della soggettività.
Tutte le filosofie della storia si strutturano intorno a un soggetto concepito come protagonista, se non proprio come demiurgo, della propria vicenda. In tale prerogativa della soggettività storica un ruolo decisivo è svolto dalla coscienza. Il soggetto è caratterizzato dalla coscienza di sé: dalla capacità di autocomprendersi in relazione alla propria interiorità e alla propria condizione nel mondo, dalla quale a sua volta discende la capacità di agire, sul piano storico, con la consapevolezza dei propri fini e delle proprie concrete possibilità. Naturalmente, dicendo che il soggetto della filosofia della storia è cosciente di sé mi riferisco al soggetto nella sua compiutezza, nella configurazione corrispondente alla sua destinazione ontologica. È ovvio che, sul piano empirico, la coscienza di sé è un risultato, una conquista. Non di rado (è questo il caso di Condorcet e, a guardar bene, già di Rousseau, ben prima che di Hegel o di Comte) la filosofia della storia concepisce il processo storico precisamente come processo di formazione della coscienza e di acquisizione dell'autocoscienza da parte del soggetto.
Ma come è concepito, sul piano della sua consistenza materiale, il soggetto della filosofia della storia? È il soggetto che agisce storicamente sulla base della propria autocoscienza in fieri. È il soggetto della prassi, diciamo noi oggi, dopo Marx e dopo Labriola e Gramsci. Questo significa che è un soggetto collettivo (nell'idea di prassi - e, a guardar bene, anche in quella di autocoscienza - è implicito un riferimento alla relazione sociale), benché sia declinato, talvolta, al singolare. Anche quando tratta dell'interiorità del soggetto (si pensi al caso paradigmatico della Fenomenologia dello spirito), la filosofia della storia fa riferimento a strutture condivise, a gruppi e comunità e alla loro cultura. Sullo sfondo, è più o meno ben visibile la collettività per eccellenza: il genere umano, la cui vicenda - interpretata come processo di costituzione della specie in quanto unità autoconsapevole - è il grande tema della filosofia della storia.
Risiede qui un primo segno della modernità della filosofia della storia. Moderno è il tempo della nascita dell'umanità come universale che sa se stesso. È il tempo in cui la storia appare come il percorso lungo il quale - a mezzo di un'esperienza costellata di errori e di conflitti - questa coscienza dell'unità del genere si diffonde, sino a divenire coscienza universale. Quella della filosofia della storia è dunque una modernità essenziale, che - come ci ha più volte ricordato Koselleck - fa della filosofia della storia, a sua volta, un emblema tra i più significativi della modernità Il presupposto della soggettività consapevole non è l'unico ingrediente base della filosofia della storia. Essa dispone anche di un secondo elemento chiave, implica una ipotesi altrettanto o forse ancor più impegnativa di quella che concerne l'idea di una soggettività storica universale. Si tratta del tema del senso della storia, peraltro - come si è potuto osservare - strettamente connesso al problema del soggetto. L'azione del soggetto storico - la prassi - è razionale, nella misura in cui tende a un fine. Ma non a un fine qualsiasi. La razionalità del soggetto non è semplice razionalità strategica. Il fine della sua azionenon può prescindere dalla questione dell'universalità, anzi in buona misura le due cose coincidono. La storia è uno svolgimento dotato di senso perché è il processo di autocostituzione del genere umano quale soggetto consapevole di sé in quanto universale. Anche a questo riguardo sarebbe difficile non scorgere i chiari segni della modernità essenziale di tale prospettiva.
Che cosa significa infatti pensare la storia come il campo pratico nel quale si compie l'azione del soggetto: azione sensata perché tesa all'obiettivo dell'autoriconoscimento dell'universale? E cosa significa concepire la storia come un processo nel corso del quale - a maggior ragione - l'universale si realizza, diviene realtà concreta, da mera virtualità che era all'origine? Significa fare del manifesto ideologico dei Lumi e dell'89 il fulcro di una nuova idea della storia e del mondo. Perché tra l'universalità della filosofia della storia e le tre parole della Rivoluzione francese c'è ben più di una lontana parentela: c'è un rapporto di piena corrispondenza, poiché il comprendersi e farsi dell'umanità in quanto universale consiste precisamente nel divenire degli uomini liberi, eguali e determinati a convivere pacificamente. Insomma non si andrebbe molto lontano dal vero dicendo che la filosofia della storia è la fedele traduzione filosofica e delle finalità politiche dell'89.
Un terzo aspetto caratteristico della filosofia della storia dev'essere infine posto in rilievo. Abbiamo detto: senso della storia, storia come svolgimento sensato. Questo tratto non è di per sé né inedito, né moderno. "Storie a disegno" figurano già tra le produzioni letterarie dell'antichità. Ma nella filosofia della storia manca un elemento invece presente nelle narrazioni precedenti. Non è una regia trascendente a imporre il fine e a garantirne il raggiungimento. La prospettiva è radicalmente immanentistica. La filosofia della storia è un frutto della secolarizzazione. L'uomo moderno, consapevole della propria modernità, è solo con la propria vicenda, con i rischi che essa comporta e con le possibilità che essa dischiude.
Ora, fermiamoci un momento. Abbiamo individuato tre aspetti portanti della prospettiva filosofico-storica, che denotano, tutti, la sua essenziale modernità: l'umanità concepita come il soggetto di una storia interpretata a sua volta come un processo dotato di senso, nel corso del quale quel soggetto si realizza e si autocomprende in quanto autonomo (emancipato da tutele trascendenti) e unitario (costituito di eguali e di liberi). Se questa sintesi è corretta, comprendiamo facilmente perché colpire la modernità implicasse destrutturare la filosofia della storia: perché quest'ultima abbia rappresentato un obbiettivo polemico di prima grandezza agli occhi dei teorici del post-moderno. Per almeno due secoli (tra la metà del Sette e la metà del Novecento), la filosofia della storia è stata uno specchio grazie al quale è stato possibile scorgere nell'umanità il soggetto di una storia dotata di senso. Proprio questa prospettiva ha motivato il sentimento della modernità, l'idea che, con la crisi dell'antico regime, una nuova epoca della storia del mondo - una Neuzeit - fosse finalmente cominciata. Questo specchio andava infranto. Nessun superamento del moderno sarebbe stato possibile finché ne fosse sopravvissuto un reperto tanto prestigioso e influente.

La rivolta contro la totalità

La crisi della filosofia della storia non comincia tuttavia in questi ultimi venticinque anni. Qualche segno di crisi, anche molto importante, si era manifestato ben prima dell'offensiva post-moderna. Anzi, a guardar bene, i primi vacillamenti avevano già turbato i paradigmi classici della prospettiva filosofico-storica, ben più complessi e problematici delle caricature con cui li si è polemicamente raffigurati.
Facciamo un esempio, relativo al classico problema della incidenza del caso nella storia. Il fatto che le filosofie della storia elaborate a partire dal tardo Settecento si presentassero come strutture teoriche coerenti, nelle quali la storia era intesa come un sistema logico e come un processo razionale, non toglie che esse avessero fatto i conti con la casualità, riconoscendole un ruolo più o meno significativo. Certo, per Hegel l'accidentalità è il vuoto: l'assenza di ragione. Non per questo essa è, ai suoi occhi, incapace di incidere, con effetti perversi. Per Marx (sempre che lo si voglia - suo malgrado - annoverare tra i filosofi della storia) il caso è una componente inevitabile dei processi storici, di cui bisogna tener conto in sede analitica e prognostica (ragion per cui le previsioni della teoria debbono sempre avere carattere probabilistico).
Prendere sul serio la potenza del caso diventa necessario dal momento in cui si rinuncia alla garanzia trascendente e alle sue cure provvidenziali. Il punto è che l'esperienza dello scarto ricorrente tra le aspettative del soggetto e gli sviluppi reali rischia di far saltare in aria l'idea della storia come processo razionale, a meno di riuscire a sottomettere l'accidentale a una qualche norma. Il tentativo di ricondurre la casualità a regole la filosofia della storia lo compie sin dai suoi primi esordi, elaborando diverse versioni di una sorta di principio di indeterminazione in grado di addomesticare la casualità, rendendola compatibile con il sistema.
Questa linea di ricerca conduce ad uno dei capitoli più interessanti della riflessione filosofico-storica. L'esistenza del caso fa sì che ci si ponga con sempre maggior frequenza la questione del rapporto tra la logica dello sviluppo storico (le sue finalità razionali) e i limiti della capacità previsionale e operativa del soggetto: limiti in gran parte imposti appunto dall'irriducibile persistenza del caso (sia quest'ultimo un elemento di fatto o semplicemente il fantasma che il soggetto suscita per imputargli le conseguenze - spesso spiacevoli - dell'insufficienza delle proprie conoscenze e capacità di controllo).
La tematizzazione di questo problema (come spiegare il fatto che la storia proceda lungo binari coerenti se il soggetto non è in grado di controllare appieno gli snodi del suo svolgimento?) occupa un posto rilevante dentro le teorie storiche che si susseguono da Kant agli odierni studiosi dell'azione collettiva. E mette capo a quel complicato concetto che nel primo Novecento viene denominato "eterogenesi dei fini". Il soggetto opera in vista di finalità diverse da quelle che in realtà (ma inconsapevolmente) persegue. Si tratta di uno scarto ineliminabile - dunque di un grave vulnus all'assioma dell'autocoscienza assoluta - che può ben essere considerato, ex post, sintomo di una crisi latente e incombente sui sistemi classici di filosofia della storia. C'è un residuo irriducibile di non-controllo, dunque di non consapevolezza del soggetto. Il quale non può esser pensato come unico autore del proprio destino, che anche il caso contribuisce a determinare. Non basta. Quel residuo di imprevedibilità rischia di imprimere alla prassi una torsione paradossale, sospingendola verso effetti controproducenti.
Le "magnifiche sorti e progressive" si rivelano insomma ben presto proposizioni utopiche, espressioni di una hybris che, prima o poi, incontrerà una nemesi. Del resto, non è un caso che, fuori dal rassicurante mondo delle teorie, la crisi delle "grandi narrazioni" filosofico-storiche esploda già nella prima metà dell'Ottocento, e nasca da cause molto dure, che ne compromettono alla radice l'ottimismo. Con buona pace delle prestabilite armonie contemplate dagli economisti classici, lo sviluppo delle società si compie per lunghi tratti radicalizzando la contraddizione tra accumulazione della ricchezza e aumento delle disuguaglianze. A loro volta, le relazioni tra gli Stati permangono largamente affidate alla guerra, dissolvendo, già con l'imperialismo napoleonico, l'illusione kantiana di un parallelo procedere di democrazia e pace. L'ampliarsi del sistema coloniale, infine, smaschera la carica particolaristica dell'universalismo occidentale, mettendo a nudo le ipoteche etnocentriche delle filosofie del progresso e delle teorie stadiali che le innervano. Ben presto anche nel contesto filosofico si infrangono, una dopo l'altra, le figure della totalità che avevano articolato il discorso filosofico-storico. Come si verifica questa crisi? All'inizio per effetto di attacchi alla tesi materiale della filosofia della storia, non ancora (al di là delle dichiarazioni d'intento) con una messa in discussione della possibilità di un discorso sulla logica del processo. Quella che il secondo Ottocento contrappone alle teorie del progresso è dapprima una filosofia della storia al negativo, simile - per tanti versi - alla sentenza voltairiana sull'essenza caotica della storia universale. Il pessimismo metafisico di uno Schopenhauer o di un Eduard von Hartmann non evade dalla prospettiva sistematica, che pure tenta di sottoporre a un vaglio critico. Non per caso i suoi oppositori hanno buon gioco nel contrastarlo con le armi della tradizione, recuperando temi classici della filosofia morale: il destino, la possibilità della felicità, il senso della sofferenza.
Ma via via che la crisi si approfondisce, l'attacco morde nelle stesse condizioni della possibilità di una riflessione filosofica sulla storia. Il soggetto è limitato, non vede e non sa. Ed è frantumato, irriducibilmente peculiare. La ragione è plurale, non vale come fonte di valori condivisi né come strumento comune di orientamento pratico. L'universale è una gabbia, il progresso un mito arbitrario e opprimente. Quanto a lei, la storia non ha fini né senso: anzi neppure esiste. Il discorso si dissolve anche nella sua forma esteriore, diviene puntiforme, e nella sua frammentazione aforistica dichiara l'impossibilità - la non-legittimità - del sistema. È la vicenda della cesura post-hegeliana ricostruita da Löwith. Stirner, Kierkegaard e naturalmente Nietzsche sono i primi eroi di una guerra di liberazione (così è vissuta dai suoi protagonisti e così sarà letta da sterminate schiere di compartecipi) che lungo il Novecento sconvolgerà i territori della filosofia, dissacrando e infrangendo tutte le icone della classicità.

Sulla natura politica della crisi

Qui affondano le radici della crisi contemporanea e della stessa epoche post-moderna, che mette capo a una radicale dissoluzione della problematica filosofico-storica. Ma proprio la natura di queste radici - le ragioni dell'attacco, gli argomenti usati, gli scopi perseguiti - impone a questo punto una sosta. Sin qui non abbiamo scavato nelle diverse anime della discussione. Non perché non fosse evidente la presenza di differenti istanze teoriche e materiali. Ma interessava far risaltare il disegno dello scontro nelle sue linee di volta (e anche per questo - oltre che per i severi limiti del tempo a nostra disposizione - abbiamo trascurato importanti diramazioni della riflessione filosofica sul senso della storia a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, e segnatamente la discussione sulla teoria della storia in ambito storicistico). Ora occorre prestare più attenzione alle contrapposte motivazioni e ai loro presupposti concreti. In altre parole è necessario puntare lo sguardo sul significato politico dell'attacco sferrato contro la filosofia della storia. La crisi attraversa il pensiero progressista, democratico e critico. Se fosse lecito rifarsi alle vicissitudini della Scuola hegeliana, diremmo che scuote la "sinistra", la sua Weltanschauung, i suoi riferimenti culturali, la sua coscienza di sé. La "destra" non conosce vere crisi culturali: semmai - nelle sue componenti più radicali - crisi di egemonia. La messa in discussione delle "grandi narrazioni" filosofico-storiche non coinvolge mai le assunzioni subliminali della coscienza borghese: né la filosofia spontanea delle leadership e delle classi medie, né il senso comune che su di essa si plasma. L'american way of life può ben essere sfidato nella sua materiale praticabilità (o generalizzabilità), senza che per questo venga revocato in dubbio l'orizzonte di attesa che lo ripropone come sistema di riferimento.
Che cosa significa tutto questo? Facciamo attenzione a un fatto ovvio e insieme rilevante. La crisi scoppia in seno al pensiero progressivo perché nasce contro di esso, come sua confutazione. E l'impatto è dirompente perché i suoi critici riescono a penetrare nel campo avverso e ad espugnarlo dall'interno, conquistando suoi territori e ottenendo il consenso di gran parte della sua gente.
La crisi della filosofia della storia si svolge con questa intensità - talché l'idea stessa di "processo storico" assume in breve le sembianze di uno schema teologico - perché il contrasto risulta indecifrabile agli occhi di quanti assistono allo scontro e prendono partito. L'attacco colpisce un sistema di pensiero fondato sull'entusiasmo per le conquiste delle rivoluzioni borghesi. L'uguaglianza, la libertà, la democrazia, la pace: con tutta evidenza erano questi gli ingredienti che la filosofia della storia rimescolava dentro le sue visioni progettuali. Le idee di progresso, di razionalità della storia, di universalità; le aspettative di generalizzazione della conoscenza e di emancipazione dalla dipendenza personale e dalla fatica del lavoro non erano che la traduzione, in un registro colto, di quelle parole d'ordine. Quando il giovane Marx scrive che i tedeschi hanno tradotto in filosofia la politica dei francesi, intende precisamente questo e ha in mente proprio le grandi cattedrali filosofico-storiche innalzate dalla filosofia classica tedesca, a cominciare dal sistema hegeliano.
Senonché, l'attacco contro la filosofia della storia riesce a rappresentare se stesso come un gesto di liberazione. In questo senso è un capolavoro in quella sfida egemonica (Althusser ebbe la sfrontatezza di parlare di "lotta di classe nella teoria") che lacera la filosofia sullo sfondo del conflitto sociale e politico. Nella sua ragion d'essere, il pensiero della crisi si volge contro l'egualitarismo che fonda l'idea moderna di una storia unitaria e sensata. È una critica aristocratica, che parla in nome dell'irriducibile alterità dei pochi contro le pretese massificanti del gregge. La rivendicazione di libertà per l'individuo dalla gabbia della totalità e del telos ha questo imprinting. Ma la critica vince perché convince della propria ispirazione libertaria. Perché riesce ad accreditarsi come difesa dalla costrizione, dai limiti, dalla necessità.
Avviene con la filosofia della storia esattamente quanto accade con la teoria politica. Il liberalismo viene assunto a sinistra (non solo dalle componenti anarchiche, ma da vasti settori di quel che fu il movimento operaio) per la sua presunta carica critica nei confronti delle imposizioni prodotte dallo Stato e dalle sue leggi. Se ne perde di vista completamente il fondamento inegualitario e particolaristico, che risiede - né più né meno - nel rifiuto pregiudiziale di mettere in discussione la divisione sociale dei possessi e delle funzioni: di porre sotto esame la legittimità della libertà capitalistica. Questo limite è rimosso. Richiamarlo appare una fastidiosa pedanteria. Così quel che resta ben visibile è il volto nobile del liberalismo: la sua attenzione per l'individuo (e poco importa se il modo astratto in cui esso è pensato impedisce di fare i conti con la sofferenza di tanti); la sua protesta contro il potere (come se in questo tempo storico e in questa regione del mondo il potere non risiedesse nelle mani della parte che tuttavia rivendica sempre maggiore libertà economica). Del resto, è cronaca di questi nostri anni. L'idea dell'eguaglianza è guardata con sospetto per ciò che di autoritario sembra fatalmente evocare. La libertà è in auge e l'individuo è in vetta nel listino ufficiale dei beni protetti, mentre il mondo è lacerato da sperequazioni di inedita violenza, sconvolto da nuove guerre e minacciato da una bomba ecologica la cui esplosione, a detta di molti scienziati, cancellerebbe ogni forma di vita dalla Terra.

Cronache dell'ultimo decennio

La decostruzione della filosofia della storia raccoglie proseliti anche in virtù delle sue caratteristiche teoretiche, che le conferiscono - esse stesse - una marcata connotazione libertaria. Considerata nel suo dispositivo concettuale, la rottura post-moderna è una replica semplificata della svolta soggettivistica operata dal criticismo kantiano. Il senso delle cose è nel nostro sguardo, che le costituisce in quanto oggetti, con ciò inserendole in un ordine sensato. Estremizzata (perché disancorata da una idea dell'"esperienza" intesa come livello di realtà), questa tesi dichiara totalmente arbitrario qualunque resoconto. Dissolve l'oggettività a beneficio di un radicale soggettivismo, quindi sancisce l'indecidibilità di qualsiasi dilemma. Come nel "tout va bien" di Feyerabend, ogni discorso è legittimo, salvo dispiegarsi al di sopra di un mondo ineffabile, simile al "mistico" di wittgensteiniana memoria. È questo il quadro offerto dal quarto di secolo che ci sta alle spalle, che ha avuto in Foucault una delle sue massime autorità. Progresso, ragione e soggetto degradati a dogmi anacronistici o, peggio, sospettati di intelligenza col nemico: li si è considerati sinonimi di oppressione e di violenza, raccomandando di scorgere in essi nient'altro che criptiche incarnazioni del Potere. La storiografia è stata in buona parte al gioco, accettando le intimidazioni dei sacerdoti del frammento e ripiegando sulla micrologia (come se il micro potesse fare a meno del macro o se bastasse non tematizzare il macro per disfarsi dei problemi che la sua definizione comporta). In filosofia il debolismo ha coronato la Nietzsche- e la Heidegger-Renaissance. Varrebbe la pena di studiare sul serio l'uso pubblico della filosofia, che ha visto trionfare (specie sulle pagine culturali dei giornali della sinistra) la metafisica, l'estetica, e i temi e le prospettive impolitiche della filosofia anglosassone (logica, linguistica ed epistemologia).
Né quest'ultimo venticinquennio è un tutto omogeneo. È stato spaccato in due da un evento epocale, le cui conseguenze segnano in profondità il nostro presente. L'affondamento dell'Unione Sovietica ne è insieme l'episodio più rilevante e l'emblema. Si è trattato di un vero e proprio cambio di epoca: della fine non soltanto del bipolarismo sortito dall'esito della Seconda guerra mondiale, ma di tutto un mondo. Giudizi di valore a parte, la scomparsa del "campo socialista" ha significato, per milioni di persone, per importanti organizzazioni politiche e sindacali, per interi Paesi e continenti, l'offuscarsi di coordinate visibili, di strutture di senso, di legittime aspirazioni a svolgimenti progressivi. E ha impresso una formidabile spinta al processo di dissoluzione di culture, identità collettive e istanze di trasformazione elaboratesi nel quadro della modernità. Quando si avrà modo - forse non noi - di fare bilanci sereni e non impressionistici, si percepirà tutta la portata periodizzante (Hegel direbbe weltgeschichtlich) di questo evento. Perché parlarne adesso? Per il semplice fatto che la conclusione della Guerra fredda e l'instaurarsi di un ordine unipolare (o meglio: il suo profilarsi, verosimilmente illusorio ma non per questo meno devastante) hanno esaltato le conseguenze dell'attacco alla filosofia della storia, rendendone al tempo stesso evidente il segno reazionario. I tredici anni che ci separano da questo tornante hanno visto accrescersi lo scarto tra la sinistra e la destra in termini non solo di quote di potere, ma anche di saldezza identitaria e di capacità egemonica. La sinistra appare priva di riferimenti. Per questo la contingenza le si presenta come un orizzonte non trascendibile. L'ipotesi di un cambiamento strutturale e il pensiero lungo che la sottende le paiono anticaglie ideologiche, appunto improponibili "grandi narrazioni". Per contro, l'idea della "fine della storia" - questa sì quant'altre mai metafisica - si direbbe convincerla, quasi si trattasse di un canone di sobrio realismo. Con ciò siamo davvero alla chiusura del cerchio avviato da Marx con la storicizzazione di tutto ciò che è umano. Attivata, sul nascere del movimento operaio, come grande leva critica contro lo stato presente delle cose, la storia è nuovamente espulsa dalla strumentazione di una critica prudente e assai bene educata. Del resto, non assistiamo forse al trionfo su larga scala degli spiriti animali del capitalismo? Al ritorno in forze della natura nuda e cruda e della sua potenza selvaggia?
Il cerchio si chiude, facendo precipitare sulla terra il cielo delle belle speranze di un "altro mondo possibile". Ma il crollo delle filosofie progressive non ha certo portato con sé la morte dell'ideologia. La "rivoluzione" thatcheriano-reaganiana prima e la fine del bipolarismo poi hanno nutrito turgide mitologie. È stata la vittoria del "mondo libero" sull'Impero del Male, della civiltà sulla barbarie, della democrazia sul totalitarismo. Pochi, pochissimi hanno avuto qualcosa da eccepire dinanzi a queste rappresentazioni. E anche le rare critiche sono state esili balbettii, più che convinti tentativi di resistenza. Viviamo un lungo inverno, nel quale - archiviata dai più qualsiasi ipotesi di cambiamento - la violenza dilaga, trasforma il senso delle parole (la guerra è pace, l'oppressione libertà, il crimine legge) e rischia di incendiare il mondo.

2 novembre 2004

Siamo così all'oggi, a proposito del quale occorre tuttavia aggiungere, in chiusura, ancora una cosa. All'inizio ho parlato della felice intuizione di chi ha voluto questo convegno. Vorrei ora chiarire brevemente che cosa intendevo dire. Il fatto è che proprio in questi giorni qualcosa sembra cambiare. Si direbbe che la sconfitta subita anche sul piano culturale sia talmente grave da costringere la sinistra a prenderne atto, a rendersi conto del disastro e delle proprie responsabilità. L'urto sembra così forte da provocare, forse, un risveglio.
I commenti all'indomani della rielezione di Bush alla Casa Bianca sono sin troppo chiari in tal senso. Tutti oggi riscopriamo la persistenza, la pervasività, l'efficacia e la pericolosità delle ideologie e segnatamente delle grandi visioni della storia. Sin troppa - ho detto - è la chiarezza dei commenti, nel senso che si riconosce la forza delle ideologie (del fondamentalismo evangelico e occidentalista, eccezionalistica o neoconservatore) ma non ci si attarda ad indagarne le basi materiali, i nessi che le collegano al modo di produzione e alle gerarchie di potere che esso struttura. E qui è il tratto di ambivalenza al quale ho fatto riferimento in apertura, poiché si corre il rischio che, dopo avere per lungo tempo sottovalutato l'importanza del terreno culturale, ora lo si assolutizzi, illudendosi di poterlo sganciare da una coerente azione sul piano politico concreto.
Resta il punto: si riconosce che la destra vince anche perché ha saputo seminare nel sottosuolo della società e farvi crescere visioni del mondo, scale di valore, idee di sé e immagini degli altri che giustificano il suo dominio e lo rafforzano.
Per troppi anni abbiamo predicato e praticato la filosofia dell'intrattenimento, lasciando che la destra devastasse il sistema della formazione pubblica e occupasse militarmente i grandi circuiti della comunicazione e dell'informazione (è rilevante un dato che emergeva dai giornali di questi giorni: stando al "Financial Times", i primi dieci multimiliardari del mondo sono tutti imprenditori nei settori dei media, dell'editoria e di internet, il che non significa soltanto che la produzione immateriale procura a chi la controlla enormi profitti, ma anche che essa - cioè una leva fondamentale per la costruzione dell'egemonia - sta saldamente nelle mani di pochi magnati, con buona pace delle nostre aspirazioni democratiche). Oggi finalmente ci ricordiamo che la politica maneggia anche materiali ideologici, che questi non sono necessariamente meno potenti e meno pericolosi delle armi o dei patrimoni, e che, se non vogliamo soccombere definitivamente, dobbiamo anche noi praticare questo terreno, ricominciando a tessere - come in un lontano passato - idee sui nostri fini, i nostri valori, la nostra identità. Intervistato da un quotidiano pochi giorni dopo le elezioni americane, Massimo Cacciari ha osservato che "non si tratta di demonizzare il fondamentalismo di questa nuova destra, ma di contrastarlo con una battaglia delle idee, affrontando anche le questioni immateriali". Credo che non si dovrebbe dissentire da queste considerazioni, né sottovalutarle. Ma varrebbe anche la pena di essere più espliciti e più circostanziati.
Non basta evocare genericamente "questioni immateriali". C'è un terreno ben preciso che è stato abbandonato e che dev'essere riconquistato, avvalendosi anche del nuovo protagonismo di soggettività collettive (movimenti democratici, anti-capitalistici, pacifisti) che mostrano un elevato grado di consapevolezza in ordine alle condizioni di vita della grande maggioranza delle persone, ai loro diritti e alla possibilità di ottenerne il concreto riconoscimento. È il terreno che coinvolge le identità collettive, le finalità della prassi, le dinamiche dei processi di trasformazione. Non si tratta di questioni definite in modo arbitrario, ma degli aspetti fondamentali dell'esperienza storica e della sua definizione teorica. Aspetti che - per essere valorizzati sul terreno pratico - andrebbero riconsiderati in una prospettiva analoga a quella della filosofia della storia.
L'idea della transitorietà di ogni formazione sociale; la considerazione dell'universalismo come irrinunciabile conquista morale e politica; il riferimento a una concezione non teleologica né deterministica del senso della storia costituiscono eredità importanti per l'avvio di una ricerca indispensabile e urgente. Gramsci riteneva necessaria la elaborazione di una organica visione del mondo in cui fosse inscritta una precisa idea della "logica dello sviluppo storico". E sottolineava la funzione essenziale che essa svolge nella costituzione stessa del soggetto. Credo si debba ripartire da qui - da quella che, riprendendo una felice espressione di Franco Rodano, potremmo definire la nostra "storia possibile" -, facendo tesoro, naturalmente, degli insegnamenti della crisi.
Si tratta di pensare la storia senza fideismo, avendo anche chiara coscienza della pericolosità delle strutture di senso (della loro inclinazione a generare ferrei schemi normativi). Ma si tratta altresì di sapere che senza limpidi riferimenti allo svolgimento storico e senza la capacità di comprenderne il senso (il significato e la direttrice di marcia) si può tutt'al più conservare l'esistente, non certo promuoverne e governarne il mutamento. Cero non sia qui in gioco un'opinione, ma un tratta costitutivo della nostra cultura e antropologia. Inerisce al soggetto (individuale e collettivo), al suo costituirsi e pensarsi come soggetto, soprattutto al suo porsi come soggetto pratico e critico, il disporre di una idea della storia come vicenda coerente, leggibile e, in qualche misura, prevedibile. Potere pensare il passato e il futuro come articolazioni di un continuum logico non è un di più, qualcosa di cui si possa fare a meno. Ma una premessa indispensabile per il costituirsi di un rapporto pratico-critico tra soggetto e realtà. In questo senso si può dire, in conclusione, che senza una idea della storia come unità di senso - senza una nuova filosofia della storia - ci si può tutt'al più contrapporre episodicamente a quanto non si accetta, provocando crisi locali e ponendo ostacoli contingenti. Ma non si può mettere in moto alcun processo di trasformazione, nel quale occorre sapere da dove si viene e dove - e perché - si intende andare: e, soprattutto, chi si è e che cosa si vuole.

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