Memorie di cieco


J. Derrida, Memorie di cieco, a cura di Federico Ferrari
Abscondita, 2003

di Giuliana Rotondi

Il buio è l’oggetto. Insieme all’oscurità in cui vivono i protagonisti delle opere d’arte passate in rassegna. Il buio come principio base della creatività artistica (e della scrittura). L’invisibile come origine dell’atto creativo che anziché svelare il reale s’immerge nell’abisso del non visibile, da cui trae ispirazione.
Memorie di cieco di Jacques Derrida, scritto in occasione di una mostra organizzata dal museo del Louvre di Parigi, è un percorso filosofico, estetico ed esistenziale attraverso la ricca collezione del più grande museo di Francia.
L’intento è analizzare le opere pittoriche che hanno come protagonisti i non vedenti. Tra le più celebri quella della scuola del Guercino, Della scollatura sì, della pittura no, Tobia ridona la vista al padre nell’interpretazione di Rembrandt e di Rubens e La conversione di San Paolo di Caravaggio. Per descriverle Derrida non esita ad usare uno stile straniante, chiamando in causa i grandi padri del pensiero filosofico moderno, da Diderot a Benjamin, e un linguaggio che partendo dal ricco apparato iconografico si perde nei meandri della decostruzione di qualsiasi idea di visione chiara e distinta. A partire dalla considerazione iniziale secondo cui il cieco non è che la rappresentazione dell’impotenza originaria dell’occhio. Incapace di cogliere la realtà. Ma che può al massimo, brancolando nel buio delle tenebre, captare qualche traccia di reale, che rimanda a sua volta ad altri tratti o ad altre visioni cieche. Ricompare così un’evidente analogia con l’interpretazione derridiana della scrittura, perché, come sottolinea Federico Ferrari nella postfazione «il ritrarsi della linea, il suo differirsi nel suo stesso tracciarsi, è analoga al ritrarsi della parola».
Definire però Memorie di cieco un saggio filosofico, sarebbe limitante oltre che scorretto. Se è vero infatti che dal testo emerge chiaramente la filosofia dell’autore, è altrettanto vero che l’opera non agisce soltanto sulla componente razionale del lettore. Il quale, piuttosto, attratto e avviluppato da una luce di tenebra, segue la logica di un pensiero errante, finendo per trovarsi disorientato, senza certezze, né verità consolatorie. Non a caso c’è chi ha voluto leggere tra le righe, l’eco delle atmosfere oniriche di Kafka e di quelle allucinate e spettrali di Dostoevskij.
Il merito del testo sta in uno stile sapiente, capace di attraversare trasversalmente la tradizione biblica, artistica, autobiografica e letteraria, puntando dritto al cuore di chi legge, moltiplicando il tema centrale dell’oscurità per mettere il lettore in posizione aporetica, come chi assiste al susseguirsi di invenzioni dell’autore, privato degli ordinari termini di riferimento. Frequenti i rimandi ai grandi maestri della letteratura condannati ad una sofferta cecità, da Omero a Borges, da Milton a Joyce.
Il risultato è un percorso al buio. Oscuro e oscurante. A meno di abbandonarsi all’illuminante spiraglio di luce del pensiero strabordante del maestro, capace di disorientare e insieme creare. A partire dalla notte. E dall’invisibilità dell’origine.


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